L'imperatore romano, famoso per la sua crudeltà, la sua beffarda distruttività
e la tragica teatralità, dimostrò di avere insospettate doti politiche e militari (2)
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EPPURE C'ERA DELLA LOGICA
NELLA FOLLIA DI CALIGOLA
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Racconta Tacito che, poco prima di morire, l'imperatore Tiberio rivolgesse al giovane Caligola le seguenti parole: "Tu ucciderai questo ragazzo. E un altro ucciderà te". Il ragazzo cui alludeva, con le lacrime agli occhi il vecchio princeps, era il nipote Tiberio Gemello. Visione apocalittica, ma realistica: Tiberio vedeva il futuro di Roma, e soprattutto quello dell'Impero, trasformato in uno scenario di intrighi e crimini. Là dove il potere scaldava gli animi e abbagliava le speranze di chi era nella cerchia dei privilegiati, uccidere molto spesso era una cinica forma di difesa. Troppo difficile sembrava, nei corridoi del palazzo imperiale, sopravvivere fuori dai ruoli di vittime e carnefice.
Come detto nella prima puntata, la storiografia romana, che potremmo definire "di regime", dipinge Caligola come un imperatore folle: la sua condotta fu forse sconclusionata, ma rispose sempre a una logica. Salito al potere, Caligola abolisce la "lex de maiestate", che punisce con la morte qualsiasi attacco alla dignità dell'imperatore, eppure quando gli serve ricorre alla legge per liberarsi di avversari scomodi. Ordina la cremazione pubblica di tutti i documenti e lettere di cospiratori e responsabili di trame contro i propri famigliari (ma si vedrà come i più importanti di essi rimasero nelle sue mani…), grazia i condannati all'esilio, illustri nomi della società del tempo, da Publio Pomponio Secondo ad Annio Pollione, da Viniciano a Mamerco Scauro da Gneo Domizio a Vibio Marso.
Ordina l'eliminazione della censura da alcuni testi distrutti per ordine senatorio: riappaiono così opere di Tito Labieno, del retore Cremuzio Cordo e dello storico Cassio Severo, in precedenza pubblicamente "dannati". Sopprime tasse che improvvisamente però rispuntano al momento della bisogna. Ricopre di onori personaggi che, dopo poco, condanna a morte (tiene una scrupolosa contabilità degli omicidi commissionati, dividendoli in due voci: "di spada" e "di pugnale"!) o spedisce in esilio (ad esempio, le sue sorelle). Stigmatizza l'operato di Tiberio, ricorda in pubblico come da giovane fosse stato tentato dall'ucciderlo nel sonno per vendicare la distruzione della propria famiglia, e poi lo difende attaccando chi, per zelo, segue il nuovo imperatore in queste critiche al predecessore. "Con lui - scrive Dione Cassio nel "Romaike Istoria" - non si sapeva mai come comportarsi: chi otteneva buoni risultati lo doveva più al caso che alla propria abilità".
Scenario angoscioso per i senatori e per i nobili, in definitiva per tutti i cortigiani, che avevano fatto del servilismo e dell'astuta diplomazia delle parole e degli atteggiamenti un'arte per la scalata al privilegio.
Quanto a Caligola, sebbene con queste due categorie non avesse mancato di profondere provocazioni, non di rado dichiarava pubblicamente di preferire l'ordine equestre e il popolo ai senatori e ai nobili. In effetti l'imperatore si scatena contro il Senato, prima umiliandolo, poi decimandolo in quattro anni di potere: accade che egli tratti importanti politici da semplici portantini, o che parli in pubblico, come se fossero vivi, di senatori appena fatti eliminare.
In tutto questo, va tenuto conto un aspetto dell'indole di Caligola: il senso della spettacolarità. Due passioni mantengono vivo il giovane imperatore: lo sport e il teatro. Il figlio del soldato Germanico non sembra amare la vita militare, le daghe e i giavellotti quanto piuttosto gli spettacoli circensi, le sfide gladiatorie, le recite: si attornia di attori, musicanti, è un appassionato di cavalli (da qui, la provocazione di nominare senatore il proprio cavallo), impazzisce per le corse delle bighe e tifa senza remore la "squadra verde", una delle compagini sportive dell'Urbe. Frequenta il maneggio di questa squadra, vive con gli atleti.
Del suo lato "mostruoso", Svetonio racconta come, talvolta, al circo, improvvisamente ordinasse di levare i tendoni che riparavano dal sole, per lasciare il popolo sotto il sole cocente delle gradinate. Non solo: rischiando di scatenare tumulti, ordinava il cambiamento della scaletta degli spettacoli, privando il pubblico dei migliori gladiatori, sostituendoli con qualche malcapitato prelevato dagli spalti.
