Molte delle differenze comportamentali tra i sessi non sono il prodotto diretto del sesso inteso in senso biologico. I sessi negli umani sono due, tre i generi, ma dall’antichità ai giorni nostri sono esistiti infiniti modi di vivere la sessualità.
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Sessi, generi e sessualità
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L’argomento sulla natura dei sessi, sia in ambito culturale sia religioso, è stato tema di moltissime indagini e differenziazioni che hanno contraddistinto i numerosi studi storici, antropologici, sociologici, medici e psicologici.
L’etimologia moderna considera la parola “sesso” di origine incerta. Secondo alcuni il termine deriva dal latino sexus da sec-us, tagliare, separare; per altri dal greco èxis, che rimanda a sexis, “stato”, “condizione”. In questi casi il termine “sesso” indicherebbe nient’altro che “differenza”. Tuttavia in latino il lemma sexus ha una particolare assonanza con la parola sex (“sei”), il numero probabile delle condizioni sessuali in natura.
Nel mondo animale la distinzione fra maschio e femmina non è sempre rigida: alcune specie, infatti, possono mostrare contemporaneamente le caratteristiche di entrambi i sessi, altre oscillano addirittura fra un sesso e un altro (ad esempio, la farfalla prima è un bruco). Talvolta l’ambiguità sessuale arriva al punto che gli organi sessuali, maschili e femminili, si sviluppano e regrediscono più volte alternativamente (come ad esempio nell’ostrica). Nella specie umana due sono i sessi: il maschio e la femmina; tre sono i generi sessuali: il maschio, la femmina e l’ermafrodita (il transessuale è un artefatto tecnologico, un adattamento chirurgico al sesso d’elezione); tre sono le sessualità: etero, bisex, omo; infiniti i modi di vivere la sessualità.
Nel IV secolo a. C. Platone nel Simposio racconta per bocca del commediografo Aristofane che «Nei tempi andati la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c’erano tra gli uomini tre generi, e non due, il maschio e la femmina, come adesso. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri: era il genere andrògino, che per aspetto e nome aveva caratteristiche sia maschili sia femminili. Ora non è rimasto che il nome, che suona dileggio. […] La ragione per cui c’erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d’entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra».
Nel mondo greco l’androgino è presente all’inizio della creazione del mondo. Egli rappresentava la perfezione divina, giacché in lui coincidevano gli opposti. L’androgino era raffigurato con due facce opposte a un’unica testa: una con la barba, l’altra senza. La sua perfezione lo rese arrogante e Zeus decise di dividerlo in due, il maschio e la femmina.
Androgino è un termine erroneamente usato come sinonimo di ermafrodito. Tuttavia le cose sono diverse. L’androgino è colui o colei che ha coesistenza di aspetti esteriori, sembianze o comportamenti propri di entrambi i sessi. L’ermafrodito, invece, non è una via di mezzo tra il maschio e la femmina, né tantomeno un mezzo maschio e una mezza femmina, bensì è un maschio e una femmina assolutamente efficienti, riuniti insieme nello stesso essere: per definizione è un individuo che produce sia uova sia spermatozoi.
La mitologia ha dato largo spazio al mito dell’androgino/ermafrodita. La bisessualità degli dei è un topos ricorrente in molte culture antiche, un archetipo della coincidentia oppositorum.
Per i Greci Ermafrodito è il figlio delle divinità Hermes e Afrodite. Narra Ovidio nella Metamorfosi (IV) che il bellissimo giovane a quindici anni, dalla Frigia (l’attuale Turchia) dove era stato allevato, iniziò a girare il mondo e, giungendo in uno specchio d’acqua ad Alicarnasso, in Caria, si imbatté nella ninfa Salmacide. La ninfa si innamorò di lui. Appena il giovane entrò in acqua, la ninfa corse da lui abbracciandolo e pregando gli dèi di non separarla più da lui. Gli dèi l’accontentarono ed entrambi furono fusi in un solo corpo. In questo modo, appartenere al terzo sesso aveva per gli antichi Greci una connessione diretta con il sacro, il divino o il magico.
