Il politico diventò, nel primo '900, un credibile interlocutore per il governo. Ma
il massimalismo prima e il fascismo poi non daranno tregua al fondatore del Psi
TURATI, IL SOCIALISTA
DAL VOLTO UMANO
di ALESSANDRO FRIGERIO
"Se Mussolini venisse a morire, e avessimo un ministero Turati, ritorneremmo pari pari all'antico. Motivo per cui bisogna che Mussolini goda di una salute di ferro, fino a quando non muoiano tutti i Turati". Il fascismo era appena salito al potere quando Salvemini esprimeva con intransigente livore la sua critica alla vecchia Italia e all'ala riformista del Psi.
Quando Filippo Turati muore a Parigi, giusto settant'anni fa, il 29 marzo 1932, Mussolini è ancora vivo e vegeto. Eppure, come da copione, le lodi nei confronti del vecchio socialista appena scomparso si sprecano, tutto l'antifascismo si stringe attorno alla figura carismatica e simbolica dell'oppositore in esilio.
Nondimeno, anche negli ultimi anni di vita, dopo la morte di Anna Kuliscioff e la rocambolesca fuga dall'Italia nel 1926, Filippo Turati aveva vissuto amaramente il ruolo di esule, schiacciato, così come era sempre vissuto in patria, tra reazione e massimalismo, nel ruolo di inascoltato paladino di quel socialismo riformista che si adoperava per l'emancipazione operaia lottando strenuamente contro l'intransigentismo rivoluzionario.
A Parigi aveva continuato lungo la sua posizione aventiniana e attendista, ancora fiduciosa in un gesto risolutivo della monarchia contro Mussolini. Le sue condizioni di salute erano però peggiorate. Ritornò l'antica nevrastenia che tanto l'aveva tormentato in gioventù. Pare sia stato sfiorato anche dall'idea del suicidio. Ma nonostante tutto, Turati aveva continuato la battaglia polemica antifascista sui giornali del fuoriuscitismo, su
Copertina dell'Avanti (1897)
bollettini e opuscoli, molti dei quali pubblicati a sue spese. Così come aveva dovuto continuare a difendersi dagli attacchi della sempre più sbandata pattuglia che faceva capo alla Concentrazione antifascista. Turati fu al solito fatto bersaglio dalle correnti estreme dell'antifascismo, prima per le sue critiche al bolscevismo, poi per l'opposizione a creare un 'Consiglio per un futuro governo dell'Italia' che non prevedesse la rappresentanza del partito liberale e di quello popolare. Riuscì anche a inimicarsi i repubblicani, rifiutando il proposito di cacciare il Papa e tutta l'istituzione ecclesiastica dalla futura Italia liberata. L'accusa di assopire lo spirito rivoluzionario delle masse, che tante volte gli era stata rivolta nel corso della sua esistenza, non gli avrebbe dato tregua fino alla fine.
Nato a Canzo, in provincia di Como, nel 1857 da una famiglia altoborghese e conservatrice, Filippo Turati aveva frequentato con Bissolati la facoltà di giurisprudenza dell'Università di Pavia. Dopo la laurea in legge nel 1877 a Bologna (con tesi in economia politica), si trasferì a Milano e praticò per un certo tempo l'avvocatura. Formatosi negli anni in cui arrivò al potere la sinistra costituzionale e durante i governi di Depretis e Cairoli, si avvicinò alla sinistra riformista, che nel capoluogo lombardo aveva il suo centro d'irradiazione.
Nel 1884 conobbe Anna Kuliscioff, russa, ebrea, bakuniniana, con cui si legò sentimentalmente e intellettualmente per il resto della vita. Pensatrice di grande spessore (alcuni sostengono superasse abbondantemente Turati quanto ad acume, sentimento e carattere) aveva studiato medicina in Svizzera per potersi dedicare alla cura dei bisognosi, ma aveva anche teorizzato le prime lotte per i diritti sociali delle donne. Fu lei a fargli apprezzare il marxismo ortodosso tedesco, anche se lui continuerà sempre a sentirsi debitore nei confronti del socialismo francese.
Turati si trascinò ancora per qualche anno nelle aule di tribunale. Difese soprattutto dirigenti operai incarcerati, ma il mestiere non faceva per lui. Si lamentava spesso degli scarsi profitti ma anche di un tipo di vita che non lo soddisfaceva e che lo disgustava. La teoria politica lo attirava sempre più. Del resto, alla fine degli anni '80 l'impianto del suo socialismo era ormai stabilito. Si trattava di metterlo al servizio della causa. Diceva che nel grande partito dell'avvenire "la democrazia rappresenta l'estrema destra e il socialismo l'estrema sinistra". Da questo momento la vita di Turati prende a intrecciarsi saldamente con le vicissitudini del socialismo italiano ed europeo.
Nell'estate del 1889 costituì la Lega socialista milanese, con lo scopo di porre fine all'isolamento della classe operaia e dar vita a un nuovo partito. Nel 1891 con la Kuliscioff fondò a Milano la rivista Critica sociale. L'intento era quello di creare una coscienza socialista all'interno del movimento operaio italiano, unificando le varie correnti che genericamente si rifacevano al socialismo ed emarginando l'ala rivoluzionaria e anarchica. Il socialismo scientifico tedesco e maggiori libertà politico-sindacali, in un quadro di democratizzazione dello stato borghese, erano i due principi fondamentali che dalle colonnne della rivista sarebbero stati trasposti l'anno successivo nel Partito dei lavoratori italiani (dal 1895 Partito socialista italiano).
La nascita ufficiale avvenne al congresso di Genova del 1892, sulla base di una precisa scelta riformista. Allontanata definitivamente l'ala anarchica e rivoluzionaria, che fino ad
Filippo Turati
allora aveva convissuto all'interno del movimento, il partito guidato da Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Andrea Costa era la risultante del socialismo milanese ed emiliano-romagnolo unito all'eperienza di base delle organizzazioni operaie di radice mazziniana. Per tutti, il riferimento ