Nella sua biografia la tormentata storia dello stato di Israele

RABIN, UNA VITA IN GUERRA
PER CONQUISTARE LA PACE

di Marco Paganoni

Rabin durante un pranzo ufficiale

"Sono stato un soldato per ventisette anni. Ho combattuto finché non si vedeva alcuna possibilità di pace. Ora credo che questa possibilità ci sia, una grande possibilità che dobbiamo cogliere." È la sera del 4 novembre 1995. La voce profonda del primo ministro e ministro della difesa israeliano Yitzchak Rabin risuona nell’aria calda di Tel Aviv, davanti a una grande folla che si è radunata nella piazza dei Re d’Israele per sostenere la politica del governo e il processo di pace. Fra pochi minuti quella voce verrà messa a tacere per sempre da tre colpi di pistola sparati alla schiena da un giovane estremista ebreo di nome Yigal Amir.
Nel suo discorso Rabin spiega con poche, sintetiche parole il senso di un’intera politica, di una vera e propria svolta storica: "Ho sempre pensato – dice – che la maggioranza del nostro popolo vuole la pace ed è pronta ad assumersi dei rischi in nome della pace. Esistono dei nemici della pace, che tentano di colpirci. Ma noi oggi abbiamo trovato un partner per la pace anche tra i palestinesi. A loro chiederemo di fare la loro parte come noi faremo la nostra, per risolvere l’aspetto del conflitto arabo-israeliano più complesso, più lungo e più carico emotivamente, e cioè il conflitto israelo-palestinese".
Il vecchio generale israeliano, ora premio Nobel per la Pace, non è tipo da cerimonie. Anzi, si è fatto una fama di uomo dai modi tanto schivi e riservati da sconfinare spesso nella rudezza. Ma quella sera parla con calore e pronuncia parole quasi profetiche, destinate a restare scolpite nel cuore di milioni di persone: "Il cammino verso la pace è un cammino irto di difficoltà e di dolore. Per Israele, non c’è cammino che sia senza dolore. Ma il cammino della pace è sempre preferibile al cammino della guerra. Ve lo dico come uno che è stato soldato, che oggi è ministro della difesa e vede il dolore delle famiglie dei soldati".
Da soldato a campione della pace: una stupefacente metamorfosi o un paradossale atto di estrema coerenza? "Una volta ho visto Rabin al funerale di un soldato dopo l’attentato terrorista di Bit Lid del gennaio 1995" ha scritto Fiamma Nirenstein, corrispondente da Israele. "Mentre stava piegato dalla sofferenza, in mezzo alla folla, la madre del morto gli si rivoltò contro: ‘Perché, perché?’ La polizia, imbarazzata fra le lapidi e la folla piangente, cercava di frapporsi fra la gente e il primo ministro, ma Rabin al contrario seguiva la donna e cercava il suo sguardo, senza risponderle con le parole". Non è difficile immaginare quali sentimenti agitassero lo statista israeliano in momenti come quello. Rabin stesso, parlando il 13 settembre 1993 alla Casa Bianca subito dopo la storica stretta di mano con Yasser Arafat, aveva esclamato: "Noi, i soldati tornati dalle battaglie segnate dal sangue; noi che abbiamo visto i nostri parenti e amici uccisi davanti ai nostri occhi, che abbiamo seguito i loro funerali e che non riusciamo a guardare negli occhi i loro genitori; noi che siamo venuti da una terra dove i genitori seppelliscono i propri figli, noi oggi diciamo con voce chiara e forte: basta lacrime e sangue, basta".
