CATTEDRA
Tormentoni d’assalto: larghe
intese e tasse in prima linea.
di PAOLO MARIA DI STEFANO

Mai più larghe intese. Dal palco, un caposaldo di programma dell’aspirante segretario PD. Come se rifiutare un metodo di lavoro servisse a sanare in tutto o in parte il vuoto che caratterizza le proposte politiche. Dall’altra parte si sta un po’ – non tanto! – meglio: si rifonda un partito e si avocano tutti i poteri affinché si possa evitare la decadenza che dovrebbe seguire ad una condanna definitiva. Poco più in là, il programma è chiaro: vogliamo il potere, lo vogliamo subito e anche vogliamo esser soli a gestirlo. Quanto di più banale è possibile immaginare. E’ una battuta, ma pure…

A me sembra estremamente grave che si possa rigettare in modo aprioristico un metodo di lavoro – la ricerca di una intesa ampia, appunto – che potrebbe garantire non tanto e non solo quella governabilità in assenza della quale sembra che l’Italia sia destinata ad accelerare sulla via del declino, quanto soprattutto la vita stessa di uno Stato, la cui vera natura sembra troppo spesso ignorata.
Certamente, se quelle intese si reggono quasi esclusivamente sugli interessi personali di uno o più soggetti, e le sorti del Governo a questi sono indissolubilmente legate, il minimo che si possa fare è denunziare la situazione e rifiutare il metodo.
Rifiutarlo a prescindere indica proprio che la volontà è almeno quella di far prevalere il partito, con priorità, indipendentemente da ogni altra considerazione. E con molta probabilità, la volontà che il partito prevalga è legata a quella che prevalgano interessi personali o di gruppo. Che corrisponde, poi, a quella distorta visione del partito sempre più attuale, ormai radicata e, probabilmente, causa non ultima della tanto sottolineata disaffezione per la Politica.

Ma se utilizzato sulla base di pianificazioni della gestione dello Stato in toto o anche soltanto per materie singole e rilevanti, il metodo delle “intese” (più o meno larghe che siano) non può che dimostrare che gli aderenti hanno saputo svolgere un lavoro più o meno buono e ben fatto, ma certamente positivo.

Ed è qui, forse, il problema di base: i partiti politici (e tutti i soggetti ad essi assimilabili e assimilati) dovrebbero disporre, oltre che di una chiara descrizione dello Stato che si intende costruire e difendere, di tutta una serie di pianificazioni operative (si badi: pianificazioni, non proposte o programmi) strutturate secondo una metodologia molto precisa, sostanzialmente la stessa messa in atto dalle imprese. Messe a confronto, non è impossibile costruire pianificazioni di gestione comuni, tali da consentire il raggiungimento di “intese” di rilievo, operativamente concrete ed affidabili.

Allora, il problema non è il rifiuto aprioristico di una metodologia di lavoro, bensì il proporre – da parte dei candidati alla guida di un qualsiasi partito – le priorità alle quali l’azione del Partito stesso deve ispirarsi e le relative pianificazioni di gestione.

Che è esattamente quello che manca ai candidati segretari, ovviamente in una con i Partiti e simili (e con i sindacati): la capacità di proporre e stimolare pianificazioni di gestione degli scambi che “fanno” lo Stato e che dovrebbero costituire la base di ogni Stato futuro.

Mai più l’attuale sistema elettorale – slogan da anni ormai abusato – potrebbe avere agganci interessanti con quanto sopra. Cosa si oppone a che, invece di sottoporre agli elettori proposte politiche vaghe quanto roboanti e suggestive, si chieda il consenso elettorale su pianificazioni di gestione quanto più complete e affidabili possibile? Il cittadino sarebbe chiamato ad approvare un’attività concreta e, soprattutto, impegnativa e controllabile, conoscendone tutte le componenti. Si realizzerebbe così, intanto, una forma di democrazia diretta a mio avviso tutt’altro che trascurabile; poi, sarebbe giustificata almeno in gran parte l’indicazione diretta da parte dei Partiti di candidati scelti per la capacità di operare perché i piani di gestione siano attuati in modo corretto e in modo corretto possano anche essere modificati, se e quando necessario; infine, gli eletti ed i Partiti risponderebbero agli elettori se e quando gli impegni di materia, di modo, di tempo, di costo e di luogo dovessero essere in tutto o in parte disattesi.
E il controllo è immaginabile possa avvenire in tempi non biblici e soprattutto su fatti assolutamente concreti.
E forse i cittadini tornerebbero ad interessarsi “affettuosamente” alla Politica.

