La città della mente è percorsa da un numero infinito di strade. Tante ed imprevedibili. Quelle del quartiere dell'Associazione d'Idee, poi. Mi spiego così quel flash che, partecipando da spettatore all'incontro tra il Presidente del Consiglio ed una nota giornalista in televisione, mi ha riportato alla mente la figura squallida del Cacaglio. Noto con il nome di battesimo di "Il", attestazione di una unicità riconosciuta e mai contestata, il patronimico Cacaglio gli spetta di diritto. Narrano i trattati di araldica contadina che si tratta di una contrazione di quell'aggettivo "Ncacaglio", onomatopeico lemma che qualifica tutti coloro che nel parlare "incheccano", ripetono le sillabe, hanno difficoltà ad iniziare e spesso a concludere le parole. Del balbuziente, insomma.
Il Cacaglio è il balbuziente per antonomasia. E non è un cretino: ha saputo e sa fare del difetto che lo affligge uno strumento efficace di attacco, così come di difesa. Una sorta di arma perfetta, scagliata a ripetizione contro l'infelice interlocutore. Senza un attimo di tregua. Naturalmente, sfuggendo alle regole più elementari di un a educazione che consiglierebbe di lasciare un poco di spazio all'altro. L'effetto è dirompente: anche il pensiero più lucido si infrange sotto l'attacco della tempesta di sillabe, tanto che la ritirata appare ben presto come l'unica soluzione. E Il Cacaglio vince l'impari lotta.
Pallida imitatrice del grande Cacaglio, la giornalista ha cercato in tutti i modi di impedire al Presidente di completare le risposte alle domande ricevute. Non balbettava, la giornalista, ma imitava Il Cacaglio nell'arte, peraltro non difficile se l'altro è una persona appena educata, di opporre in continuo qualunque cosa, purché il sottofondo fosse assicurato. E quando, a mio parere giustamente, il Presidente si è alzato e se ne è andato, ecco un'altra imitazione del grande Il Cacaglio: la lezione sui modi di rapportarsi con i giornalisti: "Lei non sa trattare con i giornalisti, Presidente".
E il Presidente ne è uscito alla grande. Il dubbio che fosse la giornalista a non saper trattare con il Presidente non è comparso neppure sotto forma di pallida ombra. L'educazione di un padrone di casa che ha l'obbligo di far sentire sempre a proprio agio l'ospite è stata la grande assente. L'arroganza propria del docente preso a modello, Il Cacaglio, appunto, traspariva da tutti i pori. E il Presidente se ne è andato. In modo educato, lui sì, e vagamente - ma non tanto e non più del solito - ironico e sfottente.
Ora, è vero che Il Cacaglio le interviste se le fa da solo e dunque nelle sue opere il tema non è trattato così a fondo come sarebbe opportuno. Le auto interviste non insegnano nulla né sulla posizione di intervistato né in quella di intervistatore. Ne consegue che non possiamo dare a lui la responsabilità del comportamento di tanti, troppi, conduttori televisivi il cui protagonismo appare, più che un vezzo, una vera e propria malattia. Ma, seppur senza colpa diretta, non può sfuggire l'identicità della malattia: l'arroganza aggravata dalla supponenza e dalla maleducazione.
Ma si sostiene che in politica, così come in guerra ed in amore, tutto sia permesso. E allora, è anche possibile immaginare che la giornalista - politicamente schierata, ed è un suo diritto, e notoriamente persona intelligente - abbia cercato con il proprio comportamento di far fare una figura meschina al premier, in modo che l'avversario politico in qualche modo ne traesse vantaggio. Se così è stato, obiettivo fallito.
Questa sfortunata sinistra è uscita dall'intervista piuttosto male. Se deve ricorrere a questi mezzi per uscire vincitrice dalla imminente competizione elettorale, allora sarebbe meglio che si ritirasse in tempo, prima di subire gli effetti mortali di questi e di altri comportamenti. Almeno, potrebbe mantenere un poco di quella dignità che, proseguendo su questa strada, rischia di svanire, dissolvendosi in una polvere sottile che il vento dell'immagine di cui gli avversari sembrano godere spingerà negli occhi dei politici dell'Unione, accecandoli del tutto. Quasi un suicidio. In nome di che? Di questa Italia che lotta perché il profitto sia riconosciuto come il Valore per antonomasia? Oppure, perché si comprenda una volta per tutte che la giustizia è uno strumento di parte, di quella al potere, naturalmente? O, ancora, che le leggi sono armi poste a difesa della ricchezza di pochi e dei privilegiati? Eppure, non v'è dubbio che la sinistra appaia, oggi, come la sola detentrice di valori che valga la pena di diffondere e di difendere.
Non a caso, a mio parere, solo alla fine del dibattito tra l'attuale Presidente del Consiglio e il suo antagonista, il pallido accenno a qualcosa di diverso dai numeri più strampalati che si siano mai sentiti ha in qualche modo richiamato il rapporto tra politica e valori. Male e in modo secondo me inefficace, ma lo ha fatto. Qui non si tratta di evocare una vita "felice", la felicità essendo per antonomasia un'utopia e, comunque, un sogno difficilmente realizzabile da ognuno di noi, che pure alla felicità aspiriamo tutti, in un modo o nell'altro. E neppure la felicità della Nazione, concetto reso ancor più vago dal riferimento ad un insieme di soggetti, ha senso più che tanto. Sempre secondo me, il problema sta ancora una volta nell'intendere correttamente la Politica. Che non è, come ancora una volta scrive Umberto Eco (L'Espresso, 2 marzo 2006, pag. 194) "l'arte del compromesso e, una volta scelta una parte, bisogna fare del proprio meglio per non metterla pubblicamente alla berlina. Almeno, non in periodo elettorale (.) ".
Il compromesso sta alla Politica come il mezzo (o anche il modo) sta all'obiettivo. E la "causa" (l'obiettivo) e il mezzo per raggiungerla non possono essere confusi. Il mezzo non può diventare definizione della causa e quindi della materia. Anche perché, se è vero che il compromesso appare come il principale mezzo utilizzato per "fare politica", non è l'unico. Non solo: è anche abbastanza pericoloso da indurre, se utilizzato in eccesso, a far perdere fiducia nella Politica e a far pensare che i Valori siano, sì, qualcosa di importante ma anch'essi puri riferimenti teorici, da modificare o da abbandonare di fronte alle opportunità ed alle pratiche necessità. Oppure, che nulla abbiano a che fare con la Politica.
Che non mi sembra un gran risultato, almeno sotto l'aspetto della cultura di una persona e di un popolo.
Sedici milioni di spettatori (milione più, milione meno) in attesa di un qualche motivo di interesse nel dialogo tra il Presidente attuale e l'Aspirante tale, sono stati - quelli ancora svegli e, tra questi, i più attenti - appagati soltanto quando, da un rapidissimo accenno, si è capito che il Presidente del Consiglio si ispira ad un prevalente individualismo (da lui chiamato liberismo), mentre il suo antagonista vede come motore della propria azione una prevalenza "del sociale". Non molto di più. E la sinistra ha perso, limitandosi a questo timidissimo accenno, l'opportunità di fare apprezzare la propria diversità che è o dovrebbe essere in buona sostanza ed in estrema sintesi questa: bisogna perseguire il bene della comunità perché soltanto così anche la situazione degli individui diverrà positiva; il processo contrario, e cioè il perseguire innanzi tutto la soddisfazione di ogni singolo individuo è molto più rischioso ed i risultati tutt'altro che certi. Nel primo caso, l'ambiente (lo scenario, dicono gli uomini di marketing) assume colorazioni collaborative; nella seconda ipotesi, lo scenario è di stampo competitivo.
Ma il bello di tutto questo è che, ancora una volta, mi pare si con fonda il mezzo con il fine. Il liberalismo e l'economia libera non sono un fine, bensì uno dei mezzi possibili per perseguire il bene della comunità. Questo, sì, è un fine, anzi: per la politica, è il fine ultimo, la causa qualificante.
In termini di argomentazioni di vendita, (e mai come in periodo elettorale le attività di vendita sono importanti) fare appello agli interessi individuali può apparire - e di solito è così - di gran lunga più suggestivo ed appagante di quanto non sia per un eventuale richiamo ai sacrifici che occorre sostenere da parte di tutti perché la società nel suo insieme se ne giovi. Conseguenza: l'argomentazione di vendita che ti lascia intravedere un beneficio immediato e personale risulta vincente. Seguita a ruota da quella che non richiede sacrifici di sorta. E' così per ogni rapporto di vendita, in economia. Le imprese (ed i venditori di qualsiasi tipo e livello) si dannano l'anima per convincere all'acquisto l'interlocutore. E lo sforzo consiste in due fasi, sostanzialmente: individuare il "punto debole" (che è poi l'interesse del potenziale acquirente) e farvi appello nel modo più adatto a convincerlo definitivamente a compiere l'atto di acquisto. Il venditore bravo è colui che realizza la vendita. Quando tutto questo accade in Politica, però, qualcosa rischia di non quadrare.
Intanto, questo: che il mondo degli scambi politici non coincide con il mondo degli scambi economici. Lo "scambio", in Politica, investe una serie di rapporti molto più numerosa di quanto non sia la compravendita di stampo economico. E' prevalentemente un fatto culturale e dovrebbe avere come oggetto principale l'acquisto di Valori ai quali ispirare tutto il proprio comportamento. Il che porta in primo piano la formazione, l'istruzione, l'educazione, il rispetto degli altri, la consapevolezza di essere parte di un tutto e quella del proprio ruolo nella società. Ma pur sempre di scambio si tratta e pur sempre di "argomentazioni di vendita". E le caratteristiche e l'uso delle argomentazioni di vendita in nulla si modifica, quale sia l'oggetto dello scambio.
E correttamente Umberto Eco (L'Espresso, cit.) ricorda che "bisogna fare del proprio meglio per non metterla (la parte scelta) pubblicamente alla berlina": l'attività di vendita è una cosa seria, e lo è ancor di più quando oggetto ne è la Politica.
Il sorriso e l'atteggiamento ottimista e sicuro sono parte integrante della professionalità del venditore, in qualche modo persino quando si vendono loculi al cimitero e funerali più o meno imponenti. E noi formatori non dimentichiamo di insegnarlo alle forze di vendita. Ma est modus in rebus (Orazio, Satire, I,1,106). E allora, un sorriso stereotipato e sfottente probabilmente non ottiene gli effetti sperati. Così come non li ottiene la sicurezza quando diviene sicumera. E neppure l'ottimismo, quando l'interlocutore è sulla sponda diversa del grande fiume della realtà. E se il Presidente in carica ha seguito il consiglio di un qualche consulente all'immagine, forse farebbe bene a liberarsene di corsa. Nulla appariva meno simpatico della espressione assunta e mantenuta nel corso del confronto con il concorrente. Ma forse il Presidente non ha un consulente all'immagine. Egli è imprenditore italiano e, penso, manager italiano. E dunque non ha bisogno di consiglieri e di consigli: sa tutto, e lo sa perfettamente. E non può licenziare se stesso. Ma può - e a mio parere, deve - fare qualcosa per riparare.
Anche perché il suo competitore è parso migliore, più sicuro, più affidabile di quanto ci si potesse aspettare, pur con tutte le debolezze che gli sono proprie. Particolare minuscolo: non ha avuto bisogno, per nascondere o scaricare il disagio, di torturare il nitore dei fogli, anche dando la sensazione di un certo disinteresse per quanti (sedici milioni!) gli erano di fronte e che avrebbe dovuto guardare diritto negli occhi. Sopra tutto quando affermava che tutto è andato per il verso giusto, in questi cinque anni. Avrebbe, forse, potuto far rimarcare con maggiore evidenza la fragilità degli argomenti usati dall'antagonista, molto vaghi e abbastanza inconsistenti da far dubitare seriamente circa la affidabilità di coloro che lo sostengono.
Perché fare promesse è facile; il difficile è elaborare affidabili pianificazioni di gestione. E in questo il nostro attuale Presidente del Consiglio ha, a mio parere, perso un treno forse vincente. Egli passa per essere un imprenditore di successo (e, secondo i canoni attuali, lo è!); qualcuno immagina che anche come dirigente d'impresa abbia dato ottima prova. Ebbene: come mai non ha posto l'accento sulle sue capacità di gestore e quindi di elaboratore e di realizzatore di "pianificazioni di marketing"? Perché non ha portato un esempio concreto di come si possa "gestire la cosa pubblica" avendo a riferimento uno qualsiasi dei tanti problemi che rendono il nostro Paese stanco, invecchiato, inefficiente e inefficace? Eppure, se egli è un imprenditore ed un manager di successo, deve conoscere la differenza tra "programma" e "piano di gestione". E conosce certamente l'efficacia della "presentazione di un piano di gestione" che dica Chi, Che cosa, Quando, Perché, Dove e Come e che costituisce un vero e proprio impegno. Serio. Concreto. E, sempre che sia manager e gestore d'impresa di successo, dovrebbe dare la giusta importanza al modo con il quale "il mercato" di riferimento vive la situazione attuale e immagina quella futura. Che non è detto che sia assolutamente vero, ma "è". E non credo si possa sostenere che "la gente" - che è poi quella che dovrebbe comprare una parte politica pagandola con il proprio voto - percepisca in modo positivo ed appagante la situazione attuale e veda con ottimismo e gioia quella futura.
Ed ecco, allora, che l'ammettere un qualche errore, una qualche fallanza nell'azione, un qualche obiettivo fallito avrebbe potuto dare al "popolo" la sensazione di trovarsi di fronte a qualcuno che lo comprende e che lavora (anche) per lui. Vantare la propria merce al di là del bene e del male non si è mai rivelata una tattica vincente.
Neppure criticare tutto e sempre è vincente, persino nell'ipotesi che sia vero che non ne quadri una che è una. E così facendo, la sinistra ha a sua volta perso uno dei treni che le circostanze le hanno offerto. Qualsiasi consulente, così come qualsiasi nuovo dirigente di una impresa sa che, presentarsi sbandierando il concetto che "finora, tutto è stato sbagliato e tutti sono stati degli incompetenti: ora, ci sono io!" significa giocarsi una buona parte delle possibilità di successo. Innanzi tutto, perché è assai probabile che non sia vero che "tutto è sbagliato" e neppure che "tutti sono incompetenti"; poi, perché "la struttura", che già di suo tende ad espellere i corpi trapiantati, aumenta le proprie difese, messa come è sotto accusa e in modo indiscriminato.
La critica, se giustificata, va bene, ma deve essere sempre accompagnata da "motivazioni precise", da "argomentazioni di vendita credibili" e sopra tutto, dalla pianificazione concreta e corretta dei rimedi proposti. La famosa "alternativa".
E quasi trecento pagine di programma politico non sono né precise né credibili più che tanto. Non sono una pianificazione di gestione. Non sono concrete più di quanto non lo siano quelle dei concorrenti. Che per gli italiani significa: mi volete spiegare perché debbo cambiare, al di là del fatto che mi sembra di essere un po' meno ricco ed un po' meno sicuro e felice? Non è forse anche possibile che gli attuali governanti abbiano toccato il fondo e ci si possa quindi attendere una ripresa? Gli altri, invece, cosa mi propongono, oltre ad un che di vago ed ignoto che sempre, ma in politica in modo particolare, appare (e con qualche probabilità, è) pericoloso?
La ragione per cambiare è, purtroppo, di stampo culturale. Noi dobbiamo cambiare perché la nostra società sembra essere alla deriva morale (oltre che economica). Ma la perdita dei valori significa che occorre ricostruire ed eventualmente aggiornare un'intera cultura, rivedere l'educazione di un popolo in una con l'educazione delle persone. La cosa più difficile del mondo. Praticamente impossibile in tempi brevi. Certamente, però, occorre frenare la corsa della nostra civiltà verso la propria fine e che ha subito una accelerazione esponenziale in questi ultimi anni. Anche le civiltà hanno un ciclo di vita: nascono, si sviluppano, maturano e muoiono come qualsiasi essere vivente e come qualsiasi prodotto. Noi, la nostra civiltà, siamo nella fase di senescenza. Senza interventi decisi e decisivi, seguirà morte certa. E non è a dire che non esistano le avvisaglie.
Occorre, allora, che uomini consapevoli della importanza della società nel suo insieme; della funzione strumentale del singolo alla "felicità" ed al benessere della società intera;
della funzione strumentale della società alla felicità ed al benessere del singolo, fatale se il singolo ha lavorato perché la società sia migliore; occorre, dicevo, che questi uomini si adoperino per elaborare piani di gestione degli scambi tra gli individui tra di loro, tra gli individui e la società. E, sopra tutto, in una con il cercare di rallentare il declino attuale, devono porsi come guida per il rinnovamento, per il cambiamento, l'evoluzione.
E allora sì che "i programmi" diventati pianificazioni possono iniziare a sviluppare gli effetti benefici che la società e il singolo si attendono.
I nostri attuali governanti hanno mostrato di credere nella prevalenza dell'individuo sulla società, e in questo quadro hanno operato. E talvolta non si è trattato di un "individuo" generico, bensì di persone specifiche, individuate ed individuabili.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
*Docente di marketing presso
l'Università per Stranieri di Perugia
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