Nel 1947 la strage di Portella della Ginestra, in Sicilia, durante
la celebrazione del 1° maggio. Sotto accusa un celebre fuorilegge dell'epoca
LA TENTAZIONE POLITICA
DEL BANDITO GIULIANO. VERITA'?
di ALESSANDRO FRIGERIO
Era una bella giornata il 1° di maggio del 1947 a Portella della Ginestra, nell'entroterra palermitano, tra Piana degli Albanesi e San Giuseppe Iato. Quasi duemila tra contadini e braccianti di una Sicilia povera e disperata si erano dati appuntamento sui prati a ottocento metri di quota per celebrare la festa dei lavoratori, ascoltare un comizio sindacale e, soprattutto, passare una giornata in allegria con pranzo finale all'aria aperta. Proprio per questo motivo c'erano, oltre alle immancabili bandiere rosse e a un nutrito gruppo di esponenti sindacali, anche tante donne, bambini e anziani. Interi nuclei familiari erano giunti a piedi, col carretto o a dorso di mulo già di prima mattina. Avrebbe dovuto tenere il discorso Girolamo Li Causi, originario di Termini Imerese, politico quotato e avversario storico dei boss e dei loro luogotenenti. Impegnato però in un'altra manifestazione, fu sostituito dal calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Iato.
A Montelepre, la sera prima il bandito Salvatore Giuliano aveva radunato i suoi uomini e impartito gli ordini per l'azione. Divisi in due gruppi dovevano raggiungere la Pizzuta, un
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Salvatore Giuliano (a sinistra) con
il suo luogotenente Gaspare Pisciotta
promontorio che domina Portella della Ginestra, e la Cumeta, un'altro rilievo poco distante. S'incamminarono all'alba. Armato di tutto punto, Giuliano con i suoi raggiunse la Pizzuta. Gli altri, al comando di Antonino Terranova, videro in lontananza una pattuglia di carabinieri: per evitare uno scontro che avrebbe mandato all'aria tutta l'operazione, il secondo gruppo di fuoco ritornò quindi sui propri passi.
Sull'improvvisato palco l'oratore aveva appena attaccato il suo discorso quando dalla vicine alture che dominano la piana di Portella partirono le prime raffiche di mitra. Saranno state le nove e mezza, al massimo le dieci. Tra i presenti ci fu chi pensò a un tripudio di castagnole e mortaretti lanciati in segno di festa. Ma dopo l'iniziale sbalordimento il sangue delle vittime fece capire immediatamente la vera natura degli scoppi. Difficile intuire da dove provenissero i colpi. Nessuna possibilità di scampo per la folla, che da compatta si stava disperdendo in preda al panico, alla ricerca di un riparo qualsiasi. Nel giro di poco meno di due minuti la strage era compiuta. A terra restavano undici corpi inanimati. Due erano bambini. Più di sessanta i feriti.
Quattro cacciatori si erano imbattuti in Salvatore Giuliano poco prima della strage. Immobilizzati e bendati dagli uomini del "commando" avevano sentito il crepitare dei colpi e poi erano stati liberati. Saranno poi loro a mettere gli inquirenti sulle tracce del bandito.
Il clima politico di quei primissimi anni del dopoguerra era arroventato più che mai. Ad aprile si erano tenute le elezioni regionali che avevano segnato un consistente successo del Blocco del popolo, la coalizione guidata da Pci e Psi. Agrari e latifondisti temevano la definitiva erosione della propria secolare supremazia. Un'atmosfera di panico che si stava già diffondendo da qualche tempo tra i possidenti isolani. Un anno dopo lo sbarco alleato le associazioni contadine avevano infatti ottenuto il diritto di occupare o di avere in concessione terre incolte o sottoutilizzate dei grandi latifondi. Per la statica società siciliana si trattava di uno sconvolgimento radicale, dal quale non poteva non conseguire anche un riordino degli equilibri politici locali. Equilibri nei quali la mafia da sempre aveva un ruolo di primo piano. Del resto, nonostante il pugno di ferro del prefetto Mori, in vent'anni neanche il fascismo era riuscito a scardinare a fondo il sistema familistico e omertoso che proteggeva l'onorata società. Al più, il regime era riuscito a far tacere le notizie: il fenomeno mafioso pareva debellato solo perché non se ne se ne scriveva sui giornali. Ma con l'arrivo delle truppe americane la ramificata organizzazione era tornata alla ribalta e con essa l'esigenza di ridefinire le gerarchie criminali.