Il sistema fiscale dello Stato fa parte integrante di questo ragionamento. Nelle imprese si chiama “marketing finanziario”, e il suo scopo è l’assicurarsi quella parte di risorse che sono destinate a coprire quanto non è direttamente frutto delle vendite dei prodotti, beni o servizi che siano. Similmente, lo Stato si procura le risorse necessarie alla propria vita pianificando il flusso finanziario. Il danaro è una merce qualsiasi, e dunque costa e, con qualche probabilità, nel sistema economico attuale il suo prezzo è soggetto alla così detta legge della domanda e dell’offerta. Una parte del problema sta dunque nel “comprare danaro” al prezzo minore.
L’altra parte è quella che più immediatamente e direttamente i cittadini avvertono: lo Stato “vende” soprattutto servizi, per una parte dei quali chiede il pagamento del prezzo indipendentemente dall’uso diretto del prodotto (le imposte), mentre per un’altra parte (le tasse) chiede il pagamento al momento dell’acquisto.
E naturalmente, come sempre accade, il pagamento di un qualsiasi “prezzo” implica un sacrificio, ed ogni sacrificio è il contrario di un piacere, e generalmente si è più contenti se si riesce a diminuire il “dispiacere” quando non addirittura ad eliminarlo.
Allora almeno una parte del problema “politico” consiste in questo: lo Stato ha il dovere verso se stesso come persona di “vendersi” alla collettività nel modo meno spiacevole o, meglio, nel modo più piacevole possibile.
Pagare le imposte dovrebbe essere un piacere.
Ma questo è possibile solo in presenza di pianificazioni di gestione degli scambi messi in atto dallo Stato (e dagli altri enti pubblici dotati di capacità di imposizione) le quali siano riuscite a convincere i contribuenti che ogni singolo sacrificio è un investimento e concorre a “creare utilità per lui” a costi inferiori a quelli che egli dovrebbe sopportare se fosse costretto a soddisfare da solo il o i bisogni ai quali l’imposta si riferisce.
Di qui, non l’opportunità bensì l’obbligo da parte “dello Stato” (della Politica) di descrivere esattamente come vengono utilizzate le risorse delle quali il cittadino coattivamente si priva.
E una pianificazione di gestione del sistema tributario appare il solo modo per cercar di ottenere questo risultato.
Va da sé che una Politica che elabora e comunica pianificazioni di gestione affidabili aventi per oggetto almeno i principali tra gli scambi con i cittadini è già molto avanti sulla strada della “vendita” corretta del sistema fiscale: come sempre accade, un buon prodotto non solo è prevenduto, ma consente di acquisire risorse da destinare eventualmente allo scambio di prodotti meno ricchi perché dal costo di produzione molto elevato o vendibili a prezzi non remunerativi, spesso non in grado di coprire i costi neppure in parte rilevante.

E forse è il caso di ricordare che – almeno nella gestione dello Stato – non è una soluzione l’abolire il servizio: rinunziare ad esempio all’assistenza sanitaria o al sostegno ai diversamente abili non è scelta possibile ad uno Stato che abbia rinunciato a tutto o anche solo a parte della filosofia economica dell’arricchimento a spese dei più deboli. Come non lo è il rinunziare ad una “scuola” (in senso lato) di alta qualità per uno Stato che pure eventualmente persegua in atto l’arricchimento a oltranza di pochi: presto o tardi, il gap culturale colpirà anche i più ricchi, perché i “più colti” di altri Paesi saranno in grado di dimostrare di possedere la maggior forza necessaria per appropriarsi delle ricchezze attualmente a disposizione dei “meno colti” e dunque oramai “più deboli”.