Anche presso altri popoli esistevano divinità, semidivinità o figure sacre che adottavano i modi e l’abbigliamento delle donne o erano androgine/ermafrodite. Ad esempio, il dio iranico del tempo illimitato Zervan, che gli storici greci traducono come Chronos, era androgino. Come lui anche la divinità cinese delle Tenebre e della Luce. Presso gli Egizi c’erano Hapi (la divinità ermafrodita rappresentante lo Spirito del Nilo), Atum (divinità solare), Neith di Sais (da cui poi derivò l’Athena greca). In India ci sono le divinità Shiva e Vishnù, mentre presso gli Aztechi c’era Ometeotl la doppia divinità Ometecuhtli/Omecihuatl, un dio doppio, maschio e femmina. Nell’induismo si trova la dea Aditi, divinità che ha creato l’universo. Quasi tutti gli dèi importanti della mitologia scandinava conservano tracce di androginia: Odino, Loki, Tuisto, Nerthus e così via.
Secondo numerose tradizioni, il primo uomo sarebbe stato bisessuato, partecipando così all’interezza e alla perfezione della divinità. Egli si sarebbe scisso solo in seguito nella coppia formata dal primo uomo e dalla prima donna. Molti commenti rabbinici lasciano capire che anche Adamo fu talvolta concepito androgino/ermafrodita, tanto da “generare” Eva. La nascita di Eva dunque sarebbe stata, in ultima analisi, soltanto la scissione dell’androgino/ermafrodita primordiale in due esseri, maschio e femmina. Gli stessi Angeli sono resi nell’iconografia come esseri androgini, anche se considerati asessuati.
Nell’antichità, dunque, i termini androgino ed ermafrodita sono parole interscambiabili quando sono applicati alle divinità, in quanto ciascuno di essi implica la fusione e l’incapsulamento di caratteri sia maschili sia femminili, quindi la totalità della potenza magico-religiosa dei due sessi. Ma quando si tratta dell’uomo, la questione diventa controversa, anzi molto spesso l’ermafrodita è considerato aberrazione, errore della natura, portatore di segnali di sventura.
Nell’antica Roma l'ermafroditismo degli umani era considerato foedum atque turpem prodigium, un prodigio infausto e turpe, una mostruosità che metteva a repentaglio l’ordine naturale. Per questo i neonati bisessuati erano bruciati vivi su un rogo di rovi selvatici o annegati, mentre in Grecia erano abbandonati al loro destino o gettati dalle rupi.
Il termine omosessualità, invece, è inopportuno per il mondo antico, poiché non esistevano lemmi in latino o in greco che avessero tale significato. E questo perché, in passato, le persone non erano classificate in base alle loro scelte sessuali.
I rapporti omosessuali nell’antica Roma non destavano scandalo. A patto di rispettare due regole: il cittadino romano doveva avere un ruolo “attivo” e il suo concubino essere di rango inferiore. In questo modo, l’omosessualità romana era al tempo stesso una manifestazione sociale del potere personale del cittadino sugli schiavi, e una riconferma della sua potenza virile che constatava nel sottomettere altri uomini.
Famosa è la figura dell’imperatore Marco Aurelio Antonino (203 –222), meglio conosciuto come Eliogabalo o Elagabalo. Gli storici del tempo descrivono l’imperatore come un uomo bello e di grande fascino. In veste di gran sacerdote del sole, venerato in Fenicia sotto il nome di Eliogabalo, ne introdusse a Roma il culto eminentemente orgiastico e promiscuo, per abbandonarsi poi a mollezze e stravizi d’ogni tipo. Sposò cinque donne, ma intrattenne ufficialmente relazioni con uomini, tra cui il biondo Ierocle, un conduttore di bighe proveniente dalla Caria (Anatolia), e con Zotico, un atleta di Smirne. Lo storico e senatore Cassio Dione nella sua Storia romana racconta che Eliogabalo era disposto a offrire metà dell’Impero romano al medico che potesse dotarlo di genitali femminili (LXXX.16).
