"Tenere alto, sempre e dovunque, il nome della Patria italiana", "stimolare il senso di italianità in tutte le masse emigrate e rafforzare i loro legami con la madre patria". Mussolini si propose di fare degli italiani all'estero i portabandiera della nuova Italia. Ma una volta raggiunto il potere, il fascismo ebbe verso l'emigrazione - soprattutto negli Stati Uniti - atteggiamenti molto diversi
Il fascismo e l'emigrazione
negli Stati Uniti
(Prima Parte)
di MICHELE STRAZZA
1 Fascismo ed emigrazione negli States
Il fascismo ebbe sempre verso l'emigrazione una grande attenzione, supportata dalla convinzione che gli italiani all'estero andassero valorizzati quale punta di diamante dell'espansione degli interessi italiani fuori della patria.
Già prima di prendere il potere, il Partito Fascista aveva preso posizione sul problema dell'emigrazione nel Consiglio Nazionale, tenuto a Napoli proprio alla vigilia della marcia su Roma, il 26 ottobre 1922. Durante tale assise era stata denunciata la politica di "snazionalizzazione" degli italiani all'estero e le istituzioni italiane erano state accusate di una colpevole accettazione delle sopraffazioni degli emigrati, se non addirittura di aver "sabotato" la "spontanea opera di resistenza degli emigrati": solo lo "Stato Fascista" avrebbe fatto rispettare il nome di Italia e gli italiani ovunque si trovassero (Il Popolo d'Italia" del 27 ottobre 1922).
Non essendo ancora al governo, il fascismo italiano, per la sua politica tra gli emigranti, aveva, inizialmente, puntato soltanto sulla costituzione dei Fasci all'estero, pur nella consapevolezza della limitatezza e della insufficienza di una tale scelta (Claudia Baldoli, I Fasci italiani all'estero e l'educazione degli italiani in Gran Bretagna, in: Studi Emigrazione, anno XXXVI, Giugno 1999, n.134).
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Il 2 maggio 1921, in occasione della nascita del Fascio di New York, Mussolini aveva dichiarato che la costituzione dei fasci all'estero serviva a "suscitare, conservare, esaltare l'italianità fra i milioni di connazionali dispersi per il mondo", per "condurli a vivere sempre più intimamente la vita della metropoli", allacciando ed intensificando "i rapporti d'ogni genere fra colonie e madre patria". I fasci all'estero sarebbero dovuti essere veri e propri "consolati fascisti" per la "protezione legale ed extralegale" di tutti gli italiani, specialmente di coloro che erano "salariati da impresari stranieri", con l'obiettivo esaltante di "tenere alto, sempre e dovunque, il nome della Patria italiana" ( Il Popolo d'Italia" del 2 maggio 1921).
E nel novembre del 1922, appena divenuto Presidente del Consiglio, sempre Mussolini tracciava le direttrici della politica del partito fascista verso gli emigrati italiani la quale prevedeva "nell'immediato, una massiccia campagna, volta a stimolare il senso di italianità in tutte le masse emigrate ed a rafforzare i loro legami con la madre patria". In un secondo tempo si sarebbe, poi, passati ad una progressiva opera di sensibilizzazione delle nuove generazioni e si sarebbe compiuto uno "sforzo particolare presso alcune minoranze più ricettive di giovani emigrati ai fini di una penetrazione culturale e spirituale dell'ideologia nei paesi ospitanti" (Emilio Gentile, La politica estera del partito fascista. Ideologia e organizzazione dei Fasci italiani all'estero (1920-1930), in: Storia Contemporanea, anno XXVI, n.6, dicembre 1995).
Il fascismo, in realtà, una volta raggiunto il potere, ebbe verso l'emigrazione due atteggiamenti diversi in due diversi periodi cronologici.
Fino al 1926 il comportamento di Mussolini è simile a quello dei passati governi con l'unica variazione della diminuzione del flusso, a seguito dei provvedimenti restrittivi statunitensi.
Inizialmente, dunque, Mussolini ha fiducia che la pressione demografica, e quindi anche la disoccupazione, possano essere alleviati proprio con il ricorso alla vecchia valvola di sfogo dell'emigrazione. Secondo il Duce " bene o male che sia l'emigrazione è una necessità fisiologica del popolo italiano. Siamo quaranta milioni serrati in questa nostra angusta e adorabile penisola che non può nutrire tutti quanti. E allora si comprende come il problema della espansione italiana nel mondo sia un problema di vita e di morte per la razza italiana. Dico espansione: espansione in ogni senso, morale, politico, economico, demografico."( Benito Mussolini, Opera Omnia, rist. Editrice La Fenice, Firenze 1972).