Nel caos postbellico - così come del resto era già accaduto negli anni immediatamente successivi all'Unità - aveva di nuovo preso piede anche un altro fenomeno: il banditismo. Condensato di ribellismo contro il potere costituito e di criminalità comune, espressione di arretratezza sociale e palestra per i futuri picciotti, il banditismo era stato volta a volta abilmente strumentalizzato, o semplicemente tollerato, dalla cupola mafiosa. Che in cambio chiedeva il rispetto della sua antica immagine di onorata società e la sua funzione di arcaico strumento di "ordine" e di "regolazione" sociale.
Salvatore Giuliano, nato a Montelepre nel 1922, fino al 1943 a fare il bandito ancora non ci aveva pensato. Tutto accadde il 2 settembre 1943 quando, portando con un mulo un carico di grano non in regola con le norme annonarie, fu fermato da una pattuglia di carabinieri.
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Il ministro Mario Scelba
Giuliano tirò fuori la sua pistola e freddò un appuntato riuscendo a far perdere le proprie tracce. La fama del "Turiddu di Montelepre", che ammazza uno sbirro, simbolo di uno stato forse assente e certo supremamente disprezzato, prese il via proprio allora. Seguirono altri ammazzamenti, la definitiva costituzione della banda nel gennaio 1944 e il piano per l'evasione dello zio e del cugino dalle carceri di Monreale. Nasce il mito della sua imprendibilità mentre Montelepre diviene il suo feudo, una sorta di giurisdizione autonoma rispetto al resto dell'isola.
Tra il 1945 e il 1946 Giuliano compie un salto di qualità, inserendosi nelle lotte del movimento separatista siciliano. Non si accontenta più di fare il bandito, vuole "mettersi in politica". Così una relazione della commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno mafioso, datata 1972, ne descrive l'apprendistato: "Giunge poi opportuno, ai suoi fini, l'insorgere del Movimento separatista, che spera, attraverso una insurrezione, di ottenere l'autonomia dell'isola. Nel Movimento separatista ritroviamo lo stesso Giuliano al servizio di un'idea e pare che Giuliano abbia dimostrato con i suoi atti e con il suo atteggiamento un profondo convincimento separatista. [...] sembra che al Giuliano furono consegnati i galloni di tenente colonnello comandante dell'Esercito volontario indipendentista siciliano. [...] L'occasione per la partecipazione alle attività separatiste dette, poi, al Giuliano la possibilità di esplicare, naturalmente a modo suo, una qualche attività di ingerenza politica. È risaputo infatti che, sciolto l'Esercito volontario indipendentista e rientrati i gregari di questo a far parte del Movimento indipendentista siciliano, il Giuliano si impegna ad appoggiare, alle elezioni politiche del 1946, il Movimento. Lo stesso atteggiamento egli assume in occasione delle elezioni regionali dl 20 aprile 1947. In questa occasione il Giuliano, e soprattutto la sua famiglia, profusero energie e risorse a favore del Movimento indipendentista siciliano democratico repubblicano (Misdr)". Continua la relazione: "Da questa sua multiforme posizione ed aiutato altresì dalla situazione locale e storica del tempo, Giuliano riuscì a fare, nella sua carriera criminosa, ben 430 vittime, sempre, purtroppo, protetto nella inaccessibilità del suo rifugio dalla non malcelata protezione della mafia". Assale le caserme delle forze dell'ordine e le sezioni comuniste, rapisce illustri personaggi politici, uccide mafiosi di rango, aggredisce colonne dell'esercito. Ma senza dimostrare una logica precisa. Attacca la polizia perché la ritiene repubblicana mentre talvolta risparmia i carabinieri, perché evocano in lui la monarchia, di cui si dichiarava confuso fautore.
