Dal XV al XX secolo il consumo di oppio ha conosciuto un continuo crescendo. Come spiega un recente saggio pubblicato da Utet, il vizio si diffuse in Oriente grazie all'aura letteraria e artistica che circondava questa sostanza.
La "cultura"
dell'oppio in Cina
di DIEGO BERTOZZI
Nel suo normale percorso di studi storici uno studente italiano si imbatte per la prima volta nell'oppio in collegamento con gli avvenimenti che toccano l'Impero cinese intorno alla metà del XIX secolo. La sostanza stupefacente costituisce, infatti, il complemento di specificazione delle due guerre, conosciute appunto come le "Guerre dell'oppio", che la Gran Bretagna, poi in alleanza con la Francia, scatena e vince facilmente contro il Celeste Impero nel 1839 e nel 1856.
L'imposizione alla dinastia Qing del libero commercio di oppio è il grimaldello che apre il secolo (1842-1949) dello sfruttamento coloniale e imperialista del gigante asiatico. Avvenimenti che in questa rivista abbiamo già trattato in precedenti articoli.
Ora è il momento di cambiare prospettiva grazie al volume intitolato Storia sociale dell'oppio (Utet 2007, pp. 261, euro 22,00), di Zheng Yangwen, ricercatrice di studi asiatici dell'Università Nazionale di Singapore: non più le conseguenze politico-sociali delle due guerre, ma la storia del consumo dell'oppio in Cina. La storia di uno stupefacente che nel giro di un secolo diventa, da lusso aristocratico e simbolo di distinzione sociale, un vero e proprio fattore culturale popolare tale da imporsi all'estero come un segno distintivo dell'impero cinese, un suo prodotto naturale. Ma come e perché è nata la richiesta di oppio? Chi lo consumava? Perché si diffuse così capillarmente? Queste sono le domande che si pone l'autrice nel suo originale lavoro di ricerca.

L'oppio era conosciuto e coltivato in Cina già in epoca Tang come uno dei tanti
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Il volume di Zheng Yangwen.
medicinali erboristici utilizzati per combattere disturbi e dolori vari. Il suo potere era particolarmente indicato contro la dissenteria, la tosse, l'asma e l'insolazione. La sua prima trasformazione si verifica in epoca Ming: da medicinale (yao) diventa un efficace medicinale conosciuto come "pozione di primavera" (Chun yao) in grado di stimolare il desiderio sessuale, rivitalizzare il rapporto e controllare l'eiaculazione. Alla fine del XV secolo è un potente afrodisiaco per aumentare le prestazioni in quella che viene definita "l'arte del commercio con le donne".
Ad utilizzarlo, e a sancirne la nuova funzione, sono la corte imperiale, i letterati, gli ufficiali e gli uomini più facoltosi che lo fanno crescere nei propri giardini. A fare uso di oppio è la signora Wan, anziana consorte dell'imperatore Chenghua, che, all'età di 35 anni, doveva affrontare la concorrenza delle centinaia di donne a corte e aumentare il proprio fascino; è l'imperatore stesso che ha la necessità di procreare un erede. Eunuchi ed ufficiali di corte sono gli "alchimisti" che devono procurarsi le sostanze e preparare gli afrodisiaci.
Gentiluomini e letterati, come Fang Yizhi, contano le lodi della "fragranza nera" (wu xiang) e partecipano attivamente alla sua diffusione: «Quando è ancora un bocciolo verde, pungilo circa dieci volte con un ago. Ne uscirà il succo: mettilo in un vaso di porcellana e usa la carta per sigillarne la sommità. Lascialo riposare per ventisette giorni e diventerà oppio. Può controllare le polluzioni». L'oppio arrivava a Pechino nelle vesti di prezioso dono offerto dagli Stati vassalli, come il Siam, per compiacere ed ingraziarsi il potente vicino.
Il consumo di oppio non si innesta sul nulla. Trova un terreno preparato dalla diffusione del tabacco e del tè, sviluppatosi durante le epoche di prosperità e pace delle dinastie Ming e Qing, e dai riti e dalle usanze che si costituiscono attorno ad essi.
Nel XVII secolo, quando l'oppio è solo un lussuoso ed elitario afrodisiaco, il consumo del tabacco è universale, attraversa e dilaga in tutta la struttura sociale. Arrivato dalle colonie europee in Asia (Filippine, India, Indocina e Taiwan) solo sessanta anni dopo l'arrivo di Colombo in America, crea in Cina una vera e propria cultura popolare ed entra nella quotidianità delle persone comuni come modo per rilassarsi e svagarsi. Viene subito naturalizzato, "cinesizzato" potremmo dire; identifica il cinese indipendentemente dal sesso, dal rango sociale o dal mestiere. Come sottolinea l'autrice, i cinesi consumano il tabacco, come gli inglesi consumano il tè.

A nulla servono le leggi messi in campo dai Ming che vietano alla gente comune di comprarlo e ai mercanti di venderlo e accusano i consumatori di "complotto con i barbari". La crescita della domanda porta allo sviluppo della produzione interna che, di conseguenza, rende il tabacco economicamente più accessibile. Dilaga così l'uso delle pipe, i "fucili da fumo" (yan qiang), che assumono forme e caratteristiche diverse: c'è la pipa dal gambo lungo (han yan), quella ad acqua (shui yan), oppure quella corta (do yan).
Elitario, invece, è il tabacco da fiuto che, tenuto in speciali bottiglie, distingue nel comune consumo, i nobili e i letterati cinesi dalle classi basse. Come a dire: c'è fumo e fumo, fumare e fumare. Mentre su di esso si producono veri e propri componimenti poetici, bottiglie e servizi per il fiuto vengono collezionati come oggetti d'arte perché le loro forme eleganti e il loro design incontrano i gusti raffinati dell'elite culturale e politica. Le bottiglie, sulla cui superficie compaiono poesie e palazzi in pietre preziose, sono fatte di metallo, vetro, giada, porcellana e avorio. L'imperatore mancese Qianlong in persona si circonda di migliaia di esemplari.
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L'imperatrice Cixi, fumatrice di oppio.
Il tè si presenta come un'autentica tradizione e necessità culinaria cinese. Per la sua preparazione vengono creati utensili specifici e le teiere, come le bottiglie da fumo, diventano oggetti d'arte gelosamente custoditi. Il suo consumo è indissolubilmente legato ad una preparazione accurata, a un rituale cantato ed elogiato dai letterati e, inoltre, è indispensabile per la creazione dell'atmosfera amorosa come narra Mao Xiang (1611-1693): «Sotto la luna e di fronte ai fiori, sereni e guardandoci l'un l'altra, assaggiavamo il tè». La diffusione di case da tè, vere e proprie istituzioni, testimonia come il sorseggiarlo sia una vera e propria attività sociale durante la quale amici, uomini e donne, si riuniscono per raccontare e condividere le proprie esperienze quotidiane. La Cina è ormai pronta per ricevere la nuova fragranza dell'oppio. Ad attenderla c'è una cultura dello svago e dell'intrattenimento, anche amoroso, ben sviluppata oltre che raffinata.
In questo senso, nel XVIII secolo il consumo di oppio raggiunge un'avanguardia più vasta di consumatori. L'oppio arriva in Cina come tributo, una via ufficialmente riconosciuta, e, privatamente, grazie a viaggiatori e soggiornanti. L'occupazione di Taiwan da parte della truppe Qing è centrale per la sua diffusione nel sud-est dell'impero perché le popolazioni locali lo consumano diffusamente in fumerie per aumentare il desiderio sessuale; così scrive il funzionario Zhu Jingying: «Si dice che aiuti le prestazioni durante i rapporti sessuali e che chi ne fa uso non necessiti di molto sonno la notte».

Nella sua diffusione gli inglesi vestono un ruolo fondamentale perché ne comprendono le possibilità di lauti guadagni, di correggere in attivo gli scambi commerciali con la Cina. La Compagnia delle Indie Orientali, che ottiene il monopolio sulla produzione in India, avvia un lavoro di razionalizzazione; le industrie Sudder impiegano migliaia di lavoratori per pulirlo, asciugarlo, impastarlo e imballarlo. L'oppio prodotto, messo in vendita all'asta nei mercati di Calcutta e Bombay, viene acquistato da "commercianti nazionali" che lo trasportano in Cina via mare. Come sottolinea Huang Yuanyu (1705-1758), al servizio dell'imperatore Qianlong, «oggi tutte le navi straniere lo trasportano quando arrivano alle dogane. Nelle pianure centrali, i furfanti e i ragazzacci viziati, gli ufficiali e i loro inservienti, gli attori e i cortigiani, pensano tutti che sia un ricostituente per rinforzare il loro spirito, che li aiuti a dormire con le donne e i bei ragazzi, e che il suo effetto sia dieci volte più forte di quello ordinario».
