RABIN - Dopo una vita dedicata alla difesa
dello Stato di Israele (2)

ASSASSINATO
NELLA TRINCEA
DELLA PACE

di Marco Paganoni

Truppe israeliane alle porte di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni

La vittoria, tuttavia, non diede alla testa a un uomo come Rabin. Egli non perse mai di vista lo scopo fondamentale di tutte le operazioni belliche d’Israele: difendersi e creare le condizioni per arrivare alla pace. Cessati i combattimenti, Rabin dichiarò subito che Israele doveva far valere la supremazia militare così potentemente affermata sul campo per barattare da posizioni di forza una pace duratura in cambio di una parte dei territori appena conquistati. "Quella piccola nazione di sopravvissuti ai millenni di persecuzioni, fino all’Olocausto nazista – ha scritto Arrigo Levi – non poteva accettare di farsi distruggere: doveva salvare a ogni costo quella terra e quello Stato che avevano restituito al popolo ebraico il rispetto degli altri popoli e il controllo sul proprio destino. Ma la terra non acquistò mai, per i vecchi sionisti come Rabin, un valore mistico e assoluto, non divenne mai un feticcio. Essi non dimenticarono mai che per assicurare la sopravvivenza dello Stato d’Israele bisognava arrivare a fare la pace con il mondo arabo; e non cessarono mai di riconoscere che c’era un altro popolo su quella terra, con cui bisognava riconciliarsi. Non era e non poteva essere parte del sogno sionista, un sogno di liberazione, il dominio su un altro popolo". Anche i territori occupati nel corso delle guerre non acquistarono mai, agli occhi di Rabin, il valore assoluto di "un dono del Signore": erano utili come protezione per la sicurezza, ma rimasero sempre negoziabili in cambio di quella pace con i vicini arabi che i sionisti alla Rabin non smisero mai di perseguire. Ventotto anni dopo sarà proprio questo approccio, e la decisione di ritirare le forze israeliane da quei territori sulla base di un accordo coi palestinesi, ciò che scatenerà la furia del suo assassino. Per capire fino in fondo l’uomo Rabin, vale la pena rileggere le parole che pronuncia il 29 luglio 1967, quando riceve una laurea ad honorem dall’Università Ebraica di Gerusalemme.
RIFIUTO DEL TRIONFALISMO Non sono trascorsi neanche due mesi da quando le sue forze armate hanno letteralmente salvato Israele da un secondo Olocausto. Ma Rabin non si abbandona a nessun trionfalismo.
"Siamo qui – dice – grazie a una lotta che, benché ci sia stata imposta, si è trasformata in una vittoria che ha stupito il mondo. Tra i nostri combattenti riscontriamo sempre più spesso un fenomeno singolare. La loro gioia non è totale. Alcuni addirittura si astengono dalle celebrazioni. Chi ha combattuto sul fronte ha visto con i suoi occhi non solo l’aspetto glorioso della vittoria, ma anche il suo prezzo: i compagni caduti al suo fianco, sanguinanti. E so che anche il terribile prezzo pagato dai nostri nemici ha toccato il cuore di molti dei nostri uomini. Può darsi che il popolo ebraico non abbia mai imparato o non si sia mai abituato a gustare il trionfo della conquista e della vittoria. Perciò la accogliamo con sentimenti confusi e contrastanti".
Non sono le parole di un capopopolo carismatico. Ma sono parole che toccano le corde giuste nel cuore di molti israeliani. Rabin, a poco a poco, sta diventando il vero leader del suo paese. L’1 gennaio 1968, a quarantasei anni, Rabin smette la divisa. Come è consuetudine in Israele, si ritira dalla forze armate ancora giovane, all’apice della carriera. Viene nominato ambasciatore negli Stati Uniti dall’allora ministro degli esteri Golda Meir, carica che ricopre per cinque anni, proprio nel periodo in cui vengono gettate le basi della solida alleanza tra Israele e Stati Uniti. Cinque anni più tardi, scaduti i termini della missione, rientra in patria e trova una situazione completamente cambiata. Dopo lo shock della guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973), si è aperto un dibattito lacerante nell’opinione pubblica israeliana.
