Non si contano più le previsioni degli analisti che annunciano la prossima “morte del dollaro”. Tuttavia, dal 1944, la sua supremazia non è stata mai messa in discussione. Proviamo a scoprire il perché.
La supremazia del Dollaro
di MASSIMO IACOPI
L’asimmetria delle relazioni tra gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi dipende in primo luogo da un dato costante: l’economia americana è, fra tutte le economie occidentali, la meno dipendente dall’esterno, in virtù delle sue dimensioni e del suo modello di crescita incentrato sul mercato interno. Secondo la formula impiegata da L. Hahn nel 1967: “Gli americani non metteranno la museruola al loro cane (un prodotto interno lordi di circa 700 miliardi di dollari), per il fatto che esso agita la coda (un deficit da 3 a 5 miliardi di dollari) ”. Ciò è tanto più vero alla luce del fatto che i dirigenti americani, fino ad oggi, si sono sempre sentiti in dovere di assumere misure dettate da obiettivi economici interni, indipendentemente dalle loro ripercussioni sul resto del mondo.
L’asimmetria tuttavia riguarda anche l’evoluzione storica delle relazioni monetarie. L’oro ha perduto nel XX secolo il suo ruolo di moneta internazionale e oggi è una moneta nazionale – il dollaro USA – che riveste le funzioni di moneta internazionale: come unità di conto (la nostra fattura petrolifera si esprime in dollari), mezzo di pagamento e moneta di riserva (le banche centrali conservano sotto forma di dollari una grande parte delle loro riserve di cambio).
Tuttavia, fino a qui, nulla di particolarmente originale rispetto, ad esempio, al ruolo di “divisa chiave” che la lira sterlina ha rivestito fino al 1914: l’economia dominate, la cui moneta è accettata da tutti nel mondo, si trova nei due casi dispensata dal mantenere delle riserve di cambio in monete degli altri paesi.
Gli Stati Uniti però, dopo la Seconda guerra mondiale, rivestono in più e su una scala senza precedenti il ruolo di emettitore di moneta internazionale, in un ambiente in cui l’accrescimento delle riserve di cambio si basa sempre di più sulla creazione di dollari e non più sull’accumulazione dell’oro. Essi detengono, per questo fatto, il privilegio unico di poter, in caso di deficit estero, pagare con la propria moneta, senza dover prelevare dalle loro riserve e senza indebitarsi in divise straniere.

Da dove deriva la supremazia del dollaro?
E’ la
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John Maynard Keynes
guerra del 1914-18 a fare in un solo colpo degli USA il creditore dei loro alleati e del dollaro la moneta forte nei confronti di tutte le monete europee più o meno svalutate dall’inflazione. I capitali americani nel corso degli anni 1920 giocano un ruolo decisivo nel recupero economico della Germania. Questi nuovi dati, però, non cancellano totalmente l’influenza dell’esperienza e delle tradizioni finanziarie: la piazza finanziaria di Londra ritrova, e conserverà anche dopo la Seconda guerra mondiale, una parte del suo ruolo internazionale.
In ogni caso, il periodo fra le due guerre si caratterizza, da prima della crisi degli anni Trenta, con una instabilità finanziaria senza precedenti, legata agli spostamenti in tutti i sensi dei capitali a breve termine e alla concorrenza fra Londra, New York e Parigi per poterli attirare. Il ripudio del debito europeo nei confronti dell’America, a partire dal 1932, alle soglie della crisi, viene sentito come un vero shock; il dollaro, la cui parità non era mai variata dal 1792, viene preso nella morsa della speculazione e delle svalutazioni in serie delle altre monete, e si trova a sua volta massicciamente svalutato del 45% nel febbraio 1934.
Ci sarà pertanto bisogno di una nuova guerra e di un nuovo decisivo indebolimento delle economie europee per vedere imporsi, questa volta in maniera irresistibile, il primato del dollaro e le responsabilità mondiale degli USA.
Ben prima della fine del secondo conflitto mondiale, americani e inglesi si dedicano ai problemi monetari del futuro dopoguerra, preoccupati di non ripetere gli errori che hanno condotto al caos degli anni 1930. Per John Maynard Keynes, prestigioso consigliere del governo britannico, solo un sistema monetario mondiale radicalmente nuovo poteva rispondere alle necessità del momento: un sistema affrancato dalle incertezze della produzione dell’oro (l’oro, questa “reliquia barbarica…”), gestito da una istituzione finanziaria mondiale al sicuro da ogni dominazione nazionale. Il “piano Keynes” prevedeva pertanto, e in modo ardito, la creazione ex nihilo (dal nulla) di una moneta mondiale, il “bancor”. Il governo americano, da parte sua, d’accordo con gli Inglesi per organizzare il ritorno a un sistema di parità fisse e stabili, era ben deciso a non sacrificare il ruolo mondiale del dollaro al posto del “bancor” e a conservare sul funzionamento del sistema un potere di controllo, adeguato alla sua supremazia finanziaria: gli USA detenevano, da soli, quasi i tre quarti delle riserve d’oro mondiali e la quasi totalità delle risorse indispensabili per la sopravvivenza dei loro alleati.