L'unica vera novità sta nel tentativo del governo Mussolini di qualificare sempre di più gli emigranti, rafforzandone la qualità tecnica e professionale, onde metterli in condizione di aspirare a lavori migliori, ma soprattutto "per cancellare dall'opinione pubblica internazionale i pregiudizi e le preclusioni nei confronti del lavoratore italiano"( Giuseppe Parlato, La politica sociale e sindacale, in: AA.VV., "Annali dell'Economia Italiana", Vol.VII,1923-29, Edizioni Istituto Ipsoa, Milano 1982).
Di qui l'opera svolta dalle cattedre ambulanti di emigrazione per preparare professionalmente gli aspiranti emigranti, nonché quella del Commissariato Generale dell'Emigrazione con i suoi delegati provinciali.
La "valorizzazione" degli emigranti, dunque, era la formula che il fascismo intendeva adottare per favorire gli espatri. Ed in questa direzione Mussolini appoggiò proprio le iniziative del Commissario Generale all'Emigrazione, Giuseppe De Michelis secondo cui occorreva che i nostri connazionali fossero ben accetti nei nuovi Paesi, producendo in questi il maggior vantaggio "per se stessi e per la collettività nazionale".

Uno dei primi problemi che il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri, si trova, dunque, ad affrontare, con scarso successo, è la crisi degli espatri negli Stati Uniti causata dall'Immigration Act del 1921.
Verso questa emigrazione gli Stati Uniti avevano proceduto, negli ultimi anni, ad un forte ridimensionamento della propria politica immigratoria sull'onda di forti e crescenti spinte xenofobe nonché dalle preoccupazioni dell'opinione pubblica per l'abbassamento del tenore di vita e dei salari, causato proprio dalla concorrenza della manodopera straniera. Lo stesso indiscriminato aumento demografico nelle metropoli ed il contemporaneo espandersi di una criminalità spesso straniera concorreva ad amplificare la paura per i nuovi arrivati.
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Benito Mussolini
Già nel 1917, infatti, era stata sancita la non ammissione degli analfabeti. Nonostante il veto del Presidente Wilson, infatti, venne emanato un decreto, il "Literacy Test Bill", che imponeva a chiunque volesse essere ammesso negli States di dimostrare almeno di saper leggere e scrivere.
Ma è nel 1921 che gli Stati Uniti "danno un colpo all'accelleratore" approvando, con un "Quota Act", l'ingresso sul proprio territorio solo di una quota pari al 3% dei connazionali residenti in America al censimento del 1910 (Michele Strazza, Le restrizioni Usa degli anni '20 e l'emigrazione lucana, in "Mondo Basilicata" n. 4/2004).
Il Governo americano era piuttosto preoccupato: il saldo netto degli arrivi, alla fine del 1920, aveva, infatti, toccato una media di 52.000 immigrati al mese e, nel febbraio del 1921, la confusione nel porto di New York era stata così grande da indurre le autorità a dirottare su Boston le navi cariche di emigranti.
La legge del 1921 provocò, dunque, una vera e propria situazione di emergenza. Poiché, infatti, nessuno Stato poteva usare in un mese più di 1/5 della propria quota annuale, le varie compagnie di navigazione si affrettarono a sbarcare i propri passeggeri all'inizio di giugno. E possiamo immaginare la ressa che si produsse! Soltanto nei primi giorni del mese ben 12 navi attraccarono ai porti di New York e Boston, superando la quota italiana per quel mese. Si decise così di trattenere a bordo l'eccesso degli emigranti, creando situazioni pericolosissime: a Boston più di 1.000 italiani si trovarono stretti nella stiva di una sola nave. A questo punto il Ministero del Lavoro americano permise lo sbarco degli sventurati, avvalendosi di una scappatoia della legge che gli permetteva, in circostanze simili, di distribuire gli emigranti in eccesso su future quote mensili. Ma scene simili erano destinate a ripetersi. Tuttavia, poco a poco, l'attuazione della legge divenne più severa: si concessero minori esenzioni ed interi carichi di emigranti furono rimandati oltre Atlantico (John Higham, Le porte si chiudono, in: AA.VV., "La 'questione' dell'immigrazione negli Stati Uniti", Il Mulino Editrice, Bologna 1980).
La scelta di basarsi sul censimento del 1910 venne motivata dal pretesto che i dati di quello del 1920 non erano ancora definitivi. In realtà la decisione mascherava ben altri scopi come quello di stabilire i contingenti in data precedente rispetto ai grandi flussi immigratori provenienti dall'Europa Orientale e Meridionale. Fortissime furono le reazioni che scoppiarono nei Paesi più direttamente colpiti dal provvedimento. Anche l'Italia non mancò di far sentire, ma inutilmente, la propria voce. Il Governo italiano, infatti, a mezzo della propria ambasciata a Washington protestò vivamente, sostenendo che la decisione di adottare il censimento del 1910 veniva ad alterare arbitrariamente una realtà etnica di fatto, per rifarsi a dati vecchi di dieci anni, che non trovavano più alcuna rispondenza con la situazione attuale. E tale decisione veniva interpretata, da alcuni degli stessi ambienti del Congresso, come intesa a fare della legge un sistema selettivo per favorire alcune nazionalità a scapito di immigranti provenienti da Paesi meno graditi. Fra questi, appunto, l'Italia, nei cui riguardi, peraltro, il provvedimento veniva a contrastare con lo spirito e la lettera del Trattato di Commercio del 1871 che prevedeva il trattamento di nazione più favorita (Maria Rosaria Porfido, Emigrazione nel Fascismo, in "Il Portale delle Donne su Internet").
Subito ci si rese conto che l'emigrazione non aveva più gli sbocchi di prima, mentre a nulla servivano i tentativi di aggirare i divieti.
Continuamente il Commissariato Generale per l'Emigrazione inviava alle autorità locali numerose circolari nelle quali si invitava a vigilare su tali tentativi.
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Così, ad esempio, anche nelle regioni del sud giungeva la circolare n.1 del 13 gennaio 1923 nella quale si segnalava che molti connazionali, "mal consigliati da disonesti speculatori e nella lusinga di arrivare ad eludere le disposizioni della legge restrittiva americana", chiedevano il passaporto per Cuba e per il Messico, dirigendosi in tali Paesi specialmente dai porti francesi, con l'intenzione di passare, in seguito, negli Stati Uniti (Circolare n.1 del 13.01.1923 del Commissariato Generale dell'Emigrazione alla Sottoprefettura di Melfi, in ASP, Fondo Pubblica Sicurezza, Ufficio P.S. di Melfi, B.22.)
È bene che si sappia - concludeva amaramente la circolare - che tentativi di questo genere ad altro non giovano che a creare serie delusioni ed imbarazzi ai nostri emigranti, perché non è assolutamente possibile, mediante espedienti di questo genere, entrare nel territorio della Confederazione. Esisteva, infatti, "una perfetta organizzazione di detectives federali", organizzata a Cuba proprio per sorvegliare ogni movimento di emigranti.
Ed anche successivamente, con la circolare n.33 del 12 aprile 1923, sempre il Commissariato per l'Emigrazione stigmatizzava l'altro espediente, "artificiosamente incoraggiato dai favoreggiatori di emigrazione clandestina", di espatriare come appartenenti a categorie fuori quota oppure come "passeggeri di classe, fuori turno di prenotazione"(Circolare n.33 del 12.04.1923 del Commissariato Generale dell'Emigrazione alla Sottoprefettura di Melfi, in ASP, Fondo Pubblica Sicurezza, Ufficio P.S. di Melfi, B.22).

Nel 1924 un nuovo Quota Act, la "Johnson-Reed Law", riduce la quota di ingresso al 2% dei connazionali residenti negli Stati Uniti al censimento del 1890, comportando una fortissima penalizzazione per i Paesi, come l'Italia, di giovane emigrazione. In definitiva la quota annuale per l'Italia veniva ridotta a 3.845 unità.
Secondo quanto riferisce Higham inutilmente, all'ultimo minuto, esponenti degli immigrati domandarono una udienza alla Casa Bianca nella quale richiedere il veto presidenziale: il Presidente Coolidge rifiutò di riceverli e firmò la legge il 26 maggio 1924. Per gli emigranti europei, inoltre, la legge istituiva anche alcuni provvedimenti di ispezione da effettuarsi oltremare, richiedendo persino uno speciale "visto d'immigrazione" che doveva essere rilasciato da un console americano all'estero. Infine ingressi fuori quota erano previsti soltanto per le mogli ed i figli minorenni di cittadini americani, non per le mogli ed i figli degli stranieri non naturalizzati.
I contraccolpi furono notevoli anche sul piano economico, con la drastica riduzione delle rimesse degli emigranti che contribuiva a peggiorare sensibilmente la bilancia dei pagamenti della quale avevano sempre rappresentato una voce importante.
