La strategia difensiva della "rotellina" dello sterminio, passiva e priva di odio, che ispirò così profondamente la Arendt, fu un'invenzione con ben pochi contatti con la realtà. Dopo la lettura della sentenza di condanna Eichmann confidò al suo legale: "Io non ero la rotellina più piccola, e non sopporto più di sentire questa parola." |
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I volti di Adolf Eichmann
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(Seconda Parte) |
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L'intuizione di Hannah Arendt di universalizzare la figura di Eichmann, attraverso una lettura ideologica dei fatti e dei documenti e una astrazione dal contesto storico, parve trovare, negli anni '60, una conferma scientifica negli esperimenti sul comportamento dei soggetti sottoposti all'autorità condotti presso l'Università di Yale dallo psicologo sociale Stanley Milgram. Posti di fronte all'ordine, impartito da una autorità percepita come legittima, di eseguire azioni in conflitto con i propri valori etici, gli individui selezionati non si erano in maggioranza tirati indietro, anzi avevano obbedito ciecamente. L'estrazione sociale e il livello di istruzione non avevano influito sul comportamento; il grado di obbedienza era invece crollato quando i soggetti avevano potuto vedere da vicino gli effetti del loro agire.
L'immagine del "killer da scrivania", che chiuso nel suo ufficio sigla documenti, sposta carte e attiva processi senza rendersi conto delle sofferenze da lui generate, e proprio per questo è portato ad obbedire anche agli ordini più mostruosi, pareva quindi corroborata da un riscontro scientifico sperimentale. Confortati dai risultati di Milgram, intellettuali, accademici e larga parte dell'opinione pubblica finirono per accettare come una verità irrefutabile l'interpretazione secondo cui Eichmann sarebbe stato un uomo qualunque e chiunque avrebbe potuto essere Eichmann, spostando dal singolo individuo all'autorità dello Stato il peso della responsabilità per i crimini contro l'umanità. Ancora oggi tale presunta verità continua a sedurre, nonostante l'evidenza sia degli aspetti arbitrari e mistificatori della teoria della "banalità del male", sia dell'assoluta incomparabilità tra gli ordini immorali impartiti da Milgram in laboratorio e la mostruosità dei crimini nazisti, su cui oltretutto influirono elementi storici, politici e culturali non riproducibili.
Pur rifuggendo da ogni astrazione filosofica e da ogni pretesa di svelare i segreti della psiche umana, anche il difensore di Eichmann, Robert Servatius, un attempato avvocato di Colonia che, difendendo senza successo Fritz Sauckel a Norimberga, si era guadagnato una certa reputazione come paladino legale dei nazisti, sposò la tesi della rotellina passiva nella grandiosa macchina di morte del Terzo Reich. Dopo aver contestato il fondamento giuridico del processo, sollevando dubbi sull'imparzialità dei giudici, in quanto ebrei, sulla competenza della corte ad emettere una sentenza su crimini commessi ben prima della nascita dello stato ebraico e sulla legalità del trasferimento di Eichmann in Israele, Servatius dichiarò che l'imputato era stato soltanto un ufficiale che aveva eseguito degli ordini ed applicato delle leggi dello stato. Chiese quindi il non luogo a procedere ed il proscioglimento di Eichmann, dal momento che la responsabilità di ogni eventuale crimine commesso era da attribuire allo stato tedesco ed alla sua leadership politica e non ad un misero funzionario.
La corte rigettò queste richieste, ma non poté impedire alla difesa di perseverare nella strategia di presentare Eichmann come un personaggio minore, privo di qualsiasi potere decisionale e discrezionale, mettendo in risalto le esagerazioni e le insinuazioni di Hausner, attraverso efficaci controinterrogatori dei testimoni dell'accusa. Servatius riuscì a far apparire vaghe, contraddittorie e tendenziose alcune deposizioni che avrebbero dovuto invece essere accolte come autorevoli ed oggettive; seppe sfruttare ogni occasione per ribadire la posizione subordinata del suo assistito; confutò specifiche accuse, dimostrando l'estraneità di Eichmann tanto allo sterminio dei bambini di Lidice, quanto all'assassinio del giovane ebreo ungherese sorpreso a rubare della frutta. Tuttavia l'efficacia della sua lunga esperienza forense fu indebolita non solo dall'impossibilità, a causa delle ristrette risorse del collegio di difesa, di analizzare una mole enorme di documenti, ma anche dalla verbosità e dalla controproducente puntigliosità burocratica del suo assistito. David Cesarani osserva:"Eichmann sembrava incapace di rispondere a una domanda con un semplice sì o no. Si imbarcava in spiegazioni prolisse, punteggiate da innumerevoli frasi subordinate che lasciavano il traduttore e gli stessi giudici disorientati sul significato di ciò che intendeva dire".
Servatius affidò grande importanza alla ricostruzione della catena di comando della "soluzione finale", ma la deposizione del suo assistito risultò tutt'altro che convincente ed illuminante. Eichmann si sforzò di far comprendere la modestia della sua posizione gerarchica esponendo, in un gergo burocratico quasi impenetrabile, ben diciassette tabelle multicolori che non fecero altro che creare maggiore confusione e suggerire l'idea che stesse nascondendo le sue reali responsabilità dietro una spessa cortina fumogena di competenze, ruoli e funzioni.
Ancora più controproducente risultò l'ostinazione dell'imputato a dipingersi come un esperto di emigrazione con profonde e sincere simpatie sioniste. Come segno del suo interesse per l'ebraismo, citò la richiesta, avanzata ai suoi superiori nel 1936, di una sovvenzione con cui sostenere i costi di un ciclo di lezioni di yiddish. Irritò pubblico e giuria rivendicando con orgoglio di aver reso possibile l'emigrazione di due terzi degli ebrei austriaci, passando sotto silenzio la loro sistematica spoliazione. Interrogato in merito al progetto Madagascar, azzardò un paragone, involontariamente provocatorio, con le idee di Theodor Herzl, padre del sionismo. Suscitando mormorii in aula affermò: "Il mio unico sforzo era . suggerire in ogni modo che da qualche parte - come ho detto più e più volte - si mettesse una terra sotto i piedi degli ebrei.". Senza preoccuparsi di sfidare il ridicolo, finse di non rendersi conto del carattere implicitamente genocida dello sradicamento di quattro milioni di europei per ammassarli in un'isola semiselvaggia, priva di risorse ed infrastrutture e per giunta sottoposta al controllo poliziesco delle SS. Si trattò certamente di una goffa finzione, dal momento che, su scala ben più ridotta, Eichmann nell'autunno del 1939 aveva personalmente organizzato il trasferimento forzato di appena qualche migliaio di ebrei austriaci, polacchi e moravi nello sperduto villaggio di Nisko, nei pressi di Lublino, con esiti disastrosi in termini di vittime causate da malattie, disagi, malnutrizione e maltrattamenti delle SS.
Eichmann descrisse la conferenza di Wannsee, a cui ribadì di aver partecipato come semplice relatore e senza nessun potere decisionale, come la definitiva sconfitta del suo sogno "sionista" di una ordinata emigrazione ebraica ed al tempo stesso come l'assoluzione da qualsiasi responsabilità penale personale, poiché in quell'occasione i vertici politici avevano impartito gli ordini di sterminio. Tentò di dimostrare la propria riluttanza ad obbedire ai nuovi orientamenti della politica nazista, dichiarando di aver chiesto a più riprese e senza successo un trasferimento ad altri incarichi, ma non fu in grado di esibire alcun documento a suo favore. Sconsolato affermò: "Quando la leadership di uno stato è buona, il subordinato è fortunato. Io sono stato sfortunato, perché a quel tempo il capo dello stato aveva emesso l'ordine di sterminare gli ebrei".
Pur respingendo ogni accusa sul piano legale, riconobbe la propria colpa morale, ma non risultò affatto convincente, poiché non rinunciò al suo consueto tono glaciale e liquidò il rimorso come una consolazione per bambini. Anche sforzandosi di dimostrare di avere una coscienza tormentata non perse l'occasione per ribadire di essere una vittima e nulla più: "Esprimo il mio dolore e la mia denuncia per le attività di sterminio contro gli ebrei ordinate a quei tempi dai leader tedeschi. Però personalmente non potevo fare diversamente o di più. Io ero solo uno strumento nelle mani di poteri più forti e di forze più grandi e di un destino inesorabile.".
Dietro la maschera del sionista divenuto genocida suo malgrado, tra parziali ammissioni, spudorate menzogne, ipocriti accenni a conflitti interiori sopiti nell'obbedienza, autoinganni ed amnesie selettive, Eichmann lasciò fugacemente intravvedere un altro volto: quello di un nazista che aveva consapevolmente accettato di diventare complice dello sterminio del popolo ebraico. I giudici di Gerusalemme, costretti sulla base delle evidenze processuali a ridimensionare le iperboli di Hausner, lo colsero, descrivendo Eichmann come un nazista convinto, colmo di un "odio freddo e calcolatore rivolto al popolo ebraico", che aveva mentito per evitare la condanna, dimostrando le stesse qualità di cui aveva dato prova come responsabile del dipartimento IV B4: "una mente vigile, abilità di adattarsi a qualsiasi situazione difficile, astuzia, facilità di parola". I giornalisti, i commentatori ed il pubblico ministero, troppo impegnati ad innalzare simboli, ad inseguire astrazioni filosofiche, ad additare aberrazioni psicologiche, a trovare conferme a preconcetti ideologici, guardarono altrove.
Alla luce di una visione più complessa e documentata del Terzo Reich e della "soluzione finale", la storiografia ha cercato recentemente di indagare sul volto nazista di Eichmann. Secondo l'approfondita analisi di David Cesarani, per diventare complice di crimini contro l'umanità Eichmann non assecondò un istinto innato, ma effettuò una scelta che, ad un certo momento della sua carriera di SS ed in una precisa fase della guerra hitleriana, intesa come lotta per la sopravvivenza della Germania e con essa della razza ariana, gli parve inevitabile. Accettò il genocidio spinto non solo dal senso del dovere, dal desiderio di rispettare il giuramento di fedeltà prestato, ma anche dalla convinzione, instillata nel suo animo da anni di indottrinamento nazista, secondo cui gli ebrei erano irriducibili nemici della razza ariana e perciò dovevano essere annientati.
Forse Eichmann non mentì del tutto quando dichiarò di aver avuto qualche sussulto di coscienza di fronte alla "soluzione finale", ma certamente non rifiutò la carriera del genocida, probabilmente con le stesse motivazioni di tante altre SS. Nessuna delle immani sofferenze inflitte al popolo ebraico riuscì ad impedirgli di svolgere i compiti assegnatigli con il massimo dell'impegno e con febbrile dedizione.
La strategia difensiva della rotellina dello sterminio, passiva e priva di odio, che ispirò così profondamente la Arendt, fu un'invenzione con ben pochi contatti con la realtà. Dopo la lettura della sentenza di condanna Eichmann confidò al suo legale: "E' qualcosa che non mi aspettavo affatto, non mi aspettavo che non mi credessero per niente. Naturalmente io non ero la rotellina più piccola, e non sopporto più di sentire la parola 'rotellina', perché non è vero. Ma d'altra parte non ero neppure la molla.".
Hitler, ossessionato dall'incubo della cospirazione ebraica, ordinò il genocidio, Himmler ed Heyndrich, ai vertici dell'apparato poliziesco del regime, ne pianificarono le direttrici, Eichmann ne divenne il direttore generale, affrontando con energia continui conflitti di competenza, beghe amministrative, cavilli giuridici e problemi organizzativi apparentemente insormontabili. Una mole di lavoro che avrebbe inceppato qualsiasi rotellina passiva, non sorretta da una robusta fede nazista. Eichmann invece portò a termine il suo compito, mostrando qualità superiori a quelle di un banale carrierista. Probabilmente il comandate di Auschwitz non esagerò tracciandone un ritratto vulcanico: "Era sulla trentina, molto vivace e attivo, sempre pieno di energia. Andava macchinando continuamente nuovi piani e continuamente era a caccia di innovazioni e di miglioramenti. Era incapace di starsene quieto. La sua ossessione era la questione ebraica".
Eichmann non fu esattamente il plenipotenziario per la "soluzione finale" immaginato da Hausner, quanto piuttosto un funzionario con gravosi compiti di collegamento e controllo. Il suo ruolo fu operativo, non rimase chiuso in ufficio a timbrare carte, si mosse frenetico da un capo all'altro dell'Europa per spronare e controllare il suo personale affinché il programma di sterminio tracciato in alto loco non subisse intoppi, visitò più volte i lager, poté vedere con i propri occhi l'orrore celato dietro le formule burocratiche, quasi materialmente spinse gli ebrei sui treni della morte. Come dimostrano i fatti d'Ungheria, non affievolì il suo impeto neanche quando l'edificio del Terzo Reich era sul punto di crollare ed una parte della leadership nazista tentava di far sparire le tracce dell'olocausto per aprirsi uno spiraglio verso il futuro.
L'incessante indottrinamento antisemita del regime nazista produsse effetti da un capo all'altro della catena di comando. Prima di impiccarsi nella sua cella, sottraendosi così alla sentenza dei giudici di Norimberga, Robert Ley, a capo del Fronte del Lavoro, l'organizzazione nata dalla nazificazione dei sindacati, scrisse: "Siamo finiti con il vedere tutto con occhi antisemiti. Era diventato un complesso [.]. Noi nazionalsocialisti vedevamo nelle lotte adesso alle nostre spalle solo una guerra contro gli ebrei, non contro i francesi, gli inglesi, gli americani o i russi. Credevamo che fossero tutti solo strumenti degli ebrei.". Interrogato a Norimberga sulle radici del suo antisemitismo, un criminale come Höss spiegò: ". era qualcosa di scontato che gli ebrei avessero la colpa di tutto [.]. Come vecchio nazionalsocialista fanatico, io ho preso tutto come un dato di fatto. esattamente come un cattolico crede nei dogmi della sua chiesa. Era semplicemente la verità senza riserve, io non avevo dubbi in merito. Ero assolutamente convinto che gli ebrei fossero al polo opposto rispetto al popolo tedesco e che prima o poi ci sarebbe stato uno scontro tra il nazionalsocialismo e l'ebraismo mondiale. Ma tutti erano convinti di questo; era questo che si sentiva e si leggeva in giro."
Anche scendendo la scala gerarchica sino all'ultima delle SS, risulta evidente che il genocidio non fu attuato da robot disumanizzati, ma da individui disciplinati che condividevano con i propri superiori le finalità degli ordini che eseguivano. Giunto al termine della sua vita, Oskar Groening, un graduato delle SS che aveva prestato servizio ad Auschwitz, ha raccontato al documentarista della BBC Laurence Rees la propria reazione quando scoprì quale orribile destino attendeva gli ebrei considerati non abili al lavoro: "Era inimmaginabile. Riuscii a comprenderlo del tutto solo quando fui di guardia agli oggetti di valore e alle valige alla selezione. Se devo dirla tutta fu uno shock che ci volle tempo per smaltire. Ma non bisogna dimenticare che ben prima del 1933. la propaganda di quando ero ragazzo, sui mezzi di comunicazione e nella società in cui vivevamo, ci diceva che gli ebrei erano stati la causa della Prima guerra mondiale e alla fine avevano anche 'pugnalato la Germania alle spalle'. E che gli ebrei erano responsabili dello stato di miseria in cui si trovava la Germania. Eravamo convinti che ci fosse una grande cospirazione ebraica contro di noi e quella visione del mondo trovava espressione ad Auschwitz. Bisognava evitare quello che era successo con la Prima guerra mondiale, cioè che gli ebrei ci facessero di nuovo precipitare nella miseria. I nemici interni dovevano essere uccisi, sterminati se necessario. E tra queste due battaglie, quella dichiarata al fronte e quella sul fronte interno, non c'era alcuna differenza. Stavamo sterminando dei nemici.".
Eichmann mostrò, come osserva Cesarani, la sua intima e consapevole adesione al genocidio quando a Berlino nell'aprile del 1945 dichiarò ai suoi collaboratori del dipartimento IV B4 che sarebbe sceso con gioia nella tomba sapendo di aver contribuito allo sterminio di milioni di ebrei. Durante il processo di Gerusalemme, incalzato da Hausner non smentì di aver pronunciato una frase simile, ritenuta dalla Arendt nulla più che la melodrammatica vanteria di un uomo oppresso dalla mediocrità, si affrettò però a precisare di essersi riferito ai milioni di nemici del Reich, in particolare ai russi. Tuttavia alla domanda del pubblico ministero se nemico ed ebreo fossero per lui sinonimi Eichmann non esitò a rispondere affermativamente.
Alcuni anni prima di essere rapito, ritenendosi ormai al sicuro e dimenticato da tutti, Eichmann accettò di registrare ore ed ore di conversazioni sulla "soluzione finale" con il giornalista di origine olandese Willem Sassen, con cui condivideva oltre alla lingua la passata militanza nazista. In un clima di confidenze tra camerati, opportunamente surriscaldato dal cognac, si lasciò andare a dichiarazioni rivelatrici della sua determinazione genocida. Si dolse di non essere riuscito a superare tutti gli ostacoli che avevano ritardato ed intralciato il suo lavoro. Ricordò invece con soddisfazione le occasioni in cui, come in Ungheria, le deportazioni si erano svolte rapidamente ed ordinatamente. Tracciando un bilancio della sua battaglia per l'attuazione della "soluzione finale", Eichmann affermò: "No, non ho assolutamente rimpianti e non mi cospargo il capo di cenere. Nei quattro mesi durante i quali hai presentato tutta la materia, durante i quali hai cercato di rinfrescarmi la memoria, mi sono tornate in mente molte cose. Sarebbe troppo facile, e potrei ragionevolmente farlo per ingraziarmi l'opinione pubblica corrente, recitare la parte di un Saulo che è diventato un Paolo. Ma devo dirti che non posso farlo, perché il mio essere più profondo rifiuta di dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No: devo dirti in tutta sincerità che, se dei 10,3 milioni di ebrei . ne avessimo uccisi 10,3 milioni, io sarei soddisfatto. Direi: 'Benissimo. Abbiamo sterminato un nemico'.".
Forse al momento di salire sul patibolo l'unico dilemma che turbò la coscienza nazista di Eichmann fu quello espresso in termini poetici da Primo Levi: "Salterai nel sepolcro allegramente? / O ti dorrai come in ultimo l'uomo operoso si duole, / cui fu la vita breve per l'arte sua troppo lunga, / dell'opera tua trista non compiuta, / dei tredici milioni ancora vivi?".
(2 - Fine)
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BIBLIOGRAFIA
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