Ed è in questo caotico agitarsi tra banditismo, legami mafiosi e pretenziosità politica che si inserisce la strage di Portella della Ginestra, strage condotta dagli uomini di Giuliano con l'abituale ferocia e per ragioni che oggi, a più di mezzo secolo di distanza, possono apparire, fuori dal clima politico del dopoguerra e lontani dall'humus della società siciliana dell'epoca, più che misteriose, banalmente incoerenti.
Le indagini, come abbiamo visto sopra, si indirizzarono subito verso il Turiddu di Montelepre, nel doppio ruolo di esecutore e di mandante della strage. Ma la questione si ingarbugliò fin dal principio. Nel rapporto della polizia, stilato poco dopo i fatti e inviato al Ministero dell'interno, si indica con buona probabilità in Giuliano l'autore materiale e non si esclude del tutto che "l'idea di un'azione criminosa contro i partiti della sinistra" fosse stata "ispirata e rafforzata specialmente da qualche elemento isolato in strette inconfessabili relazioni col bandito Giuliano". Nel suo rapporto, l'Arma dei Carabinieri individuò, invece, come possibili mandanti "elementi reazionari in combutta con mafia locale". Il ministro Mario Scelba, chiamato il giorno dopo gli avvenimenti a rispondere davanti all'Assemblea costituente dichiarò che allo stato dei fatti, cioè ventiquattrore dopo la sparatoria, non dovesse trattarsi di delitto politico. "Non può essere un delitto politico - spiegò con sillogismo lapalissiano - perché nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la manifestazione e la sua organizzazione". Socialisti e comunisti denunciarono con veemenza la tesi opposta, e cioè che i mandanti dovevano essere cercati tra gli agrari e i mafiosi, in combutta con ambienti politici della destra siciliana ed esponenti del separatismo.
In un memoriale fatto pervenire ai giudici della corte d'assise di Viterbo, dove nel 1950 verrà istruito il processo, Giuliano diede invece questa spiegazione: "I caporioni comunisti ad un certo punto diedero ordine ai contadini di far la spia dei banditi, evidentemente perché i banditi consistevano e consistono per loro la forza invisibile dei mafiosi [...]
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Contadini e braccianti alla festa
di Portella della Ginestra
incominciai a maturare il mio piano di punizione [...] quella festa la credetti opportuna perché credetti che in quella maniera potevano capitarci i principali responsabili cui miravo". In breve, Giuliano sentendo venir meno il consenso, o perlomeno il silenzio dei contadini, sui quali aveva costruito tutto il suo potere, decide una vendetta. Una vendetta che è anche politica, perché il successo elettorale del Blocco del popolo ha tolto voti al "suo" Movimento indipendentista.
Nei quasi tre anni intercorsi tra la strage e la morte, avvenuta a Castelvetrano il 5 luglio 1950 ad opera del cognato Gaspare Pisciotta in accordo con le forze dell'ordine, il bandito di Montelepre tornò più volte sull'argomento, con ulteriori memoriali o lettere inviate ai giornali. Ribadì di aver voluto dare una "lezione" ai comunisti, rei di volere un capovolgimento dei rapporti sociali in Sicilia. Disse inoltre che le vittime erano state un terribile incidente di percorso, perché ai suoi uomini aveva dato disposizione di sparare sopra la folla a scopo intimidatorio. Scagionò il ministro dell'interno Scelba il cui nome era stato fatto da alcuni imputati come mandante occulto. Ma due mesi prima di essere ucciso sembrò ricredersi e scrisse una lettera all'Unità dicendo che "Scelba vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell'incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita".