DALL’ESERCITO AL PARLAMENTO Tutta la vecchia leadership politica, da Moshé Dayan a Golda Meir, è chiamata a rispondere, a torto o a ragione, di quanto è accaduto e dei rischi scongiurati solo all’ultimo momento. Il partito laburista ha bisogno di portare alla ribalta facce nuove. Nelle elezioni del dicembre 1973 Rabin viene eletto alla Knesset (parlamento) e quando Golda Meir forma il suo ultimo governo, nell’aprile 1974, Rabin viene chiamato a ricoprire la carica di ministro del lavoro. In giugno, quando la vecchia Golda passa il testimone, la poltrona di primo ministro tocca a lui. A 52 anni Rabin diventa così il premier più giovane della storia d’Israele. Ed è il primo di essi che possa fregiarsi dell’appellativo di sabre, il nomignolo orgogliosamente portato dagli ebrei nati in terra d’Israele. Il primo governo presieduto da Rabin durerà tre anni durante in quali vengono conseguiti alcuni importanti risultati. Rabin si dedica al rilancio dell’economia e al rafforzamento delle forze armate, due settori particolarmente provati dal tremendo sforzo fatto nella guerra dello Yom Kippur.
Sul fronte diplomatico, sfruttando a fondo i buoni rapporti instaurati con gli Stati Uniti e la serrata opera di mediazione del segretario di stato Henry Kissinger, il governo Rabin giunge alla firma dei primi accordi di disimpegno tra Israele, Egitto e Siria (1974), seguiti da veri e propri accordi ad interim siglati con l’Egitto nel 1975 e, più tardi, dal primo memorandum d’intesa fra i governi di Gerusalemme e del Cairo. Vengono così gettate le basi politiche e diplomatiche che daranno pienamente i loro frutti pochi anni più tardi, con le trattative di Camp David, nel 1978, e il trattato di pace fra l’Egitto di Anwar el Sadat e l’Israele di Menachem Begin, nel 1979: primo, storico caso di pace ufficiale tra Israele e un paese arabo. Rabin stesso aveva scritto: "L’accordo con l’Egitto del 1975 non fu mai inteso come un punto di arrivo. Posso solo sperare che la prossima conquista su questa via abbia successo e sia duratura".
INCONTRI SEGRETI PER LA PACE Rabin non si limitò a sperare. Oggi si sa che in quegli anni organizzò una serie di incontri segreti con vari leader arabi, in primo luogo con re Hussein di Giordania che incontrò più volte, in varie località del deserto che si stende fra i due paesi. I due uomini, che si erano fieramente combattuti in tante occasioni, impararono a conoscersi e a stimarsi. Si sviluppò in quegli anni un’autentica amicizia che si sarebbe svelata solo vent’anni più tardi, nel 1994, quando Rabin e re Hussein poterono abbracciarsi pubblicamente per la firma del trattato di pace tra Israele e Giordania (il secondo tra Israele e uno stato arabo dopo quello con l’Egitto), e che un anno dopo avrebbe commosso il mondo con le lacrime di re Hussein a Gerusalemme, davanti al feretro dell’amico assassinato.
Nei primi mesi del 1977, Rabin si recò persino in Marocco, camuffato con barba e baffi finti, per incontrare re Hassan II e valutare la possibilità che egli facesse da tramite nella trattativa con l’Egitto. Anche questo fu un viaggio fruttuoso, e il successivo governo di Begin poté contare sui buoni uffici del monarca marocchino per fare il grande passo verso la pace con l’Egitto. Ma il primo governo Rabin non conobbe solo successi diplomatici. La guerra continuava, in particolare sotto forma di attacchi terroristici. E Rabin, quasi fosse un tratto del suo destino, si trovò nuovamente nella necessità di prendere fatali e rischiosissime decisioni militari. Il 4 luglio 1976 toccò a lui, come capo del governo, dare l’ultimo okey alla decisione di lanciarsi nella temeraria operazione di salvataggio di 104 ostaggi ebrei trattenuti all’aeroporto ugandese di Entebbe da un commando di terroristi arabi e tedeschi in combutta con le autorità locali. "Signori – disse Rabin ai suoi più stretti collaboratori – se l’operazione fallisce, domani si sarà un altro primo ministro". Ma l’operazione non fallì. Gli ostaggi furono salvati, gli aerei tornarono sani e salvi alle basi. L’unica vittima israeliana fu il comandante del commando, Yonatan Netanyahu (fratello maggiore dell’attuale primo ministro).