A garantire il successo del binomio oppio-sesso sono i letterati e i burocrati che costituiscono l'élite amministrativa e culturale dell'impero (i Mandarini). Sono loro a cantare nelle proprie opere il microcosmo delle "barche sul fiume" o delle "barche fiore" che, scorrendo sulle acque di Canton, ospitano ricchi e artisti che intrattengono rapporti amorosi avvolti nella suadente atmosfera creata dal fumo dell'oppio. Queste barche dello svago e dell'intrattenimento rappresentano la realtà raffinata di una fiorente industria del sesso. Una élite colta e urbana, l'unica che può permettersi un prodotto ancora costoso, diffonde quello che l'autrice definisce il "Vangelo dell'oppio". Scrive Yu Jiao: «All'inizio lo spirito si rinfranca, subito ti si schiariscono le idee e la vista si fa più acuta. [.]. Il tuo spirito e la tua anima sono placati. È davvero il paradiso».
Nel 1799 l'ambasciatore britannico lord Macartney fallisce la sua missione presso la corte imperiale, ma non gli riesce certo difficile comprendere che i cinesi si stanno appassionando a una merce che i suoi compatrioti possono commerciare a piene mani.

Nei primi due decenni del XIX secolo il consumo di oppio si diffonde al di fuori della corte imperiale e dei confini di ceto per diffondersi geograficamente e socialmente. A Canton vive ormai un vero e proprio esercito di fumatori che frequentano bordelli e ostelli sempre ben riforniti. I candidati agli esami imperiali, che provengono da tutti gli angoli dell'impero, lo portano con sé nel loro viaggio verso Pechino per alleviare la noia, la tensione dell'attesa e per tenere sveglia la mente.
A soddisfare un mercato dalla domanda in crescita ci pensano le corporazioni commerciali cinesi (famose quelle del Guandong e del Fujian) e i compradores che organizzano il trasporto su lunghe distanze e la vendita al dettaglio nelle regioni più interne e, inoltre, le prime coltivazioni locali.
L'imperatore Jiaqing nel 1813 cerca di arrestare la diffusione della droga e stabilisce nel dettaglio le pene per chi ne fa uso. Jiaqing definisce il consumo praticato nei gradini più bassi della scala sociale come qualcosa di "disgustoso". Ma si predica bene mentre si razzola male: in occasione del suo sedicesimo compleanno regala bottiglie da fiuto ai suoi principi e ufficiali preferiti. E gli eunuchi, che affollano la corte, oltre ad essere addetti alla preparazione degli svaghi dei signori, ne fanno largamente uso.
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Le guerre dell'oppio scoppiarono
nel 1839 e nel 1856.
Negli anni '30 l'oppio si è ormai urbanizzato: a Pechino, Canton e Nanchino è il più richiesto tra le ricercatissime e costose merci straniere (yangwu) per le quali è nato un vero e proprio culto. È fumato nei locali più frequentati dalla gente ricca, colta e famosa. Il suo alto costo e l'aura letteraria e artistica che lo circonda ne fanno un segno di distinzione sociale, una certificazione di buon gusto, ricchezza e onorificenza. I custodi della moralità nell'impero, i pubblici censori, diventano, invece, guida e ispirazione nel successo del nuovo vizio. Gli ufficiali e gli amministratori provinciali, inoltre, ne diffondo l'uso nelle diverse località che toccano durante la loro carriera.
Alla vigilia della prima Guerra dell'Oppio, il consumo è ormai divenuto una moda ed una epidemia sociale. A dare un'ulteriore spinta alla presenza in Cina è la decisione della Gran Bretagna nel 1834 di porre termine al monopolio commerciale della Compagnia delle Indie; se nel 1830-31 i carichi navali ammontavano a 18.956 casse, nel 1835-36 il numero sale a 30.204.