Il processo si intorbidò ulteriormente per la chiamata in corresponsabilità di esponenti politici siciliani. Antonino Terranova, detto il "Cacaova" fu uno degli imputati a tirare in ballo la figura dei mandanti. Disse di non ricordare più i loro nomi ma di aver saputo da Giuliano che se nelle elezioni politiche del 1948 la Democrazia Cristiana avesse vinto i banditi avrebbero ottenuto la libertà. Ma Giuliano ormai era passato a miglior vita e non poteva né confermare né smentire. Gaspare Pisciotta parlò di una lettera, una sorta di lasciapassare per Giuliano firmato di pugno da Scelba. Nel fantomatico scritto il ministro dell'interno avrebbe chiesto al bandito nientemeno che di aiutarlo a sconfiggere il comunismo sparando sulla folla inerme a Portella della Ginestra. La storia della lettera tenne banco a lungo - a un certo punto saltò fuori anche l'ipotesi che non fosse stata scritta dal ministro, bensì da un colonnello del corpo americano di occupazione in Sicilia -, e solo anni dopo si chiarì essere un clamoroso falso.
Il problema dei mandanti tornò d'attualità nel 1951 con una girandola di denunce da parte di esponenti comunisti regionali nei confronti di alcuni deputati monarchici e dell'ispettore di pubblica sicurezza Ettore Messana, quest'ultimo reo di aver avuto tra i suoi informatori anche uno dei banditi coinvolti nella sparatoria. E ancora denunce di giornalisti contro deputati, senatori e ministri per aver protetto in varie circostanze la banda di Giuliano.
Una cosa è certa. Pisciotta, su invito del suo avvocato, diede volutamente versioni confuse, contrastanti, intese a coinvolgere più gente possibile per scompaginare meglio le acque. Poco prima di essere ucciso nel carcere dell'Ucciardone a Palermo, il 10 febbraio 1954, con un caffè alla stricnina, Pisciotta aveva accennato a nuove rivelazioni. Nello specifico una serie di incontri tra il deputato democristiano Mattarella ed esponenti della mafia. Ma si apprestava a dire la verità, e perciò fu ucciso, o si trattava dell'ennesimo depistaggio, per cui il misterioso avvelenamento è da ascriversi a un regolamento di conti già stabilito in precedenza?
Tornando ai fatti di Portella della Ginestra, alla sparatoria e alla questione dei mandanti occulti, nel corso dei decenni hanno continuato ad accavallarsi ipotesi, congetture e ricostruzioni. Ognuna con le proprie verità, frutto di letture appassionate, talvolta parziali, talvolta interessate, dei fatti visti sopra. Tra i partecipanti alla manifestazione per il 1° maggio del 1947 c'è chi si ricordò di aver sentito alcuni giorni prima, in paese, mormorare una frase premonitrice: "Partirete cantando, tornerete piangendo". Altre ricostruzioni hanno ipotizzato che i colpi mortali siano stati esplosi da personaggi mescolati tra la folla e non dalle alture che circondano Portella. Altre ancora hanno parlato di una serie di esplosioni, che però non hanno mai trovato riscontro nei rilievi della polizia. Qualcuno ha messo in campo l'ipotesi che in realtà a sparare fosse stata la mafia per far ricadere la colpa su Giuliano, diventato ormai troppo ambizioso e ingestibile. Ma nei memoriali e nelle lettere scritte dal bandito il complotto mafioso non viene mai menzionato.
In particolare, ha trovato sostenitori la teoria dietrologica della strategia della tensione, alla quale in Italia spesso si fa appello in assenza di prove provate. Giuseppe Di Lello, già magistrato del pool antimafia di Palermo e poi eletto europarlamentare nelle file di Rifondazione Comunista, è uno dei tanti portavoce della teoria della strage di Stato. "Un
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Sulla via della manifestazione
finale giudiziario probabilmente non ci sarà mai - ha affermato in una recente intervista. Si può solo dire con certezza che è lo stesso finale che appartiene a tutte le stragi politiche italiane. Il processo di Viterbo, iniziato in primo grado all'inizio degli anni '50, portò solo alla condanna all'ergastolo degli esecutori materiali. La cosa più scandalosa di quel processo, avviato per legittima suspicione, fu che i giudici di Viterbo fecero di tutto per evitare l'individuazione dei mandanti. E ci riuscirono usando una tattica molto semplice: esclusero di netto il movente politico della strage". La strage, continua l'ex magistrato, fu voluta da monarchici, separatisti e democristiani per emarginare le sinistre dal potere: "Nelle elezioni regionali dell'aprile '47 la sinistra aveva raggiunto più del trenta per cento dei voti. Troppi per i poteri siciliani di allora. Dopo la strage di Portella viene formato un governo di centro-destra e il movimento contadino subirà un forte arretramento".