UNO SPIACEVOLE INCIDENTE La popolarità di Rabin saliva alle stelle. In quel momento nessuno avrebbe detto che, dopo meno di un anno, nell’aprile 1977, Rabin avrebbe dato le dimissioni. Ma accadde che uno scoop giornalistico svelò l’esistenza di due conti correnti (per un totale di duemila dollari!) che Leah Rabin aveva mantenuto su una banca americana sin dai tempi in cui il marito era stato ambasciatore a Washington. Per le rigide regole di allora in materia di valuta, si trattava di un reato. Ne seguì una breve inchiesta dalla quale non emerse nulla contro lo stesso Rabin. E tuttavia egli non volle dissociare la propria posizione da quella della moglie e fu irremovibile nella decisione di ritirarsi e lasciare a Shimon Peres il compito di guidare il partito laburista alle elezioni anticipate. "Non volle ascoltare consigli, asserendo che si trattava di un errore umano", spiega il suo collaboratore Dan Pattir.
"In effetti, restando al fianco di Leah, condividendo con lei il peso delle critiche, Rabin aveva fatto quello che fa un comandante militare che non abbandona sul campo di battaglia i soldati feriti". Un mese dopo, un milione e ottocentomila israeliani andarono alle urne sancendo il ribaltone storico e l’ascesa al governo del Likud di Menachem Begin. Anche se a quel tempo non lo sapeva, le dimissioni di Rabin nel 1977 furono determinanti nel senso che segnarono l’inizio di una lunga marcia che doveva riportarlo all’apice del potere. Le modalità delle sue dimissioni, l’aver preso lui l’iniziativa, l’essere rimasto a fianco della moglie, l’aver insistito sulla necessità che il primo ministro fosse al di sopra di ogni sospetto, tutto ciò gli procurò vaste simpatie fra l’opinione pubblica. I più erano inclini a considerare la sua colpa più una svista che una trasgressione morale. Comunque sia, nell’immediato Rabin si trovò a giocare semplicemente il ruolo di esponente dell’opposizione parlamentare. I sette anni che seguono sono per lui anni senza cariche pubbliche.
ESPLODE L’INTIFADA Il suo momento si ripresenta nel settembre 1984 quando, dopo mesi di stallo, i due blocchi – laburisti e Likud – formano il primo governo di unità nazionale. Israele è in un momento difficile. Due anni prima le sue forze armate erano penetrate profondamente in Libano allo scopo dichiarato di eliminare la presenza militare dell’Olp e assicurare tranquillità sul martoriato confine settentrionale. Ma l’avanzata era arrivata fino a Beirut, nella speranza di mutare definitivamente gli equilibri politici nel paese vicino. E nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, proprio mentre erano presenti le truppe israeliane, si era consumato l’ennesimo massacro libanese, in questo caso ad opera delle milizie cristiane. Anche sul versante dell’economia, la situazione era pessima, con l’inflazione annuale che era arrivata a toccare punte del 500%. Nei governi di unità nazionale (1984-88 e 1988-90) Rabin ricopre l’incarico di ministro della difesa.