A richiedere l'oppio non sono più solo i raffinati esponenti dell'élite culturale e politica, ma anche il popolo minuto per il quale diventa una necessità di sopravvivenza. La parte meridionale dell'impero è in gran parte dipendente dalla droga nei diversi strati sociali: i coolies, umili lavoratori impegnati in compiti più pesanti, lo usano per alleviare le fatiche della vita quotidiana. Sempre più capillare è il consumo tra le fila della burocrazia; secondo lo studioso Jian Xiang ne sono dipendenti dal 10 al 20 per cento degli ufficiali del governo centrale, dal 20 al 30 per cento degli ufficiale di governo locale e dal 50 al 60 per cento dei segretari privati. Maschio tra i venti e i cinquanta anni: è questo l'identikit del tipico fumatore d'oppio cinese. Nell'esercito in molti ne sono ormai schiavi "deboli" e "malati".

Quando l'oppio esce dalle rime delle opere letterarie per rivelare all'aperto le sue conseguenze morali e sociali, la classe dirigente comincia a considerare il suo consumo come degradante e criminale. Nella corte imperiale prende il sopravvento il "partito" proibizionista che arriva a decretare la confisca e la distruzione di partite di oppio britannico a Canton. Gli intellettuali iniziano a mettere in stretta relazione la decadenza dell'impero, la sua debolezza nei confronti degli occidentali, con l'esteso uso di droga: «L'oppio ha distrutto l'intera nazione e la nazione non può sopravvivere senza sopprimerlo». Una battaglia sacrosanta, ma ormai tardiva: la sconfitta nella prima Guerra dell'Oppio apre definitivamente le porte a un consumo ordinario e popolare anche tra le masse contadine, in quella che potremmo definire la Cina profonda (1842-1860). La coltivazione locale esplode e diventa una seria concorrente a quella straniera, anche perché i contadini vedono nell'oppio una fonte di reddito abbondante e sicura, tanto da spacciare la loro produzione come straniera per renderla più preziosa e più richiesta; l'oppio cinese arriva in Cina sotto le mentite spoglie di prodotto straniero!
Sulle coste cinesi diventa un panorama tipico quello caratterizzato dal costante via vai, nei cinque porti liberi di Canton, Amoy, Fuzhou, Ningbo e Shanghai, di navi e vascelli zeppi di oppio. Sotto i benevoli e interessati occhi della Gran Bretagna il contrabbando aumenta in modo esponenziale, tanto da registrare nel 1847 un profitto di 42 milioni di dollari. La colonia britannica di Hong Kong è, come diremmo oggi, un regno dell'oppio.
Gli ufficiali cinesi, mentre pubblicamente condannano il consumo, dietro le quinte lo fumano e accumulano fortune sul suo traffico interno. Shanghai, ormai sotto controllo straniero, diventa la capitale del sesso e della droga. Le sue fumerie (Yan guan), che nascono come funghi, sono luoghi pubblici in cui, mentre si gioca, si scommette e si discute, la droga viene scelta, lavorata e accuratamente preparata di fronte al cliente. In questo universo del vizio le donne recitano un ruolo spesso di primo piano e riescono a ritagliarsi un ruolo importante nel mercato del lavoro. Mentre le più ricche fumano l'oppio come svago, nelle fumerie più "in" le cortigiane e le prostitute, meglio se colte, sono un ingrediente indispensabile per la creazione dell'atmosfera sensuale che ricercano i clienti più importanti. Alle loro mani è affidata l'arte della preparazione dell'oppio. Accanto a queste, ci sono anche giovani vendute dai genitori stessi in cerca di guadagno per acquistare droga.

Si diffonde un'imponente produzione letteraria incentrata sull'oppio, anche nelle più
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La fumeria d'oppio vista
attraverso un fumetto.
accessibili lingue dialettali. Molti letterati, sul finire del secolo, trovano in esso una creativa fonte di ispirazione, come dimostra un componimento dal titolo Lode alla pipa d'oppio. Anche quando scrivono per vituperarlo, per sottolineare come stia mandando alla rovina una intera società, non fanno altro che diffonderne l'uso e la conoscenza. Nelle loro opere viene dettagliatamente spiegato come si prepara, come si fuma e in quali circostanze deve essere consumato.