Sempre Svetonio racconta - nella sua "Vita dei Cesari" - di come Caligola lamentasse, nell'epoca del proprio principato, la mancanza di una grande tragedia che segnasse il suo regno nella memoria dei posteri. Come uno Stalin dell'antichità, così, l'imperatore creò scientificamente una carestia, annunciandola al popolo e chiudendo i granai.
In questa carrellata di gesti inconsulti e indecifrabili, Caligola inserisce anche i contorti rapporti con l'esercito, una delle istituzioni più sacre del mondo romano. Dione Cassio racconta di come la folgorazione nella mente dell'imperatore avvenne durante una passeggiata lungo il fiume Clitumno: Caligola si accorse che, dopotutto, esisteva un esercito potente e temuto ai suoi ordini. È così che nasce la prima spedizione contro i germani: Caligola sa che quel fiero popolo non si era mai arreso a Roma, e che i confini in terra germanica rimanevano immutati da anni. I gloriosi legionari non guadagnavano un metro, insomma.
Senza nemmeno tornare all'Urbe, Caligola decide di dirigersi a nord, mandando messaggeri che mobilitassero le truppe insediate in Spagna, in Africa e persino in Oriente. La sua marcia è senza pause, al punto che le coorti pretoriane - contravvenendo a una tradizione consolidata - devono caricare le insegne sui carri trainati da bestie da soma. Una volta raggiunta la Germania, tutto si ferma: le truppe si accampano, Caligola prende tempo e scatena una serie di punizioni contro i propri ufficiali. Non solo: raggiunta la costa del nord della Gallia - per coronare il sogno di invadere la difficile terra di Britannia - l'imperatore fa spiegare sulle rive dell'oceano i propri soldati, dà ordine di preparare navi e macchine da guerra, dopodiché impartisce ai legionari il compito di… raccogliere conchiglie e tornare a Roma, lodando beffardamente la "ricchezza" che da quel momento i soldati di Roma hanno nelle tasche.
L'aneddoto ha dell'incredibile, ma c'è un ma. Dione Cassio e, soprattutto, Svetonio non mancano di narrarlo isolato da un contesto fondamentale: i legionari non intendevano imbarcarsi nell'impresa britannica, coscienti del fatto che si trattava di un'operazione organizzata velocemente, improvvisata e ad alto rischio. Alcune ribellioni avevano disgustato a tal punto Caligola che questi decise di umiliare i propri soldati nel modo suddetto: le conchiglie sarebbero state il bottino che i legionari avrebbero portato a casa. Massimo sfregio, spettacolarità della misura adottata, sottile sarcasmo degno di un imperatore "disturbato", certo non di un pazzo. Quanto all'intera missione in Gallia, apparentemente partorita da uno sfizio infantile, va considerata la situazione politica del momento: la Britannia era stata invasa nel 55 e nel 54 a.C. da Giulio Cesare, che aveva però lasciato l'isola senza allestire insediamenti, e concludendo accordi con le popolazioni locali, sottomesse a tributo.
Con il passare del tempo la popolazione dei Catuvellauni cominciò a non rispettare gli accordi con Roma, cominciò a combattere i popoli vicini e - massimo affronto a Roma - a coniare proprie monete. Tra il 5 e il 10 d.C. i Catuvellauni possedevano un territorio che andava dall'attuale Northamptonshire fino al Tamigi: si erano così trasformati in una potenza in grado di minacciare la Gallia, oltremanica. Roma doveva offrire una dimostrazione di forza a nord del continente, rendendo chiaro ai britannici con quale velocità la macchina da guerra imperiale poteva raggiungere - alla testa del suo princeps - il confine estremo.
Alla luce di questa considerazione, si può quindi affermare che, dopotutto, l'ordine di Caligola non fosse meramente "folle".
La crudeltà di Caligola
Durezza e provocazione furono le armi che Caligola impiegò nell'arte di recuperare fondi per rimpinguare le casse dell'erario. L'imperatore aveva il potere di avocare a sé i possedimenti di chiunque, tanto che in quei tempi a Roma si sosteneva come fossero più fortunati i meno abbienti, non vivendo nell'incubo di essere depredati dall'indiscusso padrone del mondo. Il metodo più efficace per impossessarsi dei ben altrui, per Caligola, era quello più sbrigativo: la condanna capitale.