NATO DA GENITORI PIONIERI Rabin era nato a Gerusalemme il 1 marzo 1922, cinque anni dopo la pubblicazione di quella Dichiarazione Balfour con la quale gli inglesi, prima, e la comunità internazionale, poi, avevano per la prima volta accettato l’idea che gli ebrei avessero diritto a un loro "focolare nazionale" in terra di Palestina. Era nato in una famiglia dell’aristocrazia laburista sionista, un’aristocrazia non del denaro o del possesso, ma un’élite di pionieri contraddistinta dallo spirito di sacrificio e di servizio. La madre, Rosa Cohen, era giunta dalla Russia dopo il 1917, sulla scorta della delusione per una rivoluzione in cui tanti ebrei avevano riposto speranze e che invece non aveva placato l’antisemitismo. Il suo primo lavoro, primo di una lunga vicenda di impegno politico e militante, era stato quello di piantare cedri ed eucalipti per bonificare le paludi di Galilea. Il padre, Nehemia Rubitzov, anche lui russo d’origine, era giunto in Palestina passando per gli Stati Uniti ed era impegnato come operaio, sindacalista, guardia armata.
Erano tempi molto duri: lavoro pesante, malaria, guerra. Quando sua madre muore, a 47 anni, Rabin sta studiando nella scuola agraria di Kadoorie, nella bassa Galilea. Malgrado l’impegno dei suoi genitori nelle attività di difesa, egli non ambiva a diventare un soldato. In situazioni più pacifiche avrebbe forse imboccato la strada scelta da sua sorella, quella del kibbutz. Ma negli ultimi anni Trenta Kadoorie era attorniata da villaggi arabi ostili che di frequente assaltavano la scuola. Gli stessi allievi erano chiamati a difenderla. Gli studi di Rabin vennero interrotti sempre più spesso da addestramenti e turni di guardia. All’ombra del monte Tabor, Rabin divenne soldato, gli piacesse o no. Negli anni a venire Rabin stesso avrebbe raccontato tante volte che da bambino il suo sogno era di diventare ingegnere idraulico, per dare acqua al suo arido paese, e che invece gli fu ben presto messo in mano un fucile: soldato per necessità, non per scelta.
UN’AMICIZIA FONDAMENTALE Il suo istruttore era Yigal Allon, un diplomato di Kadoorie nativo della Galilea, di quattro anni più vecchio di lui. Nel 1938, quando gli inglesi chiusero per sei mesi la scuola agraria, fu Yigal Allon, che poco dopo sarebbe diventato capo del Palmach (le unità d’élite dell’Haganà, la forza clandestina di autodifesa ebraica prima della fondazione dello Stato), a convincere Rabin a seguire un corso di addestramento intensivo presso il kibbutz Ginossar, sulle rive del lago di Tiberiade. Fu l’inizio di un sodalizio fra i due uomini destinato a durare tutta la vita e a segnare profondamente la storia dell’intero paese. Quasi quarant’anni più tardi, quando verrà chiamato a formare il suo primo governo (1974), Rabin vorrà Allon come suo ministro degli esteri. Quello stesso Yigal Allon che, nel frattempo, aveva informalmente formulato uno dei più articolati ed avanzati progetti di "compromesso territoriale" concepiti in Israele (noto appunto come "piano Allon"): il progetto che sostanzialmente sta alla base delle scelte politico-diplomatiche del Rabin degli anni Novanta e oggi, per quanto possa sembrare paradossale, a quelle dello stesso primo ministro Benjamin Netanyahu.
Quando la guerra scoppia in Europa e dilaga presto anche in Medio Oriente, il destino militare di Rabin è ormai segnato. Dopo aver conseguito il diploma di agraria nel 1940, le esigenze dell’Haganah lo distolgono completamente dagli studi. Nel 1941, incombendo la minaccia di un’invasione della Palestina britannica a partire dai territori siro-libanesi sotto il controllo della Francia di Pétain, le forze ebraiche del Palmach vengono mobilitate per combattere a fianco degli inglesi. La prima operazione di guerra cui prende parte Rabin avverrà oltre il confine libanese, sotto la guida di un giovane comandante del Palmach, Moshé Dayan. Si trattò di un’operazione notturna di sabotaggio dietro le linee nemiche relativamente semplice. "Una vicenda che di per sé non sarebbe passata alla storia – avrebbe ammesso lo stesso Rabin – se non fosse che, proprio in quell’azione, in uno scontro con i francesi di Vichy, Moshé Dayan perse un occhio".