Fin dal gennaio 1985 si adopera per organizzare il ritiro delle forze israeliane dal Libano meridionale (che verrà completato nel giugno dello stesso anno). Per cercare comunque di garantire un margine di sicurezza agli abitanti della Galilea, ora che in Libano si sono attestate formazioni integraliste filo-iraniane, Rabin crea la cosiddetta "fascia di sicurezza": una striscia di territorio libanese a ridosso del confine israeliano tuttora pattugliata dalle forze israeliane insieme ai loro alleati sud-libanesi. Nel dicembre 1987, quando esplode l’intifada, è Rabin il ministro della difesa che si trova a doverla affrontare, cercando di adattare il più rapidamente possibile i mezzi e i metodi di un esercito che è preparato al combattimento e che deve affrontare compiti di polizia e di ordine pubblico. Gli anni della rivolta palestinese nei territori (1988-1990) furono un periodo, soprattutto inizialmente, di confusione, di calcoli sbagliati, di tentativi ed errori. Rabin, pur convinto dell’importanza strategica dei territori occupati, non pensò mai che li si dovesse tenere tutti e per sempre (cosa che lo metteva in rotta di collisione con le espressioni più estreme del nazionalismo religioso ebraico, sviluppatosi a partire dagli anni Settanta).
REALISTA E PRAGMATICO Né dimenticò mai che quei territori erano abitati. Ma, come la maggior parte dei suoi connazionali, aveva anche ben chiaro quale fosse il compito delle forze armate, e cioè quello di fare tutto ciò che è necessario perché il governo possa prendere liberamente le decisioni politiche che crede, senza dover sottostare alle minacce e alla violenza. In verità, nel periodo iniziale dell’intifada né gli israeliani né i palestinesi erano in grado di comprendere davvero la portata degli avvenimenti. La protesta dei palestinesi stava conoscendo un salto di qualità la cui comprensione si affacciava molto lentamente ai responsabili sia d’Israele che dell’Olp. Per quanto riguarda Rabin, oggi si sa che in quegli anni (ma è una storia ancora da scoprire e da scrivere), oltre a cercare di ristabilire con ferma determinazione il controllo sui territori in rivolta, egli si dedicò a una serie di contatti riservati con i dirigenti palestinesi locali, nella convinzione che in ogni caso la questione palestinese avrebbe alla fine richiesto una soluzione di tipo politico. Non vi sono conferme, ma non è azzardato affermare che probabilmente già alla fine degli anni Ottanta ebbe i primi contatti, diretti e indiretti, con esponenti palestinesi come Sari Nusseibeh e Feisal Husseini.
Rabin era realista e pragmatico, e sapeva che i palestinesi locali avevano una cultura politica e interessi assai diversi da quelli che caratterizzavano i leader storici di stanza nel quartier generale dell’Olp a Tunisi. Ma sapeva anche che quelli non potevano muoversi senza l’appoggio di questi, e che dunque l’uscita dall’impasse andava cercata sui due piani contemporaneamente. Nel 1989 il governo israeliano presenta un piano di pace che prevede elezioni nei territori e un’autonomia allargata per un periodo transitorio, con un graduale ritiro israeliano dai maggiori centri a popolazione palestinese. Sono idee di Rabin fatte proprie dal primo ministro Yitzchak Shamir. Lo stesso Nusseibeh dirà poi d’essersi meravigliato nel constatare quante delle sue proposte fossero confluite nel "piano Shamir".
"MISTER SICUREZZA" Nel marzo del 1990, tuttavia, il governo di unità nazionale cade perché la componente laburista ritiene che Shamir non si stia realmente impegnando nell’attuazione del piano, peraltro respinto delle controparti, e i laburisti tornano (per due anni) all’opposizione. Ma a quel punto la situazione è cambiata: la rivolta di massa nei territori, dopo aver raggiunto il suo apice, ha ceduto il passo a una guerra di gruppuscoli che attaccano gli israeliani a mano armata e tende ad avvolgersi su se stessa in una spirale di violenze fratricide, mentre all’orizzonte si profila una nuova crisi inaspettata: l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.