Non è raro il caso che, per le strade di Roma, Caligola incontri qualche ricco cittadino, rifletta sul suo patrimonio, e ordini di inviare al malcapitato cibi avvelenati o di giustiziarlo pretestuosamente, ordinando immantinente la confisca dei suoi beni. In altri casi, l'imperatore obbliga alcuni uomini in vista ad acquisti suicidi: un pretore di nome Adonio Saturnino fu distrutto economicamente mentre sonnecchiava a un'asta: al suo risveglio scoprì che Caligola aveva imputato a ogni suo movimento, di proposito, l'intenzione di alzare la posta per l'acquisto di gladiatori. Per la raccolta di fondi, infine, non trascurò nemmeno l'edificazione di un bordello di lusso sul Palatino., dove uomini di fiducia dell'imperatore si dedicavano anche al prestito ad usura, ovviamente a beneficio del principes.
Il sadismo di Caligola, poi, apparteneva, per così dire, alla tradizione di famiglia: i Cesari - anche quelli più benvoluti dalla storia, come Claudio - non si privavano certo del piacere della morte, comminata nei modi più curiosi.
Se Claudio ordinava le esecuzioni dei gladiatori senza casco, per poter osservare le loro espressioni nell'atto di spirare, Caligola prediligeva illudere le proprie vittime con il perdono, per poi colpirle. Molti i cittadini messi al bando, condannati all'esilio, e raggiunti, durante il viaggio, dall'ordine supremo di tagliarsi le vene immediatamente.
L'istinto sadico-omicida sembra non colpire le donne: Caligola arriva a prostituire le proprie sorelle a beneficio degli amici (e anche di sé stesso), ordina alle proprie amanti di camminare completamente nude nei banchetti imperiali, ripudia mogli e ne scippa altre agli sposi nel corso delle loro nozze (ad un nobile appena sposato improvvisamente dice "perché stai baciando mia moglie?", dopodiché afferra la malcapitata novella sposa e la porta in altra sede, per goderne. Ovviamente lo sposo non può muovere un dito).
Delle tre sorelle, però, una viene eletta a favorita: è Drusilla che, morendo nell'anno 38, fa piombare l'imperatore in un profondo stato di depressione. Sembra che Caligola trovasse la pace solo dopo aver sposato la quarta moglie, di nome Cesonia, molto simile all'adorata Drusilla.
In queste continue dimostrazioni di crudeltà sembra di cogliere, a differenza degli altri imperatori romani, un sottile proposito, che potremmo in un certo senso definire grandioso: la missione - silenziosa, grottesca - di Caligola sembra quella di voler dimostrare come l'intera struttura dell'Impero fosse basata su di un potere assoluto, puntellato da un sistema politico in fondo efficiente, che permetteva al proprio vertice la presenza di una figura anche imbelle, ma necessaria.
Caligola, beffardamente, vuole smascherare la teatralità dell'Impero, rimanendone al contempo affascinato: la sua corte si trasforma, ai suoi occhi, in quel palcoscenico sul quale - da attore mancato - si sceglie il ruolo di protagonista, regista, scenografo. Dione Cassio scrive: "Volle fare della notte il giorno, e del mare la terra", a significare l'assurdità e la grandiosità di alcuni suoi ordini. Quando l'astrologo Trasillo, ancora ai tempi di Tiberio, gli predice che avrebbe avuto tante possibilità di diventare imperatore "quante di attraversare il golfo di Baia", immediatamente Caligola ordina che tutte le navi deputate a portare il grano in Egitto siano disposte una accanto all'altra proprio sul golfo di Baia, creando un ponte artificiale di quattro chilometri, sul quale cavalca avanti e indietro per due giorni. Quel grano, inutile dirlo, serviva a sfamare le popolazioni d'Egitto, ma non sembrò, questo, preoccupare il sovrano del mondo.
"Che mi odino pure, purché mi temano", amava dire Caligola: indubbiamente, queste crudeli messe in scena contribuivano a rendere l'immagine dell'imperatore invisa a molti. Tanto che apparve naturale ipotizzare una sua supposta follia, conseguente a una lunga malattia ("di imprecisata natura") occorsagli nell'ottobre dell'anno 37. A Roma, si era sparsa addirittura la voce che l'imperatore stesse per morire. Durante la malattia Caligola nominò la sorella Drusilla erede dei beni e del potere, spiazzando tutta la Roma che contava. Poi, il recupero miracoloso.
A seguito di quella dura esperienza, i tratti caratteriali di Caligola cominciarono a mutare. Non va escluso, però, la già citata infatuazione culturale per il ruolo del sovrano "orientale", del mito egizio nella formazione del giovane, futuro Cesare. L'istituzione del culto di Iside in Roma, il matrimonio, perlomeno formale, con la sorella Drusilla, come accadeva nella tradizione faraonica, la pretesa di essere considerato semidio, nonché quella di far edificare una sua statua all'interno del Tempio di Gerusalemme (ipotesi fortunatamente sventata: gli ebrei non l'avrebbero mai accettato, e avrebbero scatenato una guerra ai confini orientali), sono tutti simboli di un "sogno". Un sogno "monarchico" che a Roma veniva visto, per tradizione, come fumo negli occhi: anzi, come vero e proprio "peccato originale" della storia romana.
Questa mancanza di senso della realtà poteva essere figlia di una dolorosa ecatombe famigliare, quella che colpì i suoi parenti più vicini, per mano di Tiberio: solo distaccandosi dalla realtà, il giovane Caligola avrebbe potuto mantenere un equilibrio perlomeno formale, vivendo accanto al proprio carnefice, onorandolo e sostituendolo al trono. Questo "flirt" continuo con la morte lo avrebbe spinto poi a vivere senza particolari precauzioni per la sua sicurezza, cosa che gli fu fatale nel momento della congiura che pose fine alla sua vita.
Quattro anni di potere assoluto
Considerata la situazione, prese per verosimili, se non per completamente vere, le narrazioni di Svetonio e Dione Cassio, bisogna comunque considerare la parte razionale e, per così dire, presentabile di Caligola. Dopotutto, il Senato e i cittadini potenti dell'Urbe avrebbero potuto - nel caso lo avessero voluto e per di più con il legittimo pretesto di eliminare un folle nocivo per l'Impero - sbarazzarsi di Caligola quanto prima. Come si spiega il suo potere assoluto per quattro lunghi anni?
La verità è che il destino aiutò Caligola: il giovane figlio di Germanico capitò sulla scena romana al momento giusto. Non solo era figlio di un generale amatissimo dal popolo, non macchiato dalla prosaicità della gestione del principato, ma discendeva da una famiglia devastata dal precedente imperatore, Tiberio, un uomo non amato dal popolo per la sua ritrosia e per il suo distacco dai gusti e dalle passioni della gente comune. Caligola, invece, come detto era amante degli spettacoli, dei giochi e tifosissimo degli sport del tempo: in questo, ne era ben consapevole, era più vicino alla gente. Insomma, con un'indubbia forzatura si potrebbe definire Caligola un Peròn dell'antichità. Come il dittatore argentino rimaneva in maniche di camicia sul balcone della Casa Rosada, così Caligola dosava astutamente gesti e atteggiamenti che lo rappresentavano come un romano comune, in contrapposizione al romano privilegiato. E chi, se non i senatori, appartenevano a quest'ultima categoria?
Eppure, quando era sul punto di salire al potere, Caligola riscontrò i favori del Senato: Tiberio se ne stava a Capri, i suoi sgherri sapevano come mantenere l'ordine a Roma, decimando le fila della Curia. La paura sembrava cedere il posto alla speranza: Caligola era giovane, lo si reputava, prevedibilmente, più malleabile del vecchio e sospettoso princeps successore di Augusto. Un altro vantaggio, paradossale, per il nuovo imperatore risiedeva proprio nella caratteristica che aveva reso detestabile il suo predecessore: Tiberio era stato un imperatore economo, aveva retto Roma con rigore e grigiore. Caligola ereditava casse floride e un'opinione pubblica assetata di novità e di fasto.
I primi provvedimenti presi da Caligola sembrano annunciare una nuova alba per l'Impero: insediato il 28 marzo del 37 d.C., Caligola comincia con l'adottare il rivale Tiberio Gemello, lo nomina "principe della gioventù", dopodiché sceglie come collega di consolato lo zio Claudio (futuro imperatore), unico parente superstite. I suoi primi provvedimenti sono di amnistia e liberalizzazione, fa pagare alla plebe la bellezza di 45 milioni di sesterzi che il testamento di Tiberio aveva previsto per il popolo di Roma al momento della sua morte. Tiberio, prima di fare lo stesso con il lascito di Augusto, aveva di contro atteso un tempo immemorabile. Anche pretoriani e legionari vennero trattati coi guanti.
Il mutamento comincia con la già citata malattia che colpì il nuovo imperatore e con un provvedimento che, seppur di carattere formale, insospettisce il Senato: Caligola, infatti, concede alla plebe alcuni vecchi diritti elettorali. Ovviamente, questa mossa - assolutamente formale, in quanto l'imperatore continuava a decidere su tutto - aveva lo scopo di ingraziarsi la plebe prima delle "grandi manovre". Caligola intendeva porsi come l'eroe popolare pronto a colpire i privilegi delle classi superiori.
Quattro assassinii ordinati dall'imperatore battezzarono col sangue il nuovo regno. Più che assassinii, si dovrebbe parlare di "suicidi su commissione", una perversa tradizione che a Roma vigeva da tempo, ma che Caligola trasformò in "arte". Tra la fine dell'anno 37 e la primavera del 38, Caligola si sbarazza così di Tiberio Gemello, il "fratello" appena onorato, il suocero C. Silano, il "fido" Macrone, l'uomo dei lavori sporchi che tanto aiutò Caligola, e la moglie di lui Ennia.
Particolarmente crudo il suicido del giovanissimo Tiberio Gemello che, non sapendo come uccidersi, dovette chiedere delucidazioni ai centurioni davanti a lui: i sicari "osservatori" si limitarono a indicargli il punto della gola dove colpire. Così scrive, in modo efficace, Filone Alessandrino nel suo "De legatione ad Gaium": "Quando ebbe ben bene imparato quella prima ed ultima lezione, si fece, forzatamente, assassino di se stesso".
Ovviamente, la letteratura avversa a Caligola si scatenò contro queste sentenze e contro chi le aveva comminate, presentandole come volere di una mente malata, ossessionata dalle cospirazioni.
In realtà, Silano - padre della prima moglie di Caligola, Giunia Claudilla, sposata nel periodo di Capri, morta di parto - si muoveva a corte con troppa naturalezza, cercando di corrompere a proprio vantaggio i consiglieri dell'imperatore. Nella Roma del periodo, questo sembrava un motivo abbastanza solido per meritarsi la condanna capitale: in più, Caligola aveva modo di sospettare un'alleanza tra Silano e Macrone. Le "soluzioni" dei problemi Tiberio Gemello e Macrone avevano motivi ancora più fondati: Caligola aveva intuito prima la pericolosità e poi l'effettiva realizzazione di un'alleanza tra il giovane co-erede al potere di Tiberio e il capo dei pretoriani.
La malattia di Caligola aveva fatto nascere in Macrone la tentazione di un colpo di mano: addirittura, si pensa che, puntando sul giovane Tiberio Gemello, Macrone cercasse di regalarsi il ruolo di imperatore seguendo una trama a lungo termine. Seguendo una tecnica "ante-staliniana", Caligola si sbarazzò del cugino Tiberio Gemello, per poi ricoprirlo di onori e farlo seppellire nel Mausoleo di Augusto.
Le mosse di Caligola non avevano quindi nulla di folle, bensì di cinicamente realista: il potere assoluto a Roma si manteneva senza alcun cedimento e prevenendo le cospirazioni. Lo stesso Macrone, che aveva aiutato Caligola nel salire al principato, sapeva che, con un avvicendamento tra l'imperatore e Tiberio Gemello, gli si prospettavano due strade: o diventare l'uomo forte al servizio del possibile nuovo imperatore, o cedere il proprio posto a un altro comandante dei pretoriani.
E in quel ruolo non si ricevevano lettere di dimissioni, solo pugnalate. La stessa macchina del potere imperiale, quindi, sembrava portare a effetti mostruosi eppure, per così dire, naturali. Nel giugno dell'anno 38, Caligola sembrava essersi sbarazzato di ogni pericolo. Il destino aveva però in serbo per lui il più grande dolore, forse l'unico dolore che il suo cuore inaridito dal potere poteva accogliere: la morte dell'adorata sorella Drusilla. Caligola decretò lutto rigidissimo, ordinò la sospensione degli affari, le feste, persino i banchetti privati. Roma doveva smettere ogni sorriso. A quel punto, si dice che il giovane imperatore saltasse sul proprio cavallo, lasciò Roma, vagò per la terra campana, raggiunse Siracusa e tornò nell'urbe in condizioni pietose.
Come scrive Svetonio: "senza essersi tagliato né barba né capelli". Alla sorella, Caligola aveva concesso il ruolo di sua erede nei giorni della famosa malattia: dopo funerali di stato in pompa magna, a Drusilla vennero dedicate statue, persino un culto ufficiale con sacerdoti e sacerdotesse. Drusilla divenne - per decreto del Senato - la nuova dea Panthea: un sentore, prezzolato da Caligola con un milione di sesterzi, dichiarò senza vergognarsi di avere visto Drusilla "ascendere in cielo per prendere posto fra gli dei". Tutta questa mascherata - che potrebbe erroneamente finire sotto la voce del "gossip" storico - è tutt'altro che ininfluente: divinizzare la propria sorella, concedere a una donna (unica nella storia romana) massimi onori ufficiali, e solo perché consanguinea al princeps, puzzava, alle narici del Senato e dei cittadini romani, di monarchia. Per di più, di monarchia di stampo orientale.
Caligola cambia volto
Ora che Tiberio Gemello e Macrone erano eliminati, Caligola non vedeva più ostacoli, e poteva scagliarsi liberamente contro il Senato. Prima vittima, il governatore dell'Egitto Flacco, deposto, inviato in esilio e poi fatto uccidere. Nessun funzionario - era questo il messaggio - poteva considerarsi immune dalla collera dell'imperatore: una collera, lo dobbiamo ripetere, tutt'altro che folle. Flacco aveva parteggiato per Tiberio Gemello, aveva flirtato politicamente con Macrone, e godeva di favori nelle file di quel Senato che, a sua volta, non aveva mosso un dito quando il vecchio imperatore Tiberio decimava la famiglia di Caligola, da Germanico in giù.
Un imperatore teatrale come Caligola non poteva affidarsi ai meri sotterfugi o alle silenziose sentenze di morte: un imprecisato mattino di gennaio dell'anno 39, il figlio di Germanico decise di prendersi una rivincita totale. L'imperatore entrò nel cuore del Senato, nella Curia, e - di fronte agli esterrefatti senatori - pronunciò un discorso in crescendo, culminante nell'accusa diretta a quel consesso e nell'aperta constatazione che quegli uomini volessero la sua morte. Il senso del discorso era questo: Tiberio fu il tiranno che schiacciò la mia famiglia, voi senatori non muoveste un dito per salvarla. Dopodiché, uscì di scena, lasciando un gruppo di uomini in preda al terrore: tutto ora era chiaro e lampante. Caligola lasciava per un periodo imprecisato Roma, non senza ripristinare quella lex de maiestate annullata ai suoi esordi di principato. Da quel momento, sarebbe bastato un cenno dell'imperatore, una minima delazione che lo insospettisse, per quanto falsa, per finire sotto i colpi della daga.
L'imperatore sfruttava la vecchia formula del divide et impera: quando la delazione si fa arma quotidiana, i suoi esecutori si moltiplicano come in un verminaio, per piccoli motivi di rivalità personale, invidie, gelosie, cupidigia.
Eppure, la teatralità di Caligola fu ciò che lo perse: il giovane Cesare avrebbe potuto colpire il Senato nello stile impietoso e silenzioso di Tiberio, e invece preferì la condanna aperta. Il Senato poté, così, prepararsi al peggio. Quella che era, ai tempi, una pallida resistenza per lo più ideologica all'imperatore, si trasformò in un disperato piano di reazione. Mentre le condanne fioccavano, e illustri senatori e uomini di cultura (Seneca si salvò per miracolo) perivano sotto i colpi dei sicari imperiali, la Curia si lanciava alla ricerca di un uomo forte in grado di reggere le redini di una congiura.
Sembrò di averlo trovato in Cornelio Lentulo Getulico, comandante dell'armata dell'Alta Germania la quale, con 10 legioni, era forse la compagine più forte a disposizione dell'Impero. Dai primi anni trenta Getulico reggeva le sorti delle truppe ai confini del Nord, era apprezzato dai suoi uomini proprio perché sapeva abilmente tirare a campare, mantenendo il limes, ma evitando accuratamente di avanzare contro le tribù germaniche. Il piano iniziale fu quello di approfittare della trasferta di Caligola proprio presso le legioni in Germania, per procedere all'assassinio dell'imperatore. Così facendo, le truppe non avrebbero nemmeno dovuto marciare su Roma, e il Senato avrebbe potuto nominare imperatore proprio quel Lepido, ex marito di Drusilla, che Caligola per molto tempo aveva mostrato di apprezzare.
Questo primo complotto fu sventato, non si sa grazie a quale intervento. Fatto sta che l'improvvisa partenza da Mevania, nei pressi del Clitumno, per la Germania (che Svetonio definisce come una "gita" irrazionale comandata da un imperatore squilibrato, deciso su due piedi a cominciare una campagna militare) aveva esattamente l'intento di prendere in contropiede Getulico.
Era l'autunno del 39, e nel giro di pochi giorni Caligola avrebbe regolato i conti all'interno dell'accampamento retto da Getulico: il comandante veniva condannato a morte dopo tortura, stessa sorte per Lepido, decapitato sul posto (Caligola se lo era pretestuosamente portato appresso proprio per questo), mentre le sorelle di Caligola, Agrippina e Giulia Livilla venivano esiliate nelle isole pontine, perché sospettate di aver partecipato alla congiura. Agrippina, la futura madre di Nerone, era quasi sicuramente coinvolta nell'operazione: assetata di potere, dopo la morte di Drusilla, si era lanciata tra le braccia del vedovo "inconsolabile" Lepido, e con lui aveva probabilmente partorito sogni di gloria, a spese di Caligola. Anche questa sentenza di esilio, comminata dall'imperatore, come si può ben vedere non era figlia di una decisione irrazionale.