CARRIERA FULMINEA Terminata la seconda guerra mondiale, quando apparve chiaro che la Gran Bretagna non aveva alcuna intenzione di far nascere lo stato ebraico più volte promesso, l’Haganah passò dalla cooperazione alla resistenza. Rabin intanto scalava rapidamente tutti i gradi del Palmach, da comandante di plotone a quello di battaglione e infine di brigata. Già nell’ottobre del 1945, mentre è ancora un ufficiale di basso rango, guida un reparto d’assalto a liberare dal campo di detenzione di Atlit, sulle rive del Mediterraneo, circa duecento immigranti ebrei sopravvissuti all’Olocausto che l’Inghilterra considerava "illegali" e come tali internava. È questo il periodo in cui Rabin inizia a essere circondato da una fama quasi leggendaria come comandante militare. Fama che ben presto raggiunge anche le autorità mandatarie. Nel giugno del 1946 viene arrestato dagli inglesi insieme a centinaia di leader ebrei in quello che diventerà famoso come il "sabato nero", e viene rinchiuso per sei mesi nel campo di detenzione britannico di Rafah.
Una volta rilasciato, Rabin viene nominato nell’ottobre del 1947 vice comandante del Palmach, sotto il diretto comando di Yigal Allon, proprio quando la situazione nel paese sta per precipitare. Il 29 novembre di quell’anno le Nazioni Unite approvano la risoluzione 181 che sancisce la spartizione della Palestina mandataria in due Stati, uno arabo e uno ebraico. I sionisti accettano la risoluzione, gli arabi la rifiutano: è l’inizio, di fatto, della prima guerra arabo-israeliana, quella che tra gli ebrei verrà ricordata come la guerra d’indipendenza, e che si scatenerà in tutta la sua portata nel maggio successivo, quando l’ultimo soldato inglese lascia il paese e viene proclamata la nascita dello Stato d’Israele. Per tutto questo periodo Rabin sarà impegnato nella battaglia per Gerusalemme, la città che le Nazioni Unite avrebbero voluto porre sotto amministrazione internazionale ma che poi, in pratica, abbandonarono alle sorti della guerra.
DIFESA DI GERUSALEMME Le vicende famigliari e personali avevano portato Rabin a vivere fuori dalla sua città natale. E tuttavia egli sarebbe sempre rimasto orgoglioso della sua nascita a Gerusalemme ed essa, per una strana sorte, era destinata a incidere profondamente nella sua vita. Nel 1948 la parte ebraica di Gerusalemme è una città di novantamila abitanti assediati, bombardati, affamati e minacciati di distruzione. La strada che la unisce alla costa e a Tel Aviv si trasforma in una mortale trappola in cui cadono uno dopo l’altro i convogli coi rifornimenti. Rabin viene messo a capo della Brigata Harel che ha il compito di forzare il blocco: a soli 26 anni si trova sulle spalle la responsabilità di salvare la vita di decine i migliaia di persone e di difendere la città più cara alla storia ebraica. Lo farà, ma a caro prezzo. Un fatto che probabilmente lo segnerà per tutta la vita. Rabin deve lanciare ripetutamente i suoi uomini (che spesso sono giovanissimi immigrati, appena sbarcati dalle navi profughi giunte dall’Europa) contro le posizioni chiave sulla strada per Gerusalemme: il monastero trappista di Latrun, all’inizio della pianura; Bab-al-Wad, la gola d’imbocco della prima salita; Kastel, l’ex forte romano e crociato sulla sommità che domina la strada. A un certo punto Rabin si trova così a corto di uomini che deve mandare all’assalto un plotone di allievi sedicenni. Anni dopo, ancora pieno di rabbia e di amarezza, avrebbe scritto: "Le nostre autorità non avevano apprestato un numero sufficiente di armi della qualità necessaria, e i reparti combattenti non erano adeguatamente addestrati. Nessun altro popolo aveva affidato a così pochi e così male armati il compito di conquistare e salvaguardare la propria indipendenza". Più di duecento soldati della Harel persero la vita e seicento furono feriti. Alla fine della guerra, la parte occidentale della città era stata salvata e il controllo sulla strada assicurato. Ma l’antichissimo quartiere ebraico nella Città Vecchia era andato perduto, i commando del Palmach erano riusciti ad attestarsi appena fuori le mura ottomane, sul monte Sion, ma tutti gli abitanti del quartiere medioevale affacciato al Muro del Pianto erano stati espulsi e il quartiere stesso, con le sue artistiche sinagoghe, sarebbe stato sistematicamente distrutto dai soldati della Legione Araba transgiordana.
SFOLLATI ARABI: UN PROBLEMA Si può dunque immaginare con quale senso di personale rivincita, diciannove anni e due guerre più tardi, lo stesso Rabin sarebbe entrato nella Città Vecchia e si sarebbe recato al Muro del Pianto da capo di stato maggiore, dopo la riunificazione di Gerusalemme nell’ambito della guerra dei sei giorni del 1967. Ma Gerusalemme – e più esattamente, la necessità di garantire subito, a combattimenti ancora in corso, il collegamento tra Gerusalemme e il resto del paese – era destinata a segnare anche in un altro modo l’esperienza del soldato israeliano Yitzchak Rabin.

Un avamposto israeliano durante la Guerra dei sei giorni nel 1967

In generale, il dramma degli arabi di Palestina che lasciarono le proprie case per sfuggire ai combattimenti e che non poterono più fare ritorno perché alla fine della guerra non fece seguito la pace ma solo, e per decenni, una sorta di tregua armata, fu un fenomeno che le autorità israeliane non avevano né messo in conto né voluto. In alcuni casi anzi (come nella zona di Haifa) esse cercarono di arginarlo, ben sapendo che quella massa di sfollati, chiusi dai "fratelli" arabi nei campi profughi allestiti proprio nelle terre che sarebbero dovute diventare lo Stato palestinese (e che invece restarono per vent’anni sotto occupazione giordana ed egiziana) si sarebbero trasformati nella più formidabile arma contro Israele. Ma sulla strada per Gerusalemme la situazione era diversa. Troppo alto era il rischio che proprio Gerusalemme, nella quale viveva un sesto di tutta la popolazione ebraica palestinese dell’epoca, finisse di nuovo alla mercé del nemico; troppo pesanti i sacrifici fatti per forzare il blocco; troppo importante il controllo sullo stretto corridoio che la collegava al resto del paese. Dunque, se la popolazione araba abbandonava alcuni villaggi strategicamente collocati in quella zona, ciò non poteva che tornare a vantaggio della posizione israeliana. Fu così che le truppe israeliane procedettero all’espulsione di alcune decine di migliaia di arabi dalle cittadine di Lydda (oggi Lod) e Ramlah, instradandoli verso la zona occupata dai giordani, qualche miglio a est.