Nel frattempo, tuttavia, l’intifada aveva lasciato il segno: aveva trasformato il popolo palestinese in un vero protagonista, ancorché nemico, e in quanto tale aveva acquisito agli occhi di Rabin i requisiti potenziali per diventare un autentico interlocutore in una trattativa di pace. Nel febbraio 1992 per la prima volta il partito laburista israeliano seleziona i propri candidati attraverso un meccanismo di elezioni primarie "all’americana". Affrancato dagli angusti giochi di partito, Rabin vince la competizione interna ed è chiamato a guidare il partito nella campagna elettorale del giugno 1992. È la svolta. Forte dei suoi successi passati (tanto da meritarsi il soprannome di "Mister Sicurezza"), Rabin può permettersi di fare agli israeliani un ragionamento relativamente semplice: "La guerra del Golfo – dice – ha aperto uno spazio di opportunità per la pace in Medio Oriente. Ma questa possibilità non resterà aperta all’infinito. Il partito laburista farà il possibile per cogliere l’occasione, mentre il Likud quasi certamente la sprecherà". Il 23 giugno 1992 due milioni e seicentocinquantamila israeliani vanno alle urne. Il risultato è una netta vittoria dei laburisti, e a tutti appare chiaro che si tratta di un’affermazione personale del loro leader.
DI NUOVO PRIMO MINISTRO Il 13 luglio 1992 Rabin forma il venticinquesimo governo israeliano, assumendo la carica di primo ministro e ministro della difesa, e chiama agli esteri il suo vecchio compagno e rivale Shimon Peres. All’inizio i loro rapporti sono ancora tesi. Poi, con sorpresa di tutti, il binomio inizia a funzionare e i due si trovano a lavorare fianco a fianco come non erano mai riusciti a fare. Le loro grandi dispute sono ormai cosa del passato. Rabin ha settant’anni, Peres sessantanove. Hanno entrambi un’età in cui avere la preminenza conta meno di un risultato effettivo. Ed sono entrambi ossessionati da un’idea: fare la pace. "Rabin – ha scritto Hirsh Goodman, caporedattore del Jerusalem Report – fu per Israele l’uomo giusto al momento giusto. L’intifada era estinta.
L’Unione Sovietica, che per decenni aveva appoggiato i nemici più implacabili di Israele contribuendo a perpetuare il conflitto oltre ogni misura, si era dissolta. Il pericolo dell’Iraq era cessato in seguito alla guerra del Golfo. Le leadership arabe e palestinesi iniziavano a digerire l’idea che con Israele si dovesse trattare anziché scontrarsi. Come generale, Rabin era consapevole che i suoi soldati avevano sostanzialmente vinto la loro lunga guerra. Ma, a differenza di tanti altri leader, sapeva anche che la vittoria sarebbe stata vana se non fosse stata trasformata in un futuro migliore per Israele e per tutta la regione mediante trattative di pace: una pace ottenuta non da posizioni di debolezza, ma da posizioni di forza". Oggi sappiamo che i primi contatti riservati tra i negoziatori israeliani e quelli dell’Olp, svolti prevalentemente nella capitale norvegese, risalgono al dicembre 1992-gennaio 1993. Ma solo alla fine dell’agosto 1993, suscitando vivissima sorpresa in tutti gli ambienti internazionali, sarebbe stata resa pubblica la notizia che Israele e Olp avevano intrattenuto a Oslo negoziati diretti per otto mesi e che avevano raggiunto un accordo di massima sul graduale passaggio di poteri nei territori.
GRANDE VITTORIA POLITICA Per Rabin, la parte psicologicamente più ardua veniva adesso. Gli uomini con cui avrebbe dovuto firmare l’accordo erano gli stessi che aveva combattuto per una vita, gli stessi che portavano la responsabilità di alcuni dei più feroci attacchi terroristici contro Israele e il popolo ebraico. Rabin pretese una serie di impegni precisi: l’Olp avrebbe dovuto cessare ogni forma di terrorismo e riconoscere il diritto di Israele ad esistere come stato sovrano; avrebbe dovuto modificare la sua Carta fondamentale eliminando tutte le clausole che invocavano la distruzione d’Israele; avrebbe dovuto incitare tutti i palestinesi a rinunciare alla violenza e combattere quelli che rifiutavano di farlo.