Che cosa era il sistema di Bretton Woods
Quando nel luglio 1944 la piccola stazione di Bretton Woods nel New Hampshire accoglie le delegazioni di 43 governi alleati, i giochi sono in gran parte già fatti. Le discussioni, che si prolungano per diverse settimane a un ritmo spossante sotto la presidenza del Sottosegretario di Stato al Tesoro Harry White e di Keynes impegnano tuttavia l’avvenire su alcuni punti essenziali: la creazione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (FMI), i loro principi di funzionamento e la fissazione delle quote nazionali, assicurando comunque agli USA una larga preminenza.
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Una fase della conferenza di Bretton Woods
Nel complesso il significato storico degli accordi di Bretton Woods, conclusi in pieno periodo di guerra, è passato largamente inavvertito. Anche fra gli stessi partecipanti pochi hanno avuto coscienza che con la loro azione avevano consacrato la supremazia del dollaro. La dissimmetria tra il dollaro e tutte le altre monete risulta meno evidente dallo scritto dei testi che dall’effettivo stato dei fatti: nel mondo del 1945 la formula “il dollaro è altrettanto buono dell’oro” (as good as gold) risulta una evidenza.
Il sistema di Bretton Woods assicurerà, per circa un quarto di secolo, una stabilità paragonabile, fatte salve le dovute proporzioni, a quello del lingotto d’oro di riferimento. Ma tale sistema comporta una lacuna decisiva: nulla è previsto per aggiustare l’entità delle liquidità internazionali alle necessità dell’economia mondiale; solamente, per definizione, un deficit estero degli USA può alimentare la crescita dei mezzi di pagamento internazionali. Il deficit della bilancia dei pagamenti americana appare da allora come la condizione del funzionamento regolare del sistema, pur contribuendo a scalzare a lungo termine le basi sulle quali il sistema riposa. Di fatto, il periodo 1945-1971 sarà marcato da un ribaltamento progressivo, dalla “penuria” alla “super abbondanza” del dollaro sui mercati.
L’America, agli inizi, distribuisce generosamente: sono i tempi del Piano Marshall. Essa investe, però, sempre di più in tutto il mondo: nel Canada, in America latina, in Europa… senza dimenticare il peso sproporzionato (è un argomento di frizione costante fra il governo americano e i suoi alleati) delle spese militari, la cui crescita diviene esplosiva con la guerra del Vietnam. Così che, se il deficit americano diventa quasi permanente dagli anni 1950, la sua natura tende progressivamente a modificarsi e la sua ampiezza non smette di aumentare. In tal modo, il rapporto tra la riserva d’oro americana e le “riserve in dollari” detenute dalle banche straniere tenderà degradarsi in maniera preoccupante.
La convertibilità oro del dollaro, sempre più teorica, riposa ormai sulla “comprensione” dei partner degli USA, che debbono rinunciare a scambiare in oro i loro crediti in dollari, pur continuando essi stessi a cedere dell’oro (“pool dell’oro”) sul mercato libero per impedire che il suo corso non superi la parità ufficiale.
Come verso la fine degli anni 1920, la Francia del generale De Gaulle giocherà un ruolo diretto nella rottura del sistema, chiedendo a diverse riprese la conversione parziale in oro delle sue riserve in dollari.

Gli avvenimenti del 1971
Gli avvenimenti che conducono, nel 1971, al crollo del sistema di Bretton Woods, devono essere contestualizzati nella crisi profonda attraversata dagli Stati Uniti. Le decisioni monetarie non sono puramente tecniche: esse impegnano il prestigio nazionale. Più di ogni altra cosa, la parità di 35 dollari l’oncia d’oro, fissata nel 1934 dal presidente Roosevelt, è stata oggetto di “sacralizzazione”. Nel maggio 1971, per di più, gli USA si impegnano non apportare modifiche alla “parità storica” del dollaro.
