Nella sua biografia la tormentata storia dello stato di Israele
RABIN, UNA VITA IN GUERRA
PER CONQUISTARE LA PACE
di Marco Paganoni
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Rabin durante un pranzo ufficiale |
"Sono stato un soldato per ventisette anni. Ho combattuto finché non si vedeva alcuna possibilità di pace. Ora credo che questa possibilità ci sia, una grande possibilità che dobbiamo cogliere." È la sera del 4 novembre 1995. La voce profonda del primo ministro e ministro della difesa israeliano Yitzchak Rabin risuona nell’aria calda di Tel Aviv, davanti a una grande folla che si è radunata nella piazza dei Re d’Israele per sostenere la politica del governo e il processo di pace. Fra pochi minuti quella voce verrà messa a tacere per sempre da tre colpi di pistola sparati alla schiena da un giovane estremista ebreo di nome Yigal Amir.
Nel suo discorso Rabin spiega con poche, sintetiche parole il senso di un’intera politica, di una vera e propria svolta storica: "Ho sempre pensato – dice – che la maggioranza del nostro popolo vuole la pace ed è pronta ad assumersi dei rischi in nome della pace. Esistono dei nemici della pace, che tentano di colpirci. Ma noi oggi abbiamo trovato un partner per la pace anche tra i palestinesi. A loro chiederemo di fare la loro parte come noi faremo la nostra, per risolvere l’aspetto del conflitto arabo-israeliano più complesso, più lungo e più carico emotivamente, e cioè il conflitto israelo-palestinese".
Il vecchio generale israeliano, ora premio Nobel per la Pace, non è tipo da cerimonie. Anzi, si è fatto una fama di uomo dai modi tanto schivi e riservati da sconfinare spesso nella rudezza. Ma quella sera parla con calore e pronuncia parole quasi profetiche, destinate a restare scolpite nel cuore di milioni di persone: "Il cammino verso la pace è un cammino irto di difficoltà e di dolore. Per Israele, non c’è cammino che sia senza dolore. Ma il cammino della pace è sempre preferibile al cammino della guerra. Ve lo dico come uno che è stato soldato, che oggi è ministro della difesa e vede il dolore delle famiglie dei soldati".
Da soldato a campione della pace: una stupefacente metamorfosi o un paradossale atto di estrema coerenza? "Una volta ho visto Rabin al funerale di un soldato dopo l’attentato terrorista di Bit Lid del gennaio 1995" ha scritto Fiamma Nirenstein, corrispondente da Israele. "Mentre stava piegato dalla sofferenza, in mezzo alla folla, la madre del morto gli si rivoltò contro: ‘Perché, perché?’ La polizia, imbarazzata fra le lapidi e la folla piangente, cercava di frapporsi fra la gente e il primo ministro, ma Rabin al contrario seguiva la donna e cercava il suo sguardo, senza risponderle con le parole". Non è difficile immaginare quali sentimenti agitassero lo statista israeliano in momenti come quello. Rabin stesso, parlando il 13 settembre 1993 alla Casa Bianca subito dopo la storica stretta di mano con Yasser Arafat, aveva esclamato: "Noi, i soldati tornati dalle battaglie segnate dal sangue; noi che abbiamo visto i nostri parenti e amici uccisi davanti ai nostri occhi, che abbiamo seguito i loro funerali e che non riusciamo a guardare negli occhi i loro genitori; noi che siamo venuti da una terra dove i genitori seppelliscono i propri figli, noi oggi diciamo con voce chiara e forte: basta lacrime e sangue, basta".
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Un avamposto israeliano durante la Guerra dei sei giorni nel 1967 |
In generale, il dramma degli arabi di Palestina che lasciarono le proprie case per sfuggire ai combattimenti e che non poterono più fare ritorno perché alla fine della guerra non fece seguito la pace ma solo, e per decenni, una sorta di tregua armata, fu un fenomeno che le autorità israeliane non avevano né messo in conto né voluto. In alcuni casi anzi (come nella zona di Haifa) esse cercarono di arginarlo, ben sapendo che quella massa di sfollati, chiusi dai "fratelli" arabi nei campi profughi allestiti proprio nelle terre che sarebbero dovute diventare lo Stato palestinese (e che invece restarono per vent’anni sotto occupazione giordana ed egiziana) si sarebbero trasformati nella più formidabile arma contro Israele. Ma sulla strada per Gerusalemme la situazione era diversa. Troppo alto era il rischio che proprio Gerusalemme, nella quale viveva un sesto di tutta la popolazione ebraica palestinese dell’epoca, finisse di nuovo alla mercé del nemico; troppo pesanti i sacrifici fatti per forzare il blocco; troppo importante il controllo sullo stretto corridoio che la collegava al resto del paese. Dunque, se la popolazione araba abbandonava alcuni villaggi strategicamente collocati in quella zona, ciò non poteva che tornare a vantaggio della posizione israeliana. Fu così che le truppe israeliane procedettero all’espulsione di alcune decine di migliaia di arabi dalle cittadine di Lydda (oggi Lod) e Ramlah, instradandoli verso la zona occupata dai giordani, qualche miglio a est.