In Grecia si potevano amare persone dello stesso sesso (paiderastài, gli “amanti dei ragazzi”), oppure quelle del sesso opposto (gunaikerastài, “amanti delle donne”), o essere attratti sia dai maschi sia dalle donne (amfidéxoi, “ambidestri”). I greci nell'amore cercavano il bello, indipendentemente dal sesso di chi amavano, pertanto amare donne o ragazzi era solo una faccia diversa della stessa medaglia. Solo gli effeminati erano oggetto di scherno.
In Grecia, addirittura, il rapporto omosessuale con gli adolescenti maschi (a partire da almeno dodici anni di età) svolgeva una funzione formativa: la pratica della pederastia era un’attività permessa dalle leggi, celebrata nei riti e dalla letteratura. Questa consuetudine traeva la sua legittimazione da numerosi amori omosessuali mitici: Zeus e Ganimede, Poseidone e Penelope, Apollo e Giacinto, ancora Apollo e Ciparisso e Admeto, Eracle e Iolao, Teseo e Piritoo. A differenza della pederastia, l’amore fra donne non era strumento di formazione, poiché era un rapporto paritario che non prevedeva sottomissione.
A Cipro, racconta lo scrittore romano Macrobio, donne vestite da uomini e uomini vestiti da donne adoravano Venere Castina, una divinità femminile dotata di attributi maschili, eletta protettrice di queste persone.
Il Cristianesimo separa completamente la sessualità dalla sfera sacra, relegandola nella sfera privata ed elevandola a male assoluto se praticata al di fuori del matrimonio, senza le finalità procreative, e se assume posizioni e pratiche sessuali innaturali e, soprattutto, con persone dello stesso sesso.
La morale dettata dalla Chiesa di Roma funzionò da base e fulcro alle leggi che, successivamente adottate dagli imperatori cristiani come Costante, Teodosio e Giustiniano, proibirono e punirono il “nuovo” reato di omosessualità. Nel 533 Giustiniano, nelle Institutiones Iustiniani sive Elementa, considera l’omosessualità una “innominabile libidine” e la equipara all’adulterio, sancendone la pena capitale (Inst. 4, 18, 4).
San Pier Damiani (1007-1072) è il primo religioso a condannare ufficialmente l’omosessualità. Nel suo Liber Gomorrhianus la definisce «un’abile macchinazione del diavolo» che dilaga finanche tra gli ecclesiastici del suo tempo.
L’intolleranza e la condanna dell’omosessualità ha il suo apice nel XIII secolo attraverso una vera e propria persecuzione: oltre che per le streghe e gli eretici, i roghi si accendono anche per gli omosessuali. Tale pena è mantenuta sino al XV secolo non solo per gli omosessuali, ma anche per chi pratica la sodomia tra uomo e donna.
Se l’omosessuale era una vittima della macchinazione del diavolo, gli ermafroditi erano spesso considerati la conseguenza di un rapporto satanico e per questo anch’essi messi al rogo e le ceneri disperse al vento.
Codificata la regola della condanna a morte per gli omosessuali e gli ermafroditi, nel Rinascimento cambia solo l’applicazione: si spengono i roghi, anche se non definitivamente, e si attivano i boia. A partire dal XV secolo, infatti, si diffuse l’abitudine di garrotare, impiccare o decapitare gli omosessuali, bruciandone poi il cadavere, riservando il rogo solo ai casi particolarmente gravi, tra cui lo stupro di bambini.
Ovviamente l’applicazione di questa pena variava secondo i luoghi e l’ambiente sociale. Se Venezia aveva una spietata severità, Firenze era più lassista. In Toscana, infatti, le esecuzioni capitali furono rarissime e spesso, se non c’era stato stupro, la pena si traduceva in una salatissima multa o nella reclusione nelle carceri.