Il leader dell' OLP Yasser Arafat

Il 9 settembre 1993 Yasser Arafat firmava una lettera indirizzata a Rabin in cui venivano esplicitamente assunti tutti questi impegni. Il 10 settembre Rabin rispondeva ad Arafat con una lettera di due righe in cui, a nome di Israele, riconosceva l’Olp come rappresentante del popolo palestinese. Il 13 settembre 1993, a Washington, sul prato della Casa Bianca, davanti agli occhi di tutti il mondo, i due uomini si incontravano e firmavano quella Dichiarazione di Principi israelo-palestinese che sta alla base di tutta la successiva sequenza di negoziati e accordi, tuttora in via di attuazione. Al termine della cerimonia Arafat, in divisa militare e keffiah, si mosse verso Rabin. Questi ebbe un attimo di esitazione. Poi, da soldato disciplinato, fece quel che doveva fare per la causa della pace. Prese la mano di Arafat e la strinse energicamente per un lungo attimo. Subito dopo si volse verso Peres e borbottò, con quel tanto di ironia cui poté fare appello: "Ora tocca a te". Quel passaggio, per Rabin, fu emotivamente molto difficile. In quel momento la sua mente non poteva liberarsi dalle immagini degli atleti uccisi alle Olimpiadi di Monaco, dei bambini massacrati negli asili, degli autobus saltati in aria, dell’abbraccio tra Arafat e Saddam Hussein mentre su Israele piovevano gli Scud iracheni.
DIFFICILE ABBRACCIO AD ARAFAT Ma razionalmente sapeva che quel riconoscimento reciproco, quella firma, quella stretta di mano erano proprio lo scopo per cui infinite volte nella sua vita aveva dovuto combattere e mandare a combattere. "La firma di questa Dichiarazione di principi – disse Rabin nel suo discorso in quell’occasione – non è facile né per me, come soldato, né per il popolo d’Israele e per il popolo ebraico, che ci stanno guardando in questo momento con grande speranza mista ad apprensione. Non è certo facile per le famiglie delle vittime della guerra, della violenza, del terrorismo, il cui dolore non passerà mai. Per le migliaia che hanno difeso le nostre vite anche a costo di sacrificare la propria. Per costoro, questa cerimonia è giunta troppo tardi. Oggi, alla vigilia di una opportunità di pace e, forse, della fine della violenza e delle guerre, noi ricordiamo tutti costoro uno per uno con amore imperituro. Siamo venuti da Gerusalemme, l’antica ed eterna capitale del popolo ebraico. Siamo venuti da una terra afflitta e addolorata".
"Siamo venuti da un popolo, da una casa, da una famiglia che non hanno conosciuto un solo anno, non un solo mese in cui le madri non abbiano pianto i propri figli. Siamo venuti per cercare di mettere fine alle ostilità, in modo che i nostri figli e i figli dei nostri figli non conoscano più il doloroso prezzo della guerra, della violenza, del terrore. Siamo venuti per tutelare le loro vite e per alleviare la sofferenza e le dolorose memorie del passato. Per sperare e pregare per la pace". La porta è aperta, il cammino tracciato. Un cammino senz’altro impervio, che avrebbe conosciuto (e ancora conoscerà) errori, sbandamenti, ritardi, battute d’arresto. Un cammino in salita, osteggiato da potenti forze ostili, schierate da tutte le parti, capaci di mietere vittime e spargere terrore, come nella moschea di Hebron o sugli autobus di Gerusalemme, fino al punto di far dubitare della possibilità stessa che il processo prosegua.