L'emigrazione italiana è costretta a dirigersi verso altri Paesi: la Francia e le altre nazioni europee, la Repubblica Argentina, il Brasile e gli altri Stati dell'America Latina, l'Australia e l'Africa. Ma anche in tali Paesi la situazione non è florida. Così, per quanto riguarda l'Argentina ed il Brasile, le difficoltà della situazione economica scoraggia molti espatri.
Con il "cambiamento di rotta" del fascismo, di cui parleremo in seguito, e la crisi mondiale l'emigrazione subisce una ulteriore forte caduta.
Nel 1929 era, inoltre, intervenuto l'ennesimo provvedimento legislativo restrittivo americano che aveva ridotto a 153.000 il tetto massimo di immigrazione annua complessiva (5.802 per l'Italia), adottando come base il censimento del 1920.
Nei primi mesi di governo Mussolini continuò a premere sul Dipartimento di Stato americano, sottolineando l'importanza di una collaborazione in campo migratorio, tentando, altresì, di ottenere una dispensa speciale dal governo statunitense per aumentare il numero dei permessi di ingresso annui. Egli convocò l'11 novembre 1922 i rappresentanti della stampa americana a Roma ai quali rilasciò prolisse dichiarazioni sugli effetti, tutti positivi, che sarebbero potuti nascere da una proficua collaborazione tra capitale americano e lavoro italiano.
Il Presidente del Consiglio, poi, pur dichiarandosi esso stesso assertore di una emigrazione selettiva, finiva col suggerire l'aumento della quota italiana dalle spettanti 42.000 unità alle 100.000 annue: "Se ci si desse la possibilità di mandare in America un centomila dei nostri sobri ed operosi emigranti, io credo che ne trarrebbe vantaggio tanto gli Stati Uniti quanto l'Italia" (Aurelio Lepre, Mussolini, l'italiano, Mondadori Editore, Milano 1995).
Ma da parte americana non venne alcuna risposta. Mussolini riprese l'iniziativa, convocando, a Roma per il maggio del 1924, una Conferenza Internazionale sull'Emigrazione tra tutti i Paesi direttamente interessati alla quale parteciparono ben 59 Stati (Philip V. Cannistraro e Gianfausto Rosoli, Emigrazione chiesa e fascismo. Lo scioglimento dell'Opera Bonomelli 1922-1928, Edizioni Studium, Roma 1979).
Nel discorso inaugurale dell'assise, pronunciato in Campidoglio il 15 maggio, il Capo del Governo italiano sottolineò la funzione pregiudiziale che spettava ai governi nel definire la
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Calvin Coolidge, presidente Usa dal 1923 al 1929
condizione giuridica dell'emigrante, "in maniera che i legittimi interessi dei diversi Paesi di emigrazione ed immigrazione fossero conciliati in una larga intesa e in un quadro concertato e dalle linee non contraddittorie". Mussolini cercò anche di lanciare un messaggio al Congresso americano dove erano stati presentati, dai senatori Reed e Johnson, due progetti di legge con misure più severe di quelle adottate nel 1921. Sostenne, infatti, che "i Paesi di emigrazione non dovevano interferire nei problemi dei Paesi ospitanti così come i Paesi di immigrazione non dovevano estendere il loro intervento al di là del loro territorio" (Maria Rosaria Porfido) .
E, il 24 maggio, in una intervista rilasciata al redattore capo del "Chicago Daily News", precisava: "Noi non vogliamo mandare negli Stati Uniti la nostra gente ammalata, pazza o pericolosa. Noi pensiamo agli italiani sani quando discutiamo di immigrazione col vostro paese" (Aurelio Lepre, op. cit.).
Ma tutto era destinato ad essere vano perché il 26 maggio del 1924 il Presidente americano firmava la nuova normativa restrittiva dell'emigrazione di cui abbiamo già parlato.
Essa venne considerata dal Duce un "vero e proprio insulto nei confronti dell'Italia", soprattutto perché conteneva, come base per la valutazione delle quote, il censimento del 1890. Si privilegiavano, in tal modo, i popoli della prima immigrazione, di netta derivazione nordeuropea, discriminando ampiamente tutti gli altri compresi gli italiani.