Dal XVII secolo i roghi si spengono anche per gli ermafroditi: devono scegliere il loro sesso prevalente e indossare quindi abiti del proprio genere. Soltanto nella misura in cui facevano uso supplementare del sesso “annesso” erano era poi soggetti alle leggi penali.
La Riforma e, soprattutto, la Controriforma esige il massimo zelo contro chi viola il dettato della Chiesa di Roma: i “falò umani” si riaccendono e anche chi era stato meno scrupoloso nell’applicare la condanna a morte per sodomia (come la Toscana), si piega all’esigenze della Controriforma.
In questi periodi non mancano esempi di comportamenti “contro tendenza”, come quello di Enrico III di Francia (XVI secolo), del quale si racconta che un giorno decise di rivelarsi comparendo vestito da donna dinanzi ai deputati. Dal XVII secolo giungono notizie di un notabile francese, l’Abate de Choisy, che sin dall’infanzia si vestiva da donna, considerandosi tale. Le cronache parlano anche di un certo abate Becarelli, sedicente messia che sosteneva di possedere una droga che poteva “cambiare il sesso”. Si pensi ancora a Charles Geneviève Louis Auguste André Thimothée d'Eon de Beaumont (1728-1810), il famoso “Cavaliere d’Eon”, che visse 49 anni da uomo e 37 da donna. Dopo una vita passata a fare il capitano dell’esercito francese, il diplomatico, la spia e lo spadaccino, con decreto del re Luigi XVI, ricattato da documenti compromettenti, nel 1777 divenne “donna per legge”. Dalla sua figura è nato il termine “eonismo” per designare la forma di travestitismo maschile. La vita del Cavaliere d’Eon ha anche ispirato il famoso cartone animato Lady Oscar.
Sino alla Rivoluzione francese la sodomia resta un reato capitale punibile col rogo, ma dalla seconda metà del Seicento la severità delle condanne a morte inizia a affievolirsi cadendo a poco a poco in desuetudine nella prassi. Nel XVIII secolo la pena capitale è definitivamente sostituita con altre pene, tra cui la terribile condanna “a remare nelle galee”.
L’Illuminismo finalmente rivede il concetto di “crimine contro natura”. Montesquieu, ad esempio, nel suo Dello spirito delle leggi (1748) afferma l’opportunità di “proscrivere la pena capitale per questo reato con una severa attività di polizia”. Il primo sovrano ad abolire la pena capitale per sodomia fu Pietro Leopoldo di Toscana, che nel 1786 con la Riforma criminale toscana sostituisce questa pena con il carcere.
Partendo dal presupposto che non esiste reato in mancanza di una parte lesa, la Rivoluzione francese dà l’avvio all’abolizione totale della pena capitale per la sodomia. Uno Stato dopo l’altro segue l’esempio, cancellando dalla propria legislazione penale la pena capitale per omosessualità. Ultimo fu il Regno Unito che conservò questa condanna sino al 1860.
Nell’Ottocento il clima divenne più tollerante e in Italia, a Napoli, è addirittura istituzionalizzata dal popolino una categoria particolare di omosessuali: i “femminielli”. I femminielli, termine inteso linguisticamente come un vezzeggiativo e non come uno spregiativo, sono i famosi “ragazzi femmina” di Napoli. Definirli semplicemente omosessuali o travestiti è improprio e riduttivo.
O’ femminiello ha fatto parte del tessuto sociale dei quartieri più popolari di Napoli. Amato e benvoluto dal quartiere è considerato depositario della buona sorte, al punto che tradizionalmente gli si metteva in braccio un nascituro, gli si affidavano i propri figli, ed era una figura importante nelle tombolate di Natale. La figura del femminiello è importante non solo nell’ambito sociale, ma anche in quello religioso, avendo una speciale predilezione per “Mamma Schiavona”, la Madonna Nera di Montevergine, verso la quale ogni 2 febbraio fanno la juta (l’uscita), un pellegrinaggio verso il santuario a Montevergine dove partecipano al rito della Candelora. Secondo la leggenda, questa Madonna nel 1256 salvò due femminielli che stavano morendo di freddo. Nell’area del Santuario, in epoca precristiana, sorgeva un tempio dedicato alla dea Cibele, le cui cerimonie sacre erano professate da sacerdoti evirati.
