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QUANDO TORINO AFFRONTÒ
E SCONFISSE IL RE SOLE
di ALESSANDRO FRIGERIO
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Fabio Galvano, L'assedio. Torino 1706, UTET, 2005, pp. 340, euro 25,00
L'8 settembre le truppe erano ormai allo sbando, incalzate dall'avversario. L'esercito che con spavalderia aveva messo a ferro e fuoco buona parte dell'Europa si stava ritirando in disordine. Sui vertici militari si sarebbero scatenate di lì a poco le accuse di incompetenza, pressappochismo e faciloneria. Non è il nostro 8 settembre del 1943 ma lo stesso giorno di tre secoli fa. Siamo infatti nel settembre 1706 e le truppe in rotta sono quelle francesi del Re Sole, definitivamente sbaragliate davanti alla città di Torino, che per quasi quattro mesi è stata cinta d'assedio ed ora viene liberata dalla manovra convergente di Vittorio Amedeo e di suo cugino Eugenio di Savoia.
Si tratta di una pagina di storia avvincente, epica, memorabile. Al cui centro si trovano le vicissitudini dell'ancor piccola capitale del giovane regno sabaudo che proprio allora stava compiendo i suoi primi passi sulla scena internazionale, mettendo le basi di quell'interventismo diplomatico-militare i cui frutti - anche in termini di prestigio, autorevolezza politica e capacità di "stare a tavola" con le grandi case regnanti d'Europa - avrebbe raccolto nel secolo successivo ponendosi alla guida del Risorgimento italiano.
Ma in quei primi anni del XVIII secolo era la guerra di successione spagnola a mettere a ferro e fuoco il vecchio continente, dalle Fiandre alla pianura Padana. La decisione su quale dovesse essere il nuovo re di Spagna era stata affidata alle armi. Da una parte la Spagna, la Francia di Luigi XIV e alcuni principi tedeschi, dall'altra l'Impero asburgico, l'Inghilterra, l'Olanda, altri principi tedeschi e il duca di Savoia. Nella contesa il ducato savoiardo si era trovato chiuso tra il potente regno francese e i possedimenti spagnoli in Lombardia. Impossibile restare neutrali. La carta giocata da Vittorio Amedeo, e poi rivelatasi vincente, fu appunto quella di schierarsi con gli imperiali e la giovane potenza asburgica. La conseguenza fu il lungo assedio posto dall'esercito franco-spagnolo, comandato dal generale La Feuillade, alla città di Torino. Il risultato, insperato, la vittoria dei Savoia e un nuovo ordine europeo.
Le drammatiche vicende dei diecimila soldati imperiali chiusi entro le mura, a fronteggiare una macchina da guerra composta da quarantamila uomini, sono narrate con straordinaria accuratezza e intensità da Fabio Galvano, già giornalista di Epoca, Corriere della sera e La Stampa. «Questo non è e non può essere un romanzo, né una storia romanzata; bensì, fatto salvo il rigore storico, un racconto di lettura molto facile, in stile giornalistico, ricco di battute dei protagonisti, desunti per lo più da lettere e cronache contemporanee, e soprattutto di notazioni non solo storiche ma anche di costume - le canzoncine dell'assedio, per esempio - per immergere il lettore nella vita quotidiana della città assediata e dei suoi abitanti». E allora ecco materializzarsi agli occhi del lettore i cannoni che tuonano sulla città e la contemporanea caccia alle spie, appoggiata da misure ridicole come il divieto di importare noci, perché al loro interno, si diceva, potevano celarsi messaggi cifrati; ecco l'assortita moltitudine di combattenti del presidio, formato da piemontesi, tedeschi, svizzeri, irlandesi e addirittura qualche francese; ecco fiorire i bordelli, quasi uno ogni mille abitanti, la borsa nera e le invocazioni alla Santissima Vergine della Consolata; ecco le sortite di Vittorio Amedeo che si spinge fuori le mura per colpire ai fianchi le forze di La Feuillade e del duca di Vendôme, lasciando il comando della piazza al generale Virico Daun; ecco la battaglia lungo il perimetro delle mura, combattuta soprattutto a colpi di gallerie di mina e contromina, scavate da "uomini talpa" la cui storia si sarebbe poi fatta leggenda (Pietro Micca docet). Ed ecco infine l'arrivo delle attese truppe imperiali, guidate dal già famoso Eugenio di Savoia, l'eroe che aveva sconfitto i turchi a Zenta. Gli assedianti - che tali erano dai primi giorni di maggio, quando avevano impiantato il loro campo e sistemato le macchine belliche lungo il Po - sono costretti a difendersi. Il 7 settembre 1706 la spallata conclusiva, con la rotta disordinata delle truppe franco-spagnole. «Si calcola che durante l'assedio siano state tirate 6 mila bombe, 73 mila colpi di cannone con proiettili metallici (piombo e ferro), 71 mila colpi con palle di pietra, 1500 granate da mortaio, 50 mila a mano, 700 palle illuminanti». Le perdite dei francesi ammontano a più di ventimila uomini, quelle savoiarde a circa novemila. La sconfitta del Re Sole e la pace di Utrecht del 1713 segneranno la fine del dominio franco-spagnolo in Italia. E per il Piemonte un ruolo di prima grandezza tra le piccole potenze europee.
R. Gellately-B. Kiernan (a cura di), Il secolo del genocidio, Longanesi, 2006, pp. 512, euro 24,00
Genocidio: questa tragica parola, usata per la prima volta nel 1944 da un giurista (non a caso) polacco, è ormai entrata nell'uso per definire il male assoluto, l'orrore legato al massacro di popolazioni civili inermi. La nozione stessa del termine, sancita dalla convenzione dell'ONU del 1948, suscita oggi numerose obiezioni e accesi dibattiti in quanto applicata a situazioni storiche molto diverse. Quali caratteristiche hanno avuto i tanti orrori perpetrati ovunque nel corso dell'ultimo secolo? Perché hanno accomunato democrazie liberali e regimi dittatoriali? Per quali motivi il genocidio rappresenta il lato oscuro della modernità?Sono soltanto alcune delle domande che trovano risposta (o un'ipotesi di risposta) in questo libro, che rivisita criticamente in diciassette contributi di altrettanti studiosi la «soluzione finale» messa in atto dal nazismo contro gli ebrei, il terrore staliniano, le persecuzioni contro le popolazioni indigene in Africa, Australia e Nord America, le atrocità consumate più o meno recentemente in Armenia, nella Cambogia di Pol Pot, nella ex Iugoslavia, a Timor Est, in Ruanda, Etiopia e Guatemala.
C. Jampaglia-A. Milluzzi (a cura di), CGIL 100 anni al lavoro, Ponte alle Grazie, 2006, pp. 288, euro 12,00
La Cgil festeggia 100 anni. Dalle lotte dei minatori del Sulcis, alla prima Camera del Lavoro, passando per gli scioperi operai del '43 e '44, dai padri costituenti della Repubblica, per buttarsi a precipizio nella ricostruzione e nel boom, tra le valige di cartone degli emigranti e le sirene di Sesto San Giovanni o Mirafiori, la storia della Cgil e del movimento operaio sono la storia di gran parte d'Italia. Ma cosa significa oggi "sindacato"? La "Confederazione generale italiana del lavoro" conta quasi sei milioni d'iscritti ed è uno dei più importanti sindacati europei; tutti i giorni centinaia di funzionari, delegate, iscritti si occupano di contratti, territori, questioni sociali, crisi e licenziamenti, sviluppo e speranze.
Questo libro, scritto da dirigenti sindacali, racconta gli uomini e le donne della Cgil, le loro passioni e l'Italia attraverso i loro occhi; un album di fotografie, un mosaico di storie, luoghi, opinioni per guardare al sindacato e al lavoro, oggi.Con contributi di Romano Prodi, Fausto Bertinotti, Antonio Pizzinato, Bruno Trentin, Sergio Cofferati.
J. Hamilton, Il dio in armi, Corbaccio, 2006, pp. 440, euro 24,00
Il 2 novembre 2007 cade il novantesimo anniversario della «dichiarazione di Balfour», con la quale il governo del Regno Unito prometteva che si sarebbe adoperato perché agli ebrei, dopo la fine della guerra contro l'Impero Ottomano, fosse garantita in Palestina una "home". Ma perché il governo britannico decise di compiere nel 1917 un atto che avrebbe avuto straordinarie conseguenze sul futuro della regione e costretto gli inglesi, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ad abbandonare la Palestina? Nelle sue Memorie di guerra il Primo ministro liberale del Regno Unito all'epoca della dichiarazione, David Lloyd George, fornì due motivi. Il primo era una sorta di ricompensa per Chaim Weizmann, l'ebreo di origine russa che si era instancabilmente battuto negli anni precedenti per conquistare la simpatia degli inglesi alla causa sionista; il secondo era la necessità di assicurarsi l'appoggio ebraico nei paesi neutrali, soprattutto in America.
Ma questa spiegazione non convince interamente l'autrice di questo libro: Lloyd George era infatti gallese, cittadino di una piccola patria che non voleva perdere la propria identità. Ed era, come altri ministri liberali del suo governo, un cristiano nonconformista, membro di una delle denominazioni religiose protestanti che si erano lungamente battute per sopravvivere contro la tirannia della Chiesa anglicana. Cresciuto, come altri suoi colleghi, nelle spirito dell'Antico Testamento, Lloyd George era quindi un «sionista cristiano», profondamente convinto che il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa fosse iscritto nelle Sacre Scritture e fosse un avvenimento decisivo per la seconda venuta del Messia. Ma la nascita dello Stato d'Israele nel 1948 fu straordinariamente favorita, secondo Hamilton, anche dalla presenza alla Casa Bianca di un presidente, Harry Truman, che aveva per molti aspetti la stessa formazione storico-religiosa. Sembrerebbe che Dio, o piuttosto l'idea che gli uomini si fanno di lui, continui a ispirare il corso della storia.
P. Short, Mao. L'uomo, il rivoluzionario, il tiranno, Rizzoli, 2006, pp. 592, euro 28,00
"Ci accusate di agire come Qin Shihuangi ma vi sbagliate. Noi lo superiamo di cento volte." Lo stesso Mao si vantava di essere spietato quanto il primo imperatore Qin, vissuto nel III secolo a.C., che nella storia cinese era sempre stato visto come la personificazione del governo dispotico. E in effetti il numero di vittime sotto il suo regime supera probabilmente quello delle vittime dei governi totalitari nazista e sovietico messi assieme: i ventisette anni del suo regno, dal 1949 al 1976, furono per la Cina un periodo di terrore senza precedenti, durante il quale persero la vita decine di milioni di persone.
Tuttavia, il personaggio di Mao non si riduce all'enormità dei suoi crimini. Abile stratega militare, statista, politico diabolicamente scaltro, filosofo e poeta, egli fu anche l'uomo che, nell'arco di tempo di una generazione, riuscì a traghettare la Cina dal medioevo all'età moderna, trasformandola da vittima dell'imperialismo coloniale a grande potenza planetaria. È impossibile capire la Cina di oggi senza fare riferimento all'uomo che l'ha edificata, e la cui influenza continua a durare anche dopo che il comitato centrale del Pcc ha voltato le spalle alla stretta ideologia maoista scegliendo di coniugare l'autoritarismo statale con il liberismo economico.
In questo libro, considerato unanimemente come il ritratto definitivo del leader cinese, Philip Short ci aiuta a comprendere la colossale figura di Mao Zedong nelle sue molteplici sfaccettature, ripercorrendo le tappe della sua vita: dalle origini contadine e dall'infanzia confuciana alla militanza politica, dalle sanguinose lotte interne fra le fazioni comuniste al trionfo della sua discussa strategia militare, dal Grande Balzo in avanti (che portò a una carestia che, in tre soli anni, avrebbe causato la morte di milioni di cinesi) alla Rivoluzione culturale (dove il fanatismo ideologico raggiunse punte mai viste), fino all'ombra che, grazie alla crescente potenza cinese, sembra destinata a proiettarsi sul XXI secolo.
D. Pipes, Il lato oscuro della storia. L'ossessione del grande complotto, Lindau, 2005, pp. 400, euro 24,50
Il corpus di idee politiche che Daniel Pipes chiama «cospirazionismo» si formò oltre due secoli fa, quando alcuni avversari della Rivoluzione francese attribuirono ai propri nemici un'intenzione diabolica di dominio del mondo e una sovrumana capacità di pianificazione. Queste paure, che prendono in particolare di mira le società segrete e gli ebrei, si possono peraltro rintracciare anche in epoche molto lontane. La storia che Pipes racconta risale infatti fino alle Crociate (alla nascita dell'Ordine dei Templari) e mette in scena intellettuali (Spengler, Chomsky), demagoghi (Marr, Farrakhan), dittatori (Hitler, Lenin, Stalin), leader insospettabili (Disraeli, Churchill), misteri insoluti (l'assassinio di Kennedy, di Martin Luther King, di Malcolm X), casi di cronaca (il processo a O. J. Simpson, il pestaggio di Rodney King a Los Angeles), società pseudosegrete (massoneria, Illuminati di Baviera, Ku Klux Klan), grandi famiglie (Rothschild, Rockefeller, Ford). L'«ossessione del grande complotto» è un pericoloso impasto di malessere psicologico e di malafede culturale, ha radici religiose, economiche e ideologiche molto profonde e ha indubbiamente cambiato il corso della storia. Ma oggi? Secondo Pipes le teorie della cospirazione sono più vive che mai, in Occidente e nel mondo musulmano, come dimostrano molte congetture paranoiche formulate intorno all'11 settembre, alla guerra in Iraq e alla tragedia di Beslan.
Michael Jürgs, La piccola pace nella grande guerra. Il fronte occidentale,1914: un Natale senza armi, Il Saggiatore, 2006, pp. 288, euro 19,00
Accade che il corso di eventi maggiori sia attraversato da episodi all'apparenza piccoli, quasi privati, che si sottraggono alla logica della Storia e, pur non potendo modificarne le sorti, possiedono una forza sovversiva straordinaria. Questo libro ne racconta uno, un lampo di umanità tra gli orrori che hanno fatto del primo conflitto mondiale la Grande guerra. Sei mesi sono passati dall'inizio delle ostilità e lungo la linea che dalla Manica corre giù fino alle Alpi svizzere si fronteggiano le truppe tedesche e quelle alleate. Una guerra di posizione, estenuante, combattuta corpo a corpo da ragazzi di vent'anni che, per conquistare pochi metri di terreno, trascorrono settimane nel fango delle trincee sotto i colpi del fuoco nemico, della fame, del freddo e del terrore. Ma d'improvviso, alla vigilia di Natale, c'è qualcosa di nuovo sul fronte occidentale: in un luogo imprecisato delle Fiandre, dalle trincee tedesche si levano canti natalizi e cartelli con la scritta "We not shoot, you not shoot". Superata la diffidenza, gli inglesi abbassano le armi e rispondono con i loro canti di Natale. A poco a poco i soldati dei due schieramenti escono allo scoperto e concordano una tregua di tre giorni, ribellandosi agli ordini delle autorità militari. Ciò che accade in quelle ore nella "terra di nessuno" ha il fascino e il mistero delle vicende umane: i soldati fraternizzano, mostrano le foto dei propri cari, seppelliscono i cadaveri rimasti a marcire sul campo, organizzano partite di calcio con mezzi di fortuna. La piccola pace si diffonde come corrente elettrica lungo l'intera linea del fronte, e fa notizia. Ma non avrà lunga vita: i soldati imbracceranno di nuovo i fucili, i giornalisti per lo più saranno costretti al silenzio e la guerra per altri quattro anni mieterà le sue vittime. Materiali d'archivio, diari, fotografie, lettere hanno consentito a Michael Jürgs di raccontare quegli incredibili giorni come in un lungo piano sequenza, regalando al lettore una piccola grande storia.
J. Pérez, Breve storia dell'inquisizione spagnola, Corbaccio, 2006, pp. 240, euro 18,60
Nell'Europa dei Lumi, dominata dal pensiero ironico e graffiante di Voltaire, la parola Inquisizione divenne sinonimo di fanatismo e oscurantismo. Anche negli ultimi decenni gli storici e i letterati hanno contribuito a diffondere la convinzione che l'Inquisizione fosse l'arma della Chiesa contro il dissenso e per molti aspetti il modello storico dei servizi di sorveglianza ideologica con cui i totalitarismi del XX secolo perseguitarono i loro oppositori. Ma la realtà, nascosta sotto una fitta coltre di luoghi comuni e idées reçues, è almeno in parte diversa. Dell'Inquisizione si comincia a parlare nel basso medioevo e si finisce nel diciannovesimo secolo. È un organo ecclesiale che concerne tutta l'Europa medievale e moderna e, di riflesso, il Nuovo Mondo; ed è un fenomeno di grande complessità e varietà. Ma è bene ricordare che essa fu anzitutto spagnola e che venne istituita da papa Sisto IV nel 1478 su sollecitazione di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia. Quando pubblicò il codice di procedura del nuovo tribunale, nel 1484, il domenicano Torquemada, iniziò la sua introduzione con le parole: «Per ordine dei serenissimi re e regina». Dalla corona di Spagna, quindi, non dal papa di Roma l'Inquisitore traeva la sua autorità. Attraverso l'analisi puntuale di tutti i suoi aspetti, dalla lotta ai conversos - gli ebrei convertiti ma «giudaizzanti» - alla caccia alle streghe, dagli organismi centrali al personale subalterno, dai processi agli autodafé, dai rapporti con l'economia a quelli con la vita intellettuale, Pérez mette in luce, nell'Inquisizione spagnola, quel nodo inestricabile di temporale e spirituale che «conteneva in nuce una delle più pericolose tentazioni del mondo moderno: la tendenza a fare delle ideologie il complemento obbligato della politica».