In un discorso tenuto alla Camera, il 15 novembre 1924, Mussolini fu ancora più duro: "Siamo oggi stati colpiti rudemente dall'Immigration Bill. Non basta dire da parte dei popoli che sono arrivati: "stiamo tranquilli", perché se noi non sappiamo dove mandare il nostro dippiù di umanità, se non sappiamo dove trovare le materie prime che ci devono far vivere all'interno, questa è una pace di aguzzini"( Benito Mussolini, Opera Omnia, rist. Editrice La Fenice, Firenze 1972).

Ma la politica dell'emigrazione del Fascismo stava ormai mutando rotta. Una anticipazione del mutamento di comportamento governativo italiano si ha, in campo normativo, già nel 1925, con la prima raccolta organica del diritto italiano sull'emigrazione.
Il 17 aprile, infatti, viene convertito nella Legge n.473 il Testo Unico sull'Emigrazione e la Tutela Giuridica degli Emigranti.
L'articolo 9 del T.U., pur ribadendo che l'emigrazione era libera nei limiti stabiliti dal diritto vigente, disponeva che il Ministero degli Affari Esteri, d'accordo con il Ministro dell'Interno, potesse sospendere l'espatrio "per motivi di ordine pubblico", o quando potessero "correre pericolo la vita, la libertà, gli averi degli emigranti, o quando lo richiedesse la tutela degli emigranti".
Le cose cambiano, dunque, dopo il 1926 quando il Regime sposa la causa dell'incremento demografico. Secondo Mussolini l'emigrazione rappresentava soltanto una perdita di energie utili alla nazione, "una dispersione"che andava combattuta fino in fondo, puntando, invece, sull'incremento delle nascite per raggiungere, agli inizi degli anni '50, il tetto dei 60 milioni di italiani.
Vengono così presi gli opportuni provvedimenti. Il 3 giugno 1927, con la circolare n.63, i Prefetti italiani vengono incaricati di comunicare a chi intendeva emigrare quale era la nuova politica del Regime a riguardo (Sul contenuto della circolare si veda Philip V. Cannistraro e Gianfausto Rosoli, op. cit.).
L'emigrazione permanente, secondo il Governo, andava ostacolata poiché portava all'indebolimento della nazione. Lo stesso esodo delle forze migliori e più produttive comportava una grossa perdita per lo Stato che li aveva preparati, non compensato dal "poco oro" proveniente dall'estero.
Nel contempo si rendeva più difficile il rilascio dei documenti necessari per l'espatrio su cui i Prefetti dovevano esercitare la massima "severità e parsimonia", diffidando chiunque avesse tentato di "sfruttare o incitare"all'espatrio e colpendo chi avesse preso troppo vivo interesse "lecito o illecito"all'emigrazione: le uniche deroghe ammesse erano l'emigrazione temporanea e quella ad alto livello intellettuale o professionale perché ambedue non erano motivate da carenza d'occupazione e rappresentavano un aumento di prestigio per l'Italia.
Inoltre, sempre nel 1927, con il R.D.L. n.62 del 28 aprile, era stato soppresso il Commissariato Generale dell'Emigrazione, già dall'anno precedente posto alle dirette dipendenze del Ministero degli Esteri (D.M. del 01.03.1926), e sostituito con la Direzione Generale degli Italiani all'Estero.
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La statua della Libertà a Liberty Island.
Si noti il cambiamento di parole: non più "emigrazione" ma "italiani all'estero". Ancora una volta il fascismo cercava con un mutamento linguistico di indicare un cambio di rotta: l'emigrante sarebbe stato finalmente riconosciuto nella sua personalità e nei suoi diritti di lavoratore.
Ma la sostituzione del Commissariato rispondeva, in realtà, alla preoccupazione, ben più sentita, di organizzare fascisticamente le comunità all'estero, già insediate, più che di regolare la destinazione dei flussi di partenza, ormai rallentati.

In definitiva i principi base della nuova politica migratoria italiana, messa a punto proprio nel 1927, possono essere così riassunti:
a) proibizione dell'emigrazione stabile;
b) tolleranza della sola emigrazione temporanea perché vantaggiosa per l'economia nazionale e del privato cittadino;
c) espansione economica, commerciale e culturale dell'Italia all'estero attraverso l'emigrazione qualificata di professionisti, tecnici e studenti;
d) recupero spirituale delle comunità italiane fuori della patria.
I nuovi limiti all'emigrazione erano ulteriormente precisati in 3 circolari che, il 20 giugno sempre del 1927, Mussolini indirizzava agli ispettori nei porti d'imbarco per il controllo di "assicurato imbarco", ai Prefetti per il rilascio dei passaporti, infine alle autorità diplomatiche (Bollettino della Emigrazione n.7 del luglio 1927).