La continua attenzione ai costi dello Stato è una attività dalla quale non è possibile prescindere: uno Stato che costa troppo è destinato a fallire. Che può apparire una banalità, ma a me sembra che il pericolo sia più che reale, anche se tutt’ora esiste qualcuno che sostiene che uno Stato non può fallire. Certamente, però, se la Politica – alla quale spetta il compito di intervenire nella gestione anche economica dello Stato – è innanzitutto protesa a tutelare privilegi di ogni tipo e, pur conoscendoli, è timorosa di affrontare questi come gli altri infiniti sprechi di risorse, mi permetto di dire che tutto sarà stato e sarà inutile.
Dell’argomento mi sono occupato più volte, in sedi diverse e con accenti che ho cercato di adeguare alle circostanze. E ne ho scritto anche su queste pagine.
Quindi non mi ripeterò più che tanto.
Ma desidero richiamare l’attenzione su di una delle più stupide osservazioni ripetute ogniqualvolta si propone un qualche rimedio. Questa: “ma quanto vuoi che si risparmi! Non ne vale la pena. Sono ben altri gli interventi necessari….”, spesso condita con un’altra, meno stupida ma comunque non particolarmente brillante e in qualche modo ultimativa: “la legge lo consente!”.
Per cui, non è possibile intervenire sulle pensioni megagalattiche, né su quelle da novantamila euro al mese e neppure su quelle da diecimila (sempre euro e sempre al mese); ed è diabolico suggerire di rimborsare i viaggi ed i soggiorni in ragione di classe turistica, alberghi a tre stelle e ristoranti “normali”, a personale pubblico in una con il personale privato; ed è addirittura da condanna a morte immediata stabilire un rapporto preciso tra un “salario minimo” e lo stipendio di un amministratore delegato. Figuriamoci se si può immaginare di mettere a stipendio l’imprenditore proprietario o di provvedere ad una distribuzione delle ricchezze prodotte diversa e più equa di quella attuale!

Nella migliore delle ipotesi, ti danno del “comunista”, ed esserlo è ancora riconosciuto come il cancro della società civile. Che sarà anche vero, ma c’è qualcosa di peggiore, alla quale molti, troppi si adeguano: l’assumere la funzione di clienti e servi e sodali di coloro che attualmente dispongono di ricchezze create secundum lege e dunque con licenza di uccidere. E che nel loro essere se non degli Dei, certo simili al ricco Epulone, lasciano cadere dalla propria tavola le briciole destinate a nutrire un popolo di affamati venditori di lodi e blandizie, e magari anche di prestazioni sessuali.
Un popolo disposto a tutto per poche briciole, appunto.

Il voto segreto dei senatori sulla questione della decadenza è un altro dei tormentoni italiani, anche fuorviante, io credo. Non c’è dubbio che al voto segreto possa guardarsi come protezione della privacy (tormentone dei tormentoni, questa!), ma consentirlo a quelli che dovrebbero essere i garanti della volontà popolare nella gestione dello Stato e proprio nell’esercizio delle funzioni loro assegnate è senza dubbio qualcosa di inammissibile. Non tanto e non solo perché i cittadini hanno diritto di conoscere tutto su quanto accade alle Camere, quanto soprattutto perché ogni eletto in un modo o nell’altro è tenuto ad onorare un mandato, e dunque a manifestare con la maggior chiarezza possibile la posizione che assume di volta in volta. “Nel segreto dell’urna” i voltagabbana, gli infedeli, i traditori e simili possono tranquillamente tirare il sasso e nascondere la mano. Il voto segreto consente giochini di tutti i tipi e scarico di ogni responsabilità. Ed è proprio per questo che una parte politica lo chiede a gran voce: perché spera nella complicità di senatori di parti diverse al raggiungimento degli obbiettivi ch’essa persegue.
Il voto segreto – a parte quello espresso dai cittadini in occasione delle consultazioni elettorali – andrebbe abolito. Soprattutto, ripeto, quando chi vota è stato eletto dal popolo sulla base di “programmi” e “proposte” della cui esecuzione ogni politico si è reso garante, e per assicurare il rispetto degli interessi della generalità.
Molti di noi sono stati costretti, ancora una volta, a perdere tempo dietro l’ulteriore tentativo di salvare una persona condannata in via definitiva dalle conseguenze del suo comportamento, anche a costo di compromettere principi di giustizia, di legalità, di etica, di morale. E di Politica. Meglio, anche a costo di dimostrare cha la parte politica di riferimento considera questi ed altri non per quello che sono, e cioè principi e valori universali, ma puramente strumenti per il mantenimento del proprio potere e la tutela di interessi di parte.
E la perdita di tempo sta proprio in questo: lo sapevamo. Tutti. Da più di venti anni.