Non è tutto. Recentemente, un'avventurosa ricostruzione cinematografica ha tirato in ballo come mandanti, oltre agli immancabili servizi segreti americani, anche i vertici dello Stato italiano (De Gasperi e Andreotti) e alcune eminenti cariche ecclesiastiche, compreso Papa Pio XII. Tutti assieme avrebbero poi contribuito a depistare e a coprire gli esecutori materiali, individuati in un manipolo di misteriosi reduci di Salò prezzolati per l'occasione.
Ma abbandoniamo le fantasie e torniamo ai dati di fatto. Il processo di primo grado si concluse a Viterbo il 3 maggio 1952 con la condanna all'ergastolo di dodici imputati della banda di Giuliano, tra cui Gaspare Pisciotta e Vincenzo Badalamenti. La sentenza del 1960, quella definitiva, individuerà tra i moventi della strage compiuta da Salvatore Giuliano, più che la vendetta nei confronti dell'ambiente omertoso che sorreggeva le attività della banda (come era stato sostenuto nel memorandum), il desiderio di ristabilire la propria autorità compromessa dai risultati delle elezioni regionali del 20 aprile 1947 e l'ambizione di mettersi in un luce in una sorta di crociata antibolscevica, alla quale, secondo il bandito, sarebbe poi seguita un'amnistia generale.
A più di mezzo secolo di distanza, pur tra alcune zone d'ombra e le morti poco chiare di Giuliano e Pisciotta, i riscontri sugli avvenimenti sono quelli offerti dal processo. E le responsabilità del Turiddu di Montelepre sono evidenti. Resta aperto lo spazio per le congetture e i sospetti, ma in questo caso la storia smette di esercitare la sua funzione e preferisce trarsi da parte. A mo' di conclusione vogliamo citare un ultimo estratto dalla relazione della commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia, perché in poche righe riassume bene i complessi rapporti tra banditismo, mafia e politica. "Il fenomeno del banditismo in Sicilia, e specialmente quello che si riferisce alla banda Giuliano, continuò ad imperversare nella zona occidentale dell'isola fino al 1950 soprattutto per l'aiuto e con la copertura della mafia, la quale si avvalse del banditismo non solo per garantirsi i frutti della sua vita parassitaria, ma impiegò le stesse forze per strappare al potere pubblico le migliori condizioni per la sopravvivenza dei suoi interessi nella nuova sfera d'azione in direzione della città; [...] in obbedienza a questo chiaro disegno, la mafia abbandona il banditismo allorché si accorge che lo stesso può sicuramente nuocerle, se non altro per eccessiva scopertura; così si mette a disposizione della polizia per braccare, nei loro nascondigli, i singoli banditi; peraltro questa sua disponibilità per l'eliminazione del banditismo le avrebbe certamente procurato dei vantaggi". Se collusioni tra forze dell'ordine ed esponenti della malavita ci sono state, sono una dimostrazione non tanto di una strategia della tensione quanto semmai delle vie, non sempre cristalline, che le istituzioni hanno dovuto battere per conseguire un barlume di legalità nel difficile contesto siciliano.
BIBLIOGRAFIA
  • Le faide mafiose nei misteri della Sicilia, di Luca Tescaroli, Rubbettino, 2003
  • Da cosa nasce cosa. Storie della mafia dal 1943 a oggi, di Alfio Caruso, Longanesi, 2002
  • Mafia, politica e affari 1943-2000, di Nicola Tranfaglia, Laterza, 2001
  • Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti, di Giuseppe Casarrubea, Franco Angeli, 2001
  • Portella della Ginestra, di Angelo La Bella e Rosa Mecarolo, Testi Editore, 2003