Sventata la congiura, Caligola poteva sognare la ripresa di una campagna di Germania, che proseguisse l'operato del mitico padre Germanico. Getulico fu sostituito con Servio Sulpicio Galba nella Germania Superiore, Publio Gabinio Secondo venne preposto alla Germania Inferiore.
Galba (che sarebbe divenuto in futuro imperatore per pochi mesi) si rivelò generale capace. Disce milites militare. Galba est, non Gaetulicus, e cioè "Impara a militare, o soldato. Ora c'è Galba, non più Getulico". Basta questo motto, popolare nella Roma di quel tempo,
Già nel marzo
dell'anno 40
Caligola rinviò
l'invasione oltremanica.
Questa, nel 43-44,
sarebbe toccata al
successore Claudio |
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per far comprendere come le cose fossero cambiate negli accampamenti. Con valenti generali, l'imperatore si illudeva di poter finalmente dilagare oltre il fiume Reno, dove dai tempi di Germanico i legionari avanzavano e indietreggiavano, con grandi spese militari.
Da molto tempo, lo stallo sembrava la soluzione silenziosamente accettata dalle tribù germaniche e dai romani: Caligola, preso da sogni di gloria, voleva far saltare quell'equilibrio. Le prime vittorie di Galba permisero a Caligola di spostarsi a nord, fino al nord dell'odierna Francia, sulla costa di Normandia. L'inverno non era certamente la stagione più adatta per una colossale operazione militare a cavallo della Manica, eppure il sogno di Caligola era quello di invadere la Britannia.
Si attese dunque la primavera. Svetonio descrive questi mutamenti di strategia come la conseguenza di una mente squilibrata, eppure lo spostamento dei soldati verso una campagna britannica - dopo gli iniziali successi e le successive delusioni in Germania - serviva a mantenere in tensione i soldati. Allo stesso tempo, si rivelava troppo rischioso distogliere le legioni dal confine del Reno. Già nel marzo dell'anno 40 Caligola rinviò l'invasione oltremanica. Questa, nel 43-44, sarebbe toccata al successore Claudio. Cosa aveva spinto l'imperatore a rinunciare all'impresa?
Svetonio scrive della folle decisione di Caligola di perdere tempo e poi ordinare ai legionari di raccogliere conchiglie e tornare a Roma, appesantiti da quelle "ricchezze". Detta così, sembra la decisione di uno squilibrato: la realtà fu che i soldati - timorosi di un mondo che non conoscevano, la Britannia, e nel quale si favoleggia la presenza di "mostri marini e di esseri metà uomini e metà bestie" (spiega Tacito nei suoi "Annales") - si rifiutarono semplicemente di eseguire gli ordini.
Caligola aveva mal condotto la campagna in Germania, non aveva esperienza militare, né il carisma di un Germanico o di un Giulio Cesare: i timori dei legionari erano oltremodo giustificati. All'imperatore non restava che umiliare simbolicamente i suoi soldati, rinunciando saggiamente all'operazione militare, ma al contempo ordinando la sceneggiata delle conchiglie. Un altro gesto teatrale, e di sottile perfidia. Nonché abbastanza liberale per un periodo in cui i princeps potevano ordinare punizioni esemplari terrificanti.
Alla fine di quel convulso biennio, quindi, il popolo romano si ritrovò a giudicare severamente quella che sembrava una perdita di tempo e di denaro da parte di Caligola. Eppure, Caligola aveva in pochi mesi cambiato le gerarchie dell'esercito al Nord, riportato la disciplina nelle legioni ivi stanziate, permesso qualche vittoria in Germania (con la riconquista dell'unica insegna superstite delle legioni di Varo annientate dall'agguato di Arminio ai tempi di Augusto), e infine preparato il terreno per le successive campagne di Claudio.
La resa dei conti
Ora Caligola, dopo mesi di lontananza, si apprestava a tornare a Roma,. I senatori, prevedibilmente, ne erano terrorizzati. Tanto da inviare una delegazione incontro all'imperatore, con lo scopo di pregarlo di… affrettare il ritorno. Una captatio benevolentiae che Caligola sdegnò: l'imperatore rispose che sarebbe tornato nel momento opportuno, e in compagnia della sua daga. Per il momento, si recò in Campania, e solo nell'estate del 40 tornò a Roma. A quel punto, l'imperatore cominciò a provocare il Senato con una serie di disposizioni di stampo "orientale".