ACCORDO CON LA GIORDANIA Ma Rabin, ostinato come solo lui sapeva essere, ripete: "Continueremo il processo di pace come se non ci fosse il terrorismo e combatteremo il terrorismo come se non ci fosse il processo di pace". E il processo va avanti. Il 5 maggio 1994, al Cairo, viene firmato un primo accordo pratico per l’autonomia di Gaza e Gerico. Il 13 maggio le forze israeliane sgomberano da Gerico. Il 17 dalla Striscia di Gaza. Il 25 luglio Giordania e Israele firmano un accordo di non-belligeranza. Il 3 agosto re Hussein sorvola Gerusalemme alla guida del suo jet privato e parla per radio con Rabin, mentre tutti gli israeliani applaudono commossi, col naso all’insù. Il 26 ottobre viene firmato il trattato di pace tra lo Stato d’Israele e il Regno Hashemita di Giordania. Intanto, a catena, giungono riconoscimenti e segnali di apertura da vari paesi della Lega Araba, come Marocco, Tunisia, Oman, Qatar e Bahrain. Il 30 dicembre 1993 anche la Santa Sede rompe gli indugi e riconosce ufficialmente lo Stato d’Israele.
Il 28 settembre 1995, due anni dopo la prima storica stretta di mano, i tre premi Nobel Rabin, Peres e Arafat sono di nuovo a Washington per la firma dell’Accordo ad interim israelo-palestinese, detto "Oslo Due", che garantisce ai palestinesi libere elezioni e l’autogoverno su tutte le principali città e zone abitate da palestinesi in Cisgiordania.
L’enorme elicottero color del fango si levò lentamente dalla verde collina della Knesset, a Gerusalemme, e puntò verso est. In basso il paesaggio mutò rapidamente dal brullo terreno lunare del deserto di Giudea, a una stretta vallata fertile percorsa dal fiume Giordano, e poi di nuovo al deserto spazzato dal vento. Subito dopo apparve il profilo di un’altra capitale mediorientale, costruita sulle colline, e l’elicottero dell’aviazione israeliana si accinse ad atterrare. Venti minuti dopo aver lascito Gerusalemme, Yitzchak Rabin scendeva sul terreno antistante il palazzo reale hashemita, subito fuori Amman, e veniva ricevuto con calore da re Hussein.
LA CONFERENZA DI AMMAN I due vecchi amici si godettero assieme una fumatina, prima di raggiungere i millequattrocento delegati alla Conferenza di Amman sull’Economia del Medio Oriente e del Nord Africa, la ragione della visita di Rabin. Era il 29 ottobre 1995. Il fatto stesso che quella conferenza si potesse tenere, in quel luogo e con quelle modalità indicavano con drammatica evidenza quanto il processo di pace, insieme al crollo dell’Urss, avesse portato tanta parte del mondo arabo a riconciliarsi con l’idea della legittima esistenza di Israele e a valorizzare la possibilità di intrattenere con esso proficui rapporti. Nel 1975, ben settantacinque paesi avevano votato a favore della vergognosa risoluzione Onu che equiparava il sionismo a una forma di razzismo. Nel 1991, quando venne convocata la conferenza di Madrid, erano 91 i paesi che avevano relazioni con Israele. Nel 1994 l’assemblea dell’Onu votò l’abrogazione di quella risoluzione. Alla fine del 1995 i paesi in rapporti diplomatici con Israele erano già diventati 155, compresi India e Cina. Quella domenica, pochi giorni prima d’essere assassinato, Rabin poteva guardarsi attorno dalle terrazze di Amman con un giusto senso di orgoglio.
Gran parte di quei successi erano opera sua. L’uomo che aveva sempre combattuto per la libertà d’Israele aveva saputo riversare le stesse energie nello sforzo di liberare Israele dal peso della guerra e dell’occupazione. Questo è ciò che ha fatto grande Rabin agli occhi del mondo, che ne ha fatto un gigante in vita e una perdita immensa nel momento della morte: la capacità che ebbe di declinare la stessa battaglia di libertà, prima nella difesa del paese dalla minaccia esterna, poi nella difesa del paese dalla guerra stessa e dai veleni di una protratta, non voluta occupazione su un altro popolo. I discorsi pubblici pronunciati da Rabin negli ultimi anni – complice il fatto che spesso si trattava di occasioni molto solenni, momenti davvero storici – sono pervasi da un profondo senso di necessità: la necessità politica e militare di combattere finché non si può fare altrimenti; la necessità etica di fare la pace appena se ne intravede la possibilità.