Tra i riti celebrati dai femminielli, famosi sono quelli dello “Spusalizio mascolino”, la “Covata dei femminielli” e la “Figliata dei femminielli”. Nel primo, due femminielli erano uniti a nozze in forma privata, poi i novelli consorti si ritiravano in camera dove consumavano il matrimonio. La “Covata”, nell’area napoletana era un antichissimo rito di natura magica per cui, mentre la donna partorisce, il marito mima a sua volta il parto, imitando le doglie con pianti e grida, e ricevendo per questo tutte le attenzioni normalmente riservate alla partoriente. Col tempo il femminiello sostituisce il marito e, con la sua presunta carica di positività, è di buon auspicio alla neo mamma e al neonato. Nella “Figliata” un femminiello simula un parto, con tanto di doglie (una bellissima descrizione del rito si trova nel romanzo La pelle di Curzio Malaparte).
Corrispettivi dei femminielli napoletani sono gli Hijra indiani e le Fa'afafine polinesiane. Nella cultura del subcontinente indiano, gli Hijra in genere non sono considerate né uomini né donne. Nella maggior parte dei casi si tratta di individui biologicamente maschi oppure sono ermafroditi o eunuchi. Malgrado l’atteggiamento di disconoscimento attuato della moderna India, nei paesini più arretrati ancora oggi sono chiamati a svolgere la loro funzione rituale di presenziare a un parto o di cantare e danzare in una casa dove è nato un maschio. Come i femminielli, gli Hijra sono considerati dalla cultura popolare portatori di salute, fertilità e prosperità per il neonato. Oggi molti di loro conservano il sesso maschile, limitandosi a vestirsi e comportarsi da donne, ma un tempo era diffusa la pratica di evirarsi davanti a una immagine della dea Bahachura Mata.
Un Fa’afafine è una persona nata biologicamente maschio, ma che incarna entrambi i caratteri di genere maschile e femminile. Il termine Fa’afafine, infatti, comprende il prefisso fa’a, che vuol dire “alla maniera di” e il termine fafine, che significa “donna”. Essi ricoprono un ruolo importante nel tessuto sociale polinesiano poiché assistono gli anziani e intrattengono i bambini. Una relazione con essi non è considerata una relazione omosessuale, poiché sono considerati un vero e proprio “terzo sesso”.
Il concetto di “terzo sesso”, definito anche uranismo, è stato coniato dal militante omosessuale Karl Heinrich Ulrichs (1825-1895). Nel suo opuscolo Inclusa, Ulrichs specificò il concetto con la definizione latina Anima muliebris corpore virili inclusa (un’anima femminile imprigionata in un corpo maschile). Lo scienziato era convinto del fatto che l’omosessualità fosse una variante della sessualità umana consistente in una posizione intermedia fra il primo polo costituito dal sesso femminile e il secondo polo costituito dal sesso maschile. Quello omosessuale, a suo dire, era un vero e proprio terzo polo, il “terzo sesso”, appunto.
Il medico sessuologo Magnus Hirschfeld (1868-1935), invece, nel suo saggio Die Trott- svestiten (1925) coniò il termine “travestitismo” per designare l’abitudine di (o il piacere a) indossare abiti del sesso opposto.
A metà Novecento interviene la scienza che appronta un percorso chirurgico di vera e propria transizione da un sesso all’altro, ufficialmente un “Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica” o semplicemente “Adeguamento di genere”.