Ma in agosto, in occasione di una riunione segreta a Camp David, Richard Nixon emana un insieme di provvedimenti destinati a porre gli USA in una posizione di forza nel negoziato monetario: decisione unilaterale di “sospendere” la convertibilità-oro del dollaro per le banche centrali e una sovrattassa del 10% su tutte le importazioni. In definitiva, viene chiesto all’Europa e al Giappone di sostenere le conseguenze del correzioni americane in campo economico! Henry Kissinger ha ricordato l’aria “esultante” di Nixon nel momento in cui annuncia questo “colpo di forza”, mentre al sottosegretario spetta il compito di giocare il ruolo della conciliazione presso i governi europei.
L’incontro Nixon-Pompidou alle Azzorre prepara il compromesso degli Accordi dello Smithsonian, conclusi a Washington il 18 dicembre 1971: gli Europei cantano vittoria perché hanno ottenuto una svalutazione simbolica del dollaro (l’oncia d’oro passa da 35 a 38 dollari), in contropartita della rivalutazione delle altre monete – come se la distinzione fra svalutazione dell’uno e rivalutazione degli altri avesse ancora un senso in un regime di parità-oro fittizie e nel quale non esiste più una moneta convertibile! Il governo degli USA ha comunque raggiunto il suo obiettivo: liberare da ogni vincolo il corso del dollaro, che evolverà ormai solo sulla base degli interessi americani.
La fine del sistema dei cambi fissi di Bretton Woods, però, poteva essere anche la fine del re-dollaro. In effetti e contro ogni attesa, il dollaro, staccato dall’oro e ben lungi dal rientrare nei ranghi, ha visto più che mai confermare il suo statuto di moneta internazionale.
Il
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Richard Nixon
trionfo del lingotto-dollaro di riferimento, succeduto dopo il 1971 al lingotto d’oro, si inscrive in un contesto di crescente integrazione finanziaria mondiale, di espansione dei crediti internazionali e di libertà dei movimenti di capitali che sfuggono a qualsiasi controllo da parte delle autorità monetarie nazionali. L’aumento della liquidità internazionale in dollari, che tende ad accelerare dalla fine degli anni ‘60 alla fine degli anni ‘70, non dipende più solamente dalla bilancia dei pagamenti americana: essa risponde anche, con una rimarchevole elasticità, attraverso il mercato dell’eurodollaro (operazioni in dollari di banche private non americane o di filiali all’estero di banche americane), alle necessità di finanziamento dei deficit esteri, gonfiati dai due shock petroliferi.
Si dimentica spesso che questa capacità di adattamento spontanea ha consentito di evitare una caduta del commercio mondiale, i cui effetti avrebbero potuto essere paragonabili alla catastrofe degli anni Trenta. La crescita esplosiva della liquidità ha avuto, per contro, degli effetti manifesti di squilibrio: un formidabile impulso all’inflazione mondiale, crescita vertiginosa dei tassi d’interesse, movimenti di capitali di una ampiezza senza precedenti, instabilità dei tassi di cambio (a medio termine e spesso da un giorno all’altro). Allo stesso tempo, il “privilegio esorbitante” che conferisce all’economia americana la posizione internazionale del dollaro non ha smesso di alimentare il risentimento contro gli Stati Uniti.

Le ragioni della supremazia
Dalla fine del sistema di Bretton Woods circa 40 anni fa non si contano più le previsioni degli analisti che “annunciano la morte del dollaro”, o, almeno, il suo declino ineluttabile a lungo termine. Tali predizioni, sono state costantemente smentite fino ad oggi, nonostante la comparsa di nuovi concorrenti, a cominciare dall’Euro.
Il dollaro rimane la moneta di fatturazione internazionale per i prodotti di base e per certi beni industriali (commesse aeronautiche). Esso interviene nell’85% delle transazioni sul mercato dei cambi (nel 2010) contro il 39% dell’Euro. In un buon numero di paesi la “dollarizzazione” assume forme diverse, dalla circolazione interna di tagli da 100 dollari (persino i rapitori pretendono il pagamento del riscatto in dollari!) fino “all’ancoraggio” formale o informale delle monete nazionali sui tassi di cambio del dollaro. Fatto questo che si aggiunge a un indiscusso primato del dollaro nelle riserve della Banche centrali: 62% nel 2009 (più del 1970) contro il 27% dell’Euro.
C’è di più: la crisi del 2008, nonostante la sua evidente origine americana, ha avuto paradossalmente come effetto diretto quello di rinforzare la posizione del dollaro, aumentando l’attrattiva di investimenti in buoni del Tesoro americani, considerati come beni rifugio per eccellenza.
La supremazia del dollaro si spiega con la potenza finanziaria degli USA, con una capitalizzazione di borsa che equilibra da sola quella delle altre sei paesi del G7 e dei mercato obbligazionari, ampi ed unificati, che garantiscono agli investitori stranieri investimenti liquidi e sicuri. Ma i fattori politici pesano ancora in maggior misura nella concorrenza fra Euro e dollaro: fino a quando la politica monetaria dell’Unione Europea mancherà di una vera guida (governance), lo stretto collegamento fra il Tesoro americano e la riserva federale rimarrà un vantaggio decisivo, in termine di reattività, di coerenza e di fiducia internazionale.