Tutta la legislazione successiva, dalla Legge n.1783 del 6 gennaio 1928 al regio decreto n.358 dell'11 febbraio 1929, dal regio decreto n.1278 del 24 luglio 1930 a quello n.1157 del 12 luglio 1940, deve essere letta come il tentativo di ostacolare in tutti i modi l'esodo all'estero per ragioni di lavoro e di privilegiare, invece, il trasferimento nei possedimenti coloniali italiani, onde intensificare la produzione interna in vista di una maggiore domanda lavorativa per fini bellici.
La Legge n.965 del 15 maggio 1939 aveva, intanto, istituito la "Commissione Permanente per il Rimpatrio degli italiani all'estero", con il relativo "Comitato Permanente Consultivo" presieduto dal Direttore Generale degli italiani all'estero, proprio per agevolare con vari benefici il rientro degli emigranti.
E difatti, nel quadriennio 1921-24, su un totale di 196.242 italiani espatriati negli Stati Uniti, ben 177.107 ritornarono in patria. Ed il trend fu sempre crescente, passando da 122.678 unità nel biennio 1925- 27 a 166.988 in quello 1928-40.
I rimpatri, dunque, insieme alla politica di contrazione degli espatri continuarono ad aggravare il processo di diminuzione delle rimesse degli emigranti in Patria ed il flusso di valuta estera nelle casse italiane.
A migliorare questa situazione non servirà neanche la Legge n.764 del 15 maggio 1939, contenente "provvedimenti per il trasferimento nel regno delle somme in divisa libera da parte degli emigrati e dei rimpatriati".
A seguito di tale normativa l'Istituto Nazionale per i Cambi con l'Estero viene autorizzato a concedere un premio sulle dette somme in divisa, consistente in uno speciale cambio di favore ("Lira emigranti") con un beneficio di circa il 25% rispetto al cambio ufficiale.
Il provvedimento tende a valorizzare, "in più alta misura", il risparmio italiano all'estero ed indirettamente ad arginare, il più possibile, i sistemi di rimesse in contrasto con le norme valutarie vigenti, "purtroppo largamente diffusi per l'opera di adescamento del mercato nero dei singoli Paesi", come le illecite compensazioni, l'utilizzo irregolare nel Regno di disponibilità dell'estero, l'invio di biglietti di banca italiani "effettuato a vario titolo in favore delle proprie famiglie da nostri connazionali all'estero" (Circolare del Ministero dell'Interno ai Prefetti del Regno del 30.11.1939, in ASP, Fondo Prefettura Gabinetto, II Vers., I elenco, B.65).


2 La Casa di Cultura italiana
Non si può negare che il Fascismo si prodigò molto per ricucire i rapporti degli emigrati italiani con la madrepatria, all'insegna dei valori della italianità e dell'orgoglio nazionale.
L'emigrazione italiana aveva arricchito i Paesi d'oltreoceano contribuendo alla loro crescita ed alla loro prosperità. Occorreva ora rivalutare la funzione di questi emigranti, dimostrando a tutto il mondo che l'italiano aveva successo ovunque andasse, continuando a restare attaccato ai valori ed al ricordo della madrepatria.
Era il cosiddetto mito dei "primati": gli italiani, emigrati all'estero, primeggiavano nelle nuove nazioni in tutti i campi. Era necessario, però, che l'Italia non dimenticasse i suoi figli ma che li valorizzasse, ne mantenesse i contatti, segnando un distacco dal comportamento dei precedenti governi.
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Herbert Hoover, presidente Usa dal 1929 al 1932
Bisognava, cioè, che quasi dieci milioni di italiani all'estero, non perdessero il proprio senso di appartenenza italico, continuando a sentirsi in continuazione "spirituale ed ideale" con la patria lontana.
Ma gli italiani all'estero per il Fascismo rappresentavano anche vere e proprie "colonie" le cui capacità ed i cui successi andavano utilizzati per la grandezza dell'Italia. Essi avrebbero dovuto costituire una vera e propria forza politica che Roma avrebbe manovrato per gli interessi della patria.
Furono proprio gli imprenditori e i banchieri di origine italiana a mettere a disposizione la propria forza economica per la nascita ed il sostegno di iniziative, che furono anche di appoggio al fascismo italiano, specialmente all'interno della potentissima comunità italiana di New York forte di circa 800.000 connazionali o, secondo altre stime, di quasi un milione di italiani, un sesto della popolazione totale della metropoli.