DUE POPOLI, UNA TRAGEDIA "Non potevamo lasciarci alle spalle gente ostile e armata che poteva compromettere la sicurezza dei rifornimenti – scrisse Rabin nelle sue memorie – ma psicologicamente fu una delle azioni più dure che intraprendemmo". Non vi furono spargimenti di sangue, tutto si svolse senza resistenze. Ma si trattò ugualmente di un grave trauma che segnò, come in una tragedia greca collettiva, non solo i palestinesi che lo subirono ma anche molti soldati israeliani, compreso lo stesso Rabin. Scrive Shabtai Teveth, un giornalista che lo intervistò su questo episodio: "Rabin sapeva riconoscere la sofferenza. Da soldato, capiva la necessità dell’operazione. Ma vedeva la sofferenza e ne serbava il ricordo". La prima guerra arabo-israeliana doveva riservare al giovane Rabin altre importanti esperienze. Nelle sue ultime fasi, dopo alcune vane tregue estive (durante le quali Rabin trova il tempo di sposare Leah Schlosseberg, la donna che resterà al suo fianco fino al giorno della sua morte e che oggi ne custodisce la memoria in tutto il mondo), Rabin si trova a dirigere le operazioni sul fronte meridionale, contro le forze egiziane che pochi mesi prima erano penetrate nel deserto Negev, puntando su Tel Aviv. Alla fine del dicembre 1948 un suo reparto oltrepassa il confine e si spinge nel nord del Sinai, puntando alla cittadina costiera di El Arish. "Se El Arish fosse caduta nelle nostre mani – scrisse Rabin – l’esercito egiziano in tutta la Striscia di Gaza sarebbe rimasto tagliato fuori: tutta la successiva storia militare d’Israele sarebbe stata differente". Ma le cose dovevano andare diversamente. Ben Gurion, capo del governo israeliano, riteneva politicamente sbagliato che vi fossero soldati israeliani oltre confine alla fine della guerra, e ordinò il ritiro delle truppe dal Sinai. Racconta il generale Uzi Narkiss, suo compagno d’armi: "Fu Rabin, in una lunga, gelida notte di discussioni, che ci persuase a ubbidire agli ordini e a ritirarci. È il governo che deve decidere, ci disse". Anni dopo, da primo ministro, mentre negoziava la pace coi palestinesi, Rabin avrebbe ripetuto fino alla nausea lo stesso concetto: "Si decide a livello politico. L’esercito esegue".
GRANDE SUCCESSO MILITARE In quei lontani giorni nel Sinai, Rabin ebbe anche modo di incontrare un giovane ufficiale egiziano di un reparto circondato, per trattarne la resa. L’ufficiale volle sapere come gli israeliani fossero riusciti a cacciare dalla Palestina gli inglesi che restavano presenti, invece, in Egitto. Dopo aver ascoltato la risposta di Rabin, rifletté: "Sa, penso che noi egiziani stiamo combattendo il nemico sbagliato, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato". Si chiamava Gamel Abd al-Nasser ed era paradossalmente destinato a ripetere, diciannove anni dopo, lo stesso errore che aveva così lucidamente diagnosticato quel giorno. Oggi Rabin è giustamente noto come il capo di stato maggiore israeliano che preparò e diresse il più straordinario successo militare della storia d’Israele: la distruzione a terra della forza aerea avversaria e la travolgente avanzata dei mezzi corazzati israeliani nella guerra dei sei giorni del giugno 1967. Solo a posteriori è stata pienamente riconosciuta l’importanza del ruolo da lui svolto in quella vittoria. All’epoca molti elogi andarono a Moshé Dayan, che solo pochi giorni prima della guerra era stato nominato ministro della difesa. In realtà era stato Rabin che aveva plasmato la teoria strategica, sviluppato le tecniche di addestramento, introdotto i nuovi armamenti, riorganizzato al meglio le poche forze armate del paese memore delle situazioni impossibili che si era trovato a fronteggiare all’inizio della sua carriera militare.
Negli anni successivi alla guerra d’indipendenza, dopo essere stato tra i membri della delegazione che trattò gli accordi d’armistizio con gli Stati arabi a Rodi nel 1949, Rabin aveva percorso una brillante carriera nelle forze armate.
Nel 1950 il capo di stato maggiore Yigael Yadin (l’archeologo che più tardi porterà alla luce gli imponenti resti di Masada) lo mette a capo del dipartimento operativo. È il suo primo incarico entro lo stato maggiore. Rabin sente di aver la possibilità di correggere le gravi carenze organizzative di cui era stato testimone e si getta sul lavoro venti ore al giorno.