E tuttavia, queste spiegazione non apportano una totale convinzione. Esse non tengono conto delle fluttuazioni in corso del dollaro e specialmente la sua svalutazione recente di fronte all’euro (1€ = 0,83 $ nell’ottobre 2001, 1,60 nel luglio 2008, 1,30 nel maggio 2012): handicap notevole per una moneta di riserva. Questa instabilità va di pari passo con i deficit esterni cronici dell’economia americana, il cui finanziamento viene regolarmente assicurato attraverso flussi di capitali esteri, investimenti privati ed accumulazione di riserve di cambio da parte delle banche centrali. Da ciò la persistenza di “questo esorbitante privilegio” per gli USA di poter finanziare i loro deficit permanenti – grazie alla fiducia nel dollaro – a tassi nettamente inferiori al rendimento dei loro propri investimenti nel resto del mondo.

La questione dei deficit
Contrariamente al sistema messo in opera a Bretton Woods, non si tratta però più di un sistema formale, retto da accordi internazionali e associato all’obbligo di mantenere la convertibilità-oro della moneta. I deficit americani hanno cambiato di natura (essi non risultano più un flusso eccessivo di investimenti diretti o di spese militari, ma anche di deficit strutturale dei pagamenti correnti) e si sono ampliati in maniera impressionante: 6% del PIL alla vigilia dell’ultima crisi. La questione di una insolvibilità degli USA e di una svalutazione possibile del dollaro si trova permanentemente sul tappeto, apertamente o meno.
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In effetti, la sorte del dollaro dipende più che mai da tutti i paesi che accettano di detenere delle riserve monetarie in dollari (specialmente per l’ancoraggio della loro moneta: una vasta “zona dollaro” dai contorni sfumati e mobili); e i principali creditori degli USA oggi non sono solamente paesi tradizionalmente vicini dell’America, dal punto di vista politico e militare, come la Germania federale e il Giappone negli anni 1970, ma anche, da qualche anno, nuove potenze emergenti, a cominciare dalla Cina.
Ne consegue oggi una situazione inedita, paradossale sotto diversi aspetti. In primo luogo perché gli Stati Uniti assorbono una parte sproporzionata del risparmio mondiale e possono essere accusati di deviare a loro specifico vantaggio il risparmio dei paesi a debole bilancio. Allo stesso tempo, tenuto conto della rilevanza del loro debito con la Cina, essi si sono posti in una dipendenza durevole nei confronti del loro principale creditore, il cui sostegno si dimostra decisivo per fare fronte ad una crisi come quella del 2008-9. Ma, d’altra parte, e non costituisce il minor paradosso, la Cina non si trova in posizione di forza nei riguardi del suo debitore; se dovesse considerare di ricorrere alla “opzione di tipo nucleare” di una conversione delle sue riserve di cambio, che comporti la caduta del dollaro, le conseguenze per sé stessa (perdite enormi sui suoi averi in dollari, crollo delle esportazioni) sarebbero altrettanto drammatiche anche per gli USA e per gli altri paesi de resto del mondo.
Come diceva Keynes: “Quando voi dovete 1000 sterline al vostro creditore, voi siete alla sua mercé; quando voi gli dovete un milione di sterline, è invece lui alla vostra mercé”.

E domani forse lo yuan ?
Di fatto, l’avvenire rimane sempre molto aperto. Uno scenario catastrofico di crollo del dollaro, scatenato dal movimento incontrollato di capitali privati e che provocano una crisi mondiale di ampiezza imprevedibile, non può essere escluso a priori. Oggi, la maggior parte degli analisti prevedono piuttosto una evoluzione graduale verso un regime multipolare, nel quale il dollaro, l’euro, lo yuan avrebbero ciascuno la loro zona di influenza e dove la moneta americana resterebbe moneta di scambio internazionale, pur perdendo il suo carattere dominante e di supremazia. A meno che, come è avvenuto fino ad oggi, una volta ancora il dollaro riesca a sovvertire tutte le previsioni.
BIBLIOGRAFIA
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  • Wood, John H., A History of Central Banking in Great Britain and the United States – Cambridge, 2005
  • Antonio Pedalino, L'euro nel sistema monetario internazionale – Liguori, 2005
  • Mead W. Russell , Dio & dollaro. La Gran Bretagna, l'America e le origini del mondo moderno – Garzanti, 2009.