Caligola cominciò a vestirsi come un dio dell'Olimpo, fece innalzare templi e indire culti in suo onore. Pretese che chiunque si prostrasse al suo cospetto: la formula, ipocrita ma formalmente utile del primus inter pares (studiata da Augusto) veniva così a cadere. Caligola stava sfidando apertamente il Senato, nel tentativo teatrale di ridicolizzarlo. È di questi tempi la voce - mai realmente comprovata - che l'imperatore volesse, massimo scorno alla Curia, rendere senatore il proprio cavallo. Così come in questo periodo a Roma si cominciò a vociferare di uno spostamento della capitale ad Alessandria.
Il Senato non poteva più esimersi dall'agire: una nuova cospirazione fu tessuta nell'ombra., mentre altre - di minore spessore - nascevano e morivano nel giro di poche settimane. Caligola aveva rischiato troppo: era entrato in piena collisione col Senato, ben sapendo che Roma non avrebbe mai accettato che un'istituzione così prestigiosa potesse essere cancellata, se non andando lui stesso incontro all'accusa infamante di voler diventare re.
A ciò, vada aggiunto che verso la fine del 40, l'imperatore commise l'errore di aumentare le tasse, alienandosi il ceto imprenditoriale e la plebe. Isolato, seppur splendidamente potente, Caligola si scavò la fossa in modo grandioso, degno della sua fama.
La quarta congiura - dopo tre, fallite, nelle quali diversi senatori erano stati torturati e uccisi al cospetto dello stesso imperatore - sarebbe andata a buon fine: ad ordirla, senatori come Valerio Asiatico, ex console, e poi Pompeio, Lucio Annio Viniciano e, particolare non indifferente, il liberto Callisto, uomo di fiducia di Caligola. La "manovalanza" fu identificata tra gli ufficiali superiori del Pretorio: due di loro - Papinio e Cassio Cherea - avrebbero ucciso l'imperatore. Cassio, soprattutto, odiava l'imperatore per le continue allusioni in pubblico, da parte di Caligola, alla sua voce non virile. L'ultimo fondamentale atto fu corrompere in parte, ed eliminare, la fedelissima guardia batava, gli sgherri che seguivano passo passo l'imperatore, e che sgozzavano sul posto chiunque si limitasse a un piccolo segno sospetto.
L'occasione capitò il 17 gennaio del 41, all'inizio dei ludi palatini. Di fronte al palazzo imperiale venne allestito un teatro mobile, dove affluì moltissima gente: difficile per le guardie controllare possibili sicari mischiati alla folla. Quando, come sua abitudine, Caligola decise di allontanarsi dal teatro per fare un bagno e pranzare, il piano scattò. Con Caligola erano lo zio Claudio, il cognato Marco Vinicio e Valerio Asiatico. I congiurati riuscirono ad isolare l'imperatore dalla scorta, entro gli stretti vicoli nei pressi del teatro: un gruppo di attori di strada indusse Caligola a fermarsi: a questo punto Cassio Cherea colpì l'imperatore al collo e alla spalla.
Ogni tentativo di fuga era chiuso: anche Cornelio Sabino, un altro tribuno delle coorti pretorie, lo colpì: seguirono più di trenta pugnalate da parte dei vari congiurati. Caligola si accasciò al suolo, tra i rumori e le urla di una festa grandiosa, da lui voluta. Aveva solo 29 anni. Nelle ore che seguirono, l'avidità dei congiurati, e dei senatori in genere, titubanti sulla scelta di un successore; la determinatezza dei pretoriani, che non intendevano perdere, con la figura dell'imperatore, i loro privilegi; l'astuzia di Claudio, ritenuto innocuo e non troppo intelligente dai pretoriani e quindi facilmente utilizzabile come "uomo di paglia"; le sommosse del popolo, che comunque non gradì l'attentato a un Cesare; tutto questo portò a una situazione di massima incertezza, della quale si sarebbe avvantaggiato proprio Claudio. Le sorelle di Caligola tornarono dall'esilio: Agrippina finirà per sposare Claudio, ricominciando - attraverso il figlio Nerone - la sua scalata al potere. I senatori, isolati, dovettero far buon viso a cattivo gioco: circondati dal popolo, che invocava Claudio imperatore, pressati dai pretoriani, traditi nelle loro stesse file dai più pavidi, che preferirono "allinearsi", non mossero dito. Scelsero così, come capro espiatorio della congiura, proprio Cassio Cherea, cui non restò altro che suicidarsi durante la fuga. Dalla prima pugnalata inferta a Caligola all'invocazione di Claudio imperatore erano passate solo ventiquattro ore: il Senato era ancora in ginocchio, al cospetto di un nuovo Cesare.
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BIBLIOGRAFIA- Caligola di Roland Auguet, Editori Riuniti, pp.164, ottobre 1984
- Vita dei Cesari di Svetonio, Garzanti, pp. 179.220, giugno 1980
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