Il primo a “transitare” da un sesso all’altro è un’artista danese nato maschio e divenuto donna. Si chiamava Mogens Einar Wegener (1882-1931) e, grazie a cinque interventi chirurgici per la conversione sessuale iniziati nel 1930, divenne Lili Elbe. L’artista muore nel 1931 a causa di complicazioni sorte tre mesi dopo la sua quinta e ultima operazione.
Una notizia pubblicata il 1° dicembre 1952 dal New York Daily News riaccende il dibattito sull’identità di genere, una realtà che ancora oggi sconcerta qualcuno e infastidisce una parte della società: “Ex-GI becomes blond beauty” (Ex soldato diventa una bella bionda). George Jorgensen, ex ufficiale dell’esercito statunitense, diventa Christine. George scelse il nome di Christine in onore del dottor Christian Hamburger, il chirurgo danese che eseguì l'operazione e che supervisionò la sua terapia ormonale.
Il 2 dicembre del 1952, in un telegramma spedito da Copenaghen ai suoi genitori, George/Christine Jorgensen comunica ufficialmente che la sua vita è cambiata: «Cari mamma e papà, ho corretto un errore della natura. Da oggi sono vostra figlia». Da quel momento per molti che riconoscono estraneo il sesso assegnato dalla natura, l’“Adeguamento di genere” non è più un mito e la sala operatoria diventa solo una scelta fra tante.
Interessante per comprendere chi si sente estraneo al “sesso naturale” è l’autobiografia che Christine Jorgensen scrive nel 1967: Christine Jorgensen: A Personal Autobiography (Eriksson, New York).
Nelle sue memorie, Jorgensen si riconosceva una sorta di ermafrodismo psichico e non si considerava omosessuale, condizione comune a chi “sente” di non appartenere al proprio sesso biologico. Jorgensen, inoltre, ha precisato di non aver mai indossato abiti femminili prima di aver legalmente cambiato sesso su tutti i documenti.
La scelta e il coraggio di Christine Jorgensen, che visse la sua vita con dignità, danno rispettabilità a chi sentiva di non appartenere al suo sesso biologico, facendo il primo passo verso la realizzazione di una comunità che dopo moltissimi anni potrà definirsi “transgender” (termine ombrello in cui si possono identificare tutte le persone che non si sentono racchiuse dentro lo “stereotipo di genere” normalmente identificato come maschile e femminile). Per questo, nel 1989, pochi mesi prima della sua morte, Christine poté affermare di aver dato alla rivoluzione sessuale “un bel calcio nei pantaloni”.
Dal lato della scienza, molte sono state le spiegazioni offerte per spiegare il fenomeno di chi si sente estraneo al proprio sesso biologico. Se nell’Ottocento chi si sentiva di non appartenere al proprio sesso era considerato un malato di delirio psicotico (così diagnosticava lo psichiatra e neurologo tedesco Richard von Krafft-Ebing nel 1886 nella sua ricerca scientifica Psychopathia sexualis), con gli studi del fisiologo austriaco Eugen Steinach nel primo decennio del Novecento si consegnava “il problema” al ruolo svolto dagli ormoni nella determinazione del sesso. Questa “scoperta”, mai dimostrata, offriva la cura dell’omosessualità (lo stesso Steinach provò a far “guarire” l’omosessualità rimpiazzando dei testicoli di omosessuali con quelli di eterosessuali, ma l’esperimento si dimostrò un disastro totale). Infatti, è dimostrato che gli ormoni, da soli, non possono produrre né desiderio, né fantasie e piaceri sessuali; se mai è l’elemento psicologico che gioca un ruolo importante: non dobbiamo dimenticare che l’organo sessuale più importante nell’essere umano è la testa e non il “sesso in dotazione” e la sessualità non è una condizione limitata all’uso degli organi genitali, ma un’esperienza totale.
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Vita e cultura gay. Storia universale dell’omosessualità dall’antichità a oggi, di Aldrich R. – Cicero Editore, Venezia, 2007
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Oltre l’identità sessuale, di Monceri F. – ETS, Pisa, 2010
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