All'inizio del XX secolo l'oppio è completamente assimilato dalla società cinese. Quello prodotto localmente, dal prezzo più accessibile, è abitualmente consumato a livello popolare: portatori, uomini di fatica e lavoratori stagionali ne ricavano la forza fisica e psicologica per fare fronte ad una quotidianità di pesanti fatiche.
L'oppio è cosi diffuso da essere richiesto spesso come mezzo di pagamento negli scambi e nelle transazioni commerciali. I trattati del 1858 e del 1860, che sancivano la sconfitta cinese nella seconda Guerra dell'Oppio, ne avevano legalizzato l'importazione nei porti liberi. Ora governo centrale e governi provinciali, grazie ai dazi interni, si procurano i fondi necessari per sostenere il processo di modernizzazione avviato dai Qing. Il narcotraffico permette la costituzione di reparti militari moderni e la costruzione delle prime moderne navi da guerra.
Mentre i divieti emanati dalla corte (1906) cadono nel nulla - la stessa imperatrice Cixi fuma regolarmente per passatempo - il consumo di oppio si impone come una convezione sociale, una norma socio-culturale alla quale ci si conforma. È, in una espressione cinese, ti mian: ben educato e alla moda. Ogni sforzo economico è giustificato pur di procurarselo in occasione di ritrovi con amici, visite e appuntamenti d'affari. Racconta un visitatore straniero: «non si può assolutamente andare a una cena cinese senza avere una pipa d'oppio».

A livello internazionale è ormai il "frutto" del papavero a rappresentare la Cina, come dimostrano le cartoline, le copertine delle riviste, la narrativa e i film: i servizi per fumare l'oppio sono onnipresenti. Negli Stati Uniti si indica negli immigrati cinesi la causa della diffusione del vizio e della depravazione. La Cina stessa sembra alimentare questa rappresentazione di sé quando, in occasione dell'Esposizione di Saint Louis nel 1904, mette in mostra nella propria galleria pipe d'oppio e lampade per il fumo come prodotti della propria civiltà.
La caduta dell'Impero e la nascita della Repubblica nazionalista (1912) inaugurano il periodo dei "regni dell'oppio". La trasformazione politica e istituzionale non intacca la forza del vizio nazionale: mete turistiche e parchi pubblici sono attrezzati con tutti i servizi necessari per fumare oppio. La nuova élite borghese urbana formata da professionisti e pilastro sociale della repubblica, guida la pratica del consumo: a Shanghai la droga arriva a tonnellate, «abbastanza per rifornire qualsiasi nazione, una mezza dozzina di nazioni, un continente» come racconta il giornalista statunitense Percy Finch.
Mentre a Pechino il governo è debole e sotto ricatto di cricche legate a interessi stranieri, nelle province il bello e cattivo tempo lo fanno i governatori militari, i "signori della guerra", che sostengono la coltivazione d'oppio per tassarlo e ottenere ricavi.

Inutile e controproducente si rivela il piano, elaborato dal governo nel 1935, che prevede la registrazione dei fumatori, una licenza per il consumo e la concessione di un periodo per smettere di fumare; una "pasta ufficiale" sarebbe stata consegnata a domicilio. Ma ormai stanno prendendo piede anche i derivati dell'oppio come la morfina. Questa, che viene venduta in pillole dai farmacisti come cura per l'abitudine all'oppio, non fa che creare nuove e pericolose dipendenze.
Quando nel 1937 i giapponesi invadono la Cina utilizzano la droga come arma per soggiogare e indebolire la popolazione: riaprono le fumerie d'oppio chiuse dal proibizionismo, fanno uscire i tossicodipendenti dagli istituti di riabilitazione e utilizzano le droghe come mezzo di pagamento per il lavoro e la prostituzione.
E i comunisti? L'autrice, nella sua analisi, non nasconde, grazie anche a documenti e testimonianze, che anche nelle "basi rosse" si continua a coltivare papaveri e produrre oppio per scambiarlo e procurarsi armi e mezzi di sostentamento. Ma, al contempo, sottolinea come Mao comprende che la guerra contro gli imperialisti per la liberazione nazionale doveva essere anche una guerra contro l'oppio. Una guerra che fino al 1975, prima dell'epoca delle grandi riforme economiche post-maoiste, sembrava vinta.
BIBLIOGRAFIA
  • Storia sociale dell'oppio, di Zheng Yangwen - Utet, Torino 2007, pp. 261, euro 22,00