ONDATA DI IMMIGRATI EBREI Negli anni Cinquanta, oltre tutto, le forze armate israeliane sono gravate da altri compiti oltre a quelli militari: centinaia di migliaia di immigrati si riversano nel paese dall’Asia, dal nord Africa e dall’Europa. Vengono ospitati in affollate tendopoli, spesso prive di ogni servizio. L’esercito è l’unica struttura statale che può affrontare l’emergenza e Rabin ne ha la responsabilità. "La battaglia dei campi di transito – come la definì lui – verrà ricordata come una delle più belle vittorie del nostro esercito". Nel 1953 frequenta il Royal Staff College di Camberley, in Inghilterra. Un’esperienza formativa, ma all’inizio molto noiosa. "Per esempio – scrisse – dovetti elaborare i tempi per il trasporto di un’intera divisione; ma quando mai le nostre forze armate avevano avuto una formazione grande quanto una divisione?". A Camberley, Rabin incontra come compagno di corso un altro futuro capo di stato maggiore, il giordano Faez Maher. Molti anni (e guerre) più tardi, nel 1994, quando Rabin, come capo del governo, fece visita per la prima volta a re Hussein di Giordania, chiese notizie del vecchio amico. Nel giro di un’ora Maher arrivò a palazzo e l’incontro fra i due fu particolarmente commovente. Quando, nel 1995, Maher fu colpito da ictus, Rabin dispose personalmente per il suo ricovero nell’ospedale Hadassah di Gerusalemme.
Tornato da Camberley nel 1954, Rabin viene posto dal nuovo capo di stato maggiore Moshé Dayan a capo del settore addestramento. Successivamente, dal 1956 al 1959, comanda il settore settentrionale, dove impara a valutare l’importanza strategica delle alture del Golan, allora in mano ai siriani.
Nel 1961 viene nominato vice capo di stato maggiore. È il periodo in cui Rabin cerca di far passare l’idea che Israele dovesse affrancarsi dalle forniture di armi francesi, privilegiate dalla politica dell’allora vice ministro degli esteri Shimon Peres, per passare agli armamenti americani. Sarà il primo segno di una lunga vicenda di contrasti e rivalità fra i due leader del laburismo israeliano, destinati tuttavia a collaborare fino al punto di conseguire insieme, trentatré anni dopo, il premio Nobel per la Pace.
L’EGITTO PREPARA LA GUERRA Il primo gennaio 1964, a quarantun anni, Rabin diventa il settimo capo di stato maggiore delle forze armate israeliane. Quando Rabin assunse il comando, non si intravedevano minacce di guerra all’orizzonte. La Siria continuava a bersagliare i contadini israeliani in Galilea e cercava periodicamente di deviare le fonti idriche del paese, ma non sembrava intenzionata a imbarcarsi da sola in un’avventura militare. D’altra parte l’Egitto, il più temibile nemico d’Israele, era coinvolto in un conflitto interarabo nello Yemen. Ma Rabin era preoccupato per il fatto che l’Egitto stesse acquisendo ingenti e sofisticati armamenti dall’Unione Sovietica. Egli sapeva che, in una guerra futura, Israele avrebbe dovuto fronteggiare eserciti addestrati dai sovietici e dotati di grandi quantità di artiglieria, carri armati e aerei. Ed è verso questa eventualità che indirizzò i suoi sforzi.
Nei primi mesi del 1967 le schermaglie sul fronte settentrionale si intensificarono, ma ancora nei primi giorni di maggio nessuno sospettava che solo un mese separava Israele dalla sua più difficile prova militare. Tra l’11 e il 13 maggio i sovietici passarono all’Egitto informazioni fuorvianti su un movimento di truppe israeliane. La Siria, legata all’Egitto da un’alleanza militare, spinse sull’acceleratore delle provocazioni, spronando Nasser a raccogliere la sfida. Il 18 maggio il presidente egiziano ordinò che le truppe dell’Onu lasciassero il Sinai e il segretario generale U Thant si affrettò a eseguire. Nel giro di pochi giorni Israele vide le truppe egiziane uscire dallo Yemen e ammassarsi nel Sinai. Il 21 maggio sette divisioni egiziane erano già schierate sul confine, a poche decine di chilometri da Tel Aviv. Il 23 maggio Nasser ordinò il blocco navale degli stretti di Tiran, per strangolare i rifornimenti israeliani. Alla fine di maggio divenne chiaro che anche gli Stati Uniti del presidente Johnson non sarebbero realmente intervenuti, come promesso, per rompere l’accerchiamento d’Israele. La situazione precipitava rapidamente verso lo scontro, mentre nelle capitali arabe si inneggiava alla distruzione di Israele e si annunciavano "stragi mongole".
RABIN ANTICIPA: BLITZ MICIDIALE Gli israeliani si sentirono quanto mai soli davanti al proprio destino, e iniziarono a scavare trincee per le strade di Tel Aviv. Una pesante sensazione di fine imminente si impadronì del paese. E qui, ancora una volta, la vita di Rabin sembra correre in strabiliante parallelismo con quella della sua gente, quasi una metafora della vita stessa d’Israele. Sotto il peso di una decisione che i ministri dell’irresoluto Levi Eshkol tendevano a delegare alla valutazione dei militari (aspettare l’attacco arabo su posizioni praticamente indifendibili o correre il rischio di precederlo?), il capo di stato maggiore Rabin ebbe una sorta di crollo psico-fisico. Negli anni a venire si sarebbe scritto (e favoleggiato) molto su quella fatidica giornata del 24 maggio, quando Rabin scomparve per ventiquattro ore, lasciando ogni incombenza al suo vice Ezer Weizman (oggi presidente d’Israele). Resta il fatto che subito dopo, così come tutto il paese, anche Rabin si riprese e riprese in pugno la situazione, più che mai risoluto a vendere cara la pelle.
Sulla base delle sue valutazioni, il 4 giugno il governo decise per il colpo preventivo. Israele doveva fronteggiare un formidabile schieramento di forze e solo un colpo di genio avrebbe potuto garantirgli un vantaggio iniziale. Alle 7.45 del 5 giugno 1967 gli aerei israeliani decollarono e, volando raso terra, piombarono sugli aeroporti egiziani distruggendo aerei, piste, stazioni radar. Nel giro di tre ore l’aviazione nemica era stata distrutta in un’operazione che aveva costituito un azzardo assoluto: erano stati impiegati praticamente tutti i duecento aerei a disposizione di Israele, compresi quelli da addestramento. Ma il rischio fu compensato dal risultato: al termine della prima giornata di guerra le sorti delle forze egiziane erano già irrimediabilmente compromesse.
Due giorni dopo, rispondendo ai cannoneggiamenti della Legione Araba su Gerusalemme ovest, le truppe israeliane davano l’assalto alla Città Vecchia.
SOGNO COLTIVATO DA ANNI Esiste una foto che ritrae Yitzchak Rabin accanto a Moshé Dayan mentre raggiungono il Muro del Pianto, dove nessun ebreo aveva più potuto mettere piede da quando la città era rimasta divisa. "Nel 1948 eravamo stati costretti a lasciare Gerusalemme est nelle mani del nemico – ricordava Rabin –, questa volta non potevamo fallire. Mentre percorrevo le strade che ricordavo dalla mia infanzia, venivo investito da pungenti ricordi. Per anni avevo coltivato in segreto un sogno: quello di poter avere una parte non solo nella conquista dell’indipendenza d’Israele, ma anche nella restituzione al popolo ebraico del Muro Occidentale. Sapevo che mai più nella mia vita avrei provato una simile sensazione". (1 - continua)



Torna in copertina