Secondo alcuni dati in possesso de "La Basilicata nel mondo", la rivista lucana indirizzata ai connazionali in America, New York alla metà degli anni Venti aveva una popolazione di 5.924.000 abitanti, suddivisi nei cinque "Boroughs" colossali che formavano la "greater City": Bronx, Manhattan, Queens, Richmond, Brooklyn (Michele Strazza, Emigrazione e fascismo in Basilicata. Gli emigrati lucani negli Stati Uniti e l'appoggio al fascismo, Tarsia Editore, Melfi 2004)..
Tra questa popolazione vivevano 392.180 italiani, ai quali bisognava aggiungere la considerevole cifra dei connazionali naturalizzati o mescolatisi, nel corso degli anni, con altre razze, ammontante a 603.048. In totale si trattava di quasi un milione di italiani e di origine italiana che viveva ed operava nella metropoli americana, quasi la sesta parte della popolazione totale di New York, apportando col proprio lavoro un notevole contributo al benessere americano.
Sempre secondo tali dati si contavano nella città americana ben 2.200 "eleganti e spaziosi" negozi di barbieri italiani, 1.800 negozi di generi alimentari ed 850 negozi di frutta gestiti da connazionali. Vi erano, poi, gli oltre 500 ristoranti italiani, da quelli di lusso a quelli economici, gli "Spaghetti House", che andavano sempre più diffondendosi, le 400 sartorie italiane, non poche delle quali di primissimo ordine, senza contare le case di moda per Signore e Signorine. Venivano, poi, i lavoratori il cui unico reddito era costituito dal salario, così ripartiti: 150.000 tra braccianti, terrazzieri, giornalieri ed affini; 85.000 tra lavoranti sarti, garzoni di barbieri, camerieri ed affini; 60.203 tra addetti al commercio, ai mercati, ai trasporti; 45.719 addetti alle industrie manifatturiere più diverse; 45.000 muratori e manovali; 25.000 meccanici, fabbri e falegnami; 7.760 impiegati privati. Gli stipendi più magri erano quelli percepiti da questi ultimi, i più alti, invece, quelli dei muratori che, ultimamente, avevano iniziato a percepire paghe perfino di 18 dollari al giorno, pari a circa 500 lire italiane.
Gli italiani di New York erano divenuti anche considerevoli proprietari, e le statistiche cittadine attribuivano alle loro proprietà un valore fondiario di 200 milioni di dollari.
La presenza italiana poteva essere facilmente rappresentata dall'immagine di una piramide. Al suo vertice vi erano scienziati, professionisti, artisti, scrittori, educatori, sacerdoti, imprenditori, banchieri, commercianti ed agricoltori, al centro vi era "il lavoro della gran massa", barbieri, sarti, negozianti e ristoratori, mentre la base era costituita da quei lavoratori il cui unico reddito era la "giobbe", cioè il salario: braccianti, lavoratori dipendenti, operai, muratori, manovali, fabbri, falegnami, impiegati privati (Nino Calice, Le amate sponde, frammenti di una identità regionale, Calice Editori, Rionero 1992).

Ma quali furono in concreto le iniziative, appoggiate dal mondo imprenditoriale e bancario italo-americano, verso le quali il fascismo nutrì, per i propri fini, profonda simpatia? Innanzitutto la Casa di Cultura Italiana, inaugurata il 27 ottobre 1927 alla presenza del senatore Guglielmo Marconi, in rappresentanza del governo italiano, e dei maggiori rappresentanti del notabilato italiano a New York, sulla cui facciata principale erano scolpite, nella pietra massiccia, le famose parole di Byron "Italia, madre delle arti, la tua mano è stata la nostra protettrice ed è ancora la nostra guida". Alla cerimonia erano presenti anche i costruttori lucani Antonio Campagna, i fratelli Giuseppe e Michele Paterno oltre al dott. Michele Paterno.
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Giuseppe Prezzolini fu direttore della Casa di Cultura italiana a New York
Era stato proprio l'avvocato Antonio Campagna a dare il colpo di acceleratore per la creazione dell'importante istituzione culturale con la sua venuta in Italia agli inizi del 1927, insieme al cognato Giuseppe Paterno ed al capitano Orsenigo dell'ambasciata italiana a New York.
Nella delegazione, formata per concordare col governo Mussolini il programma dell'inaugurazione della Casa, vi erano anche due noti esponenti del mondo accademico statunitense: Butler, rettore della Columbia University, e Bigongiari, professore dello stesso ateneo.