CENTO ANNI DI LUTTI Perché è intollerabile che altre sofferenze, altri lutti vengano imposti alle nuove generazioni. Il Rabin che parla sul prato della Casa Bianca pochi istanti prima di stringere la mano ad Arafat, che parla alla Knesset per presentare i diversi accordi via via sottoscritti con i palestinesi, o nel deserto di Aravah il giorno della pace con la Giordania; ma anche il Rabin che si rivolge alla nazione dopo l’ennesimo attentato contro un autobus israeliano non manca mai di ricordare, a sé e agli altri, che ogni vita umana stroncata dalla guerra è una perdita irreparabile, che i discorsi sulla pace e sulla guerra valgono poco se non trattano della vita e delle sofferenze delle singole persone. Quando, nel luglio 1994, gli fu consegnato il premio Unesco per la pace, Rabin parlò molto schiettamente:
"La pace è un concetto astratto – disse – e i governanti tendono a considerare solo gli elementi che formano il quadro generale. Per quanto mi riguarda, io cerco sempre di tradurre il concetto di pace nella vita della gente: uomini e donne in carne e ossa, con nomi e indirizzi. Talvolta, quando devo prendere una decisione, penso ad alcune persone in particolare e considero la vita che è capitata loro in sorte". Rabin ricordava con dolore tutti i giovani che aveva visto morire: "I nostri nonni, i nostri padri, noi, i nostri figli e persino i nostri nipoti, non abbiamo conosciuto praticamente altro che sangue e lutto e per cento anni questo sangue non ci ha dato tregua", disse il 4 maggio 1994 all’atto della firma dell’accordo su Gaza e Gerico. Ricordava, con visibile sofferenza, tutte le volte in cui aveva dovuto mandare dei giovani a morire. E a uccidere. "Il cuore si stringeva alla vista delle distruzioni e della morte. Anche noi momenti più amari sapevamo che le lacrime delle nostre madri non erano diverse dalle lacrime di tutte le madri".
L’ EREDITA’ MORALE E POLITICA Lo statista Rabin disposto a giocarsi tutto, anche la vita, pur di porre fine alla guerra illumina retrospettivamente il Rabin soldato e generale, che aveva sempre odiato la guerra, anche quando la combatteva e vinceva. E l’ebreo Rabin volle concludere il celebre discorso del 13 settembre 1993 alla Casa Bianca citando Qoèlet: "Per ogni cosa c’è una stagione e c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo. Oggi è arrivato il tempo per la pace". Ha scritto Hirsh Goodman: "L’eredità di Rabin non è morta con lui. Se il suo assassino Yigal Amir provò una certa soddisfazione, essa fu prematura. Il successore Benjamin Netanyahu, uomo del Likud, ha capito ben presto che la politica di Rabin aveva una sua logica inevitabile. Quando, il 4 settembre 1996, Netanyahu strinse per la prima volta la mano al presidente dell’Autorità palestinese Arafat, il fatto simboleggiò il riconoscimento che Rabin aveva avuto ragione". (2 - FINE)

Principali testi consultati

AA.VV. (a cura di David Horovitz), Shalom, amico. La vita e l’eredità di Yitzhak Rabin, Firenze, Giuntina, 1997.

Eli Barnavi, Storia d’Israele dalla nascita all’assassinio di Rabin, Milano, Bompiani, 1996.

Arrigo Levi, Yitzhak Rabin. 1210 giorni per la pace, Milano, Mondadori, 1996.

Fiamma Nirenstein, Israele. Una pace in guerra, Bologna, Il Mulino, 1996.

Shimon Peres, Il nuovo Medio Oriente, Napoli, Morano, 1994.

Yitzchak Rabin, The Rabin Memoirs, Little, Brown, Boston, 1979.

Susan H. Rolef (a cura di), The Political Dictionary of the State of Israel, Jerusalem Publishing House, 1993.



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