Ed erano stati proprio gli studenti ed i professori italiani di questa Università (la prima fondata negli Usa e la prima ad introdurre lo studio della lingua italiana fin dal 1825) a sollecitare l'apertura della Casa, per tenere vivi i rapporti culturali e spirituali con l'Italia, ma l'iniziativa era stata subito patrocinata da ambienti finanziari ed economici vicini alla comunità italiana.
Erano, inoltre, presenti in tale progetto, come si vedrà meglio in seguito, precisi intenti propagandistici a favore del Regime italiano. A presiedere, infatti, il comitato promotore, formato nel novembre del 1924, era stato chiamato il giudice John Freschi il quale, oltre ad essere un notabile della comunità italo-americana, era Grande Venerabile della Gran Loggia dello Stato di New York e dell'Order Sons of Italy in America (OSIA), organizzazione di stampo massonico con simpatie verso il fascismo, oltre a John Gerig, uno dei docenti universitari della Columbia più vicini al fascismo di cui ci occuperemo in seguito.
La delegazione italo-americana era rimasta una settimana a Roma ed era stata ricevuta personalmente da Mussolini, fortemente interessato all'iniziativa.
Successivamente, di passaggio per Napoli, Campagna aveva rilasciato una interessante intervista a "Il Mattino" nella quale aveva indicato le finalità e gli scopi della Casa Italiana di Cultura.
L'importante istituzione era definita "fucina grandiosa di studi e di scambi intellettuali e spirituali fra l'Italia e gli Stati Uniti, che porterà senza dubbio con sé rispetto reciproco e relazioni intime e cordiali, senza voler accennare ai migliori rapporti economici che potranno eventualmente domani sorgere per effetto di questa nuova situazione spirituale che verrà a crearsi fra i due grandi popoli".
Essa rappresentava un ponte ideale verso la madrepatria ma anche verso il nuovo Regime che la governava: "Perché, pure attraverso la vita febbrile di America, noi seguiamo con ardente passione la lotta titanica dei nostri fratelli d'oltremare, ispirati e guidati dal Duce Magnifico".
La costruzione della Casa, realizzata su un terreno donato dalla stessa Columbia University, costò circa 315.000 dollari. In realtà la mano d'opera fu gratuita grazie agli imprenditori lucani, altrimenti il costo sarebbe stato ben maggiore, tant'è che, ad opera ultimata, la Casa aveva un valore di mercato di oltre 500.000 dollari. Una somma enorme, dunque, che solo grazie agli interventi dei Paterno e di Antonio Campagna venne raggiunta. Il Dott. Carlo Paterno, inoltre, provvide alla donazione dell'intera biblioteca per un valore di circa 30.000 dollari.
Inizialmente, infatti, le sottoscrizioni portarono a circa 115.000 dollari. Di questi, ben 72.000 dollari furono raccolti in occasione dell'anniversario del Natale di Roma del 1927, celebrato a New York solennemente dalla comunità italo - americana. In tale occasione, nella quale il Giudice Freschi aveva ringraziato i fratelli Paterno e l'avv. Antonio Campagna per l'opera svolta a favore della Casa, l'ambasciatore italiano De Martino aveva pronunziato un discorso nel quale l'iniziativa veniva vista all'interno dell'opera del Regime a favore degli italiani d'America, "mettendo in rilievo come il rinnovamento italiano, che ha nome Fascismo, sia soprattutto un rinnovamento spirituale ed ideale, e cioè dello spirito italiano, delle idee e della cultura, rinnovamento operatosi per virtù dell'Uomo assegnato all'Italia dalla provvidenza, per la magnifica vitalità delle giovani generose generazioni italiane" (Michele Strazza, Emigrazione e fascismo.cit).
Altri 65.000 dollari, dunque, furono dati proprio dai Paterno e da Antonio Campagna. Restavano 135.000 dollari che furono reperiti con il sostegno, oltre che degli imprenditori lucani, anche dei gruppi bancari della East River National Bank, della Ferrari State Bank, della Commercial Exchange Bank, anch'essi diretti da banchieri lucani.
Rimaneva, infine, un ultimo problema: era indispensabile un fondo iniziale di dotazione e di mantenimento di 100.000 dollari, oltre alle spese per il primo anno di attività.
A fornire le necessarie disponibilità finanziarie ci pensò un altro imprenditore lucano, Antonio D'Angelo, originario di Rionero in Vulture, insieme ad altri due italiani Luigi Gerbino e Adamo Ciccarone.
(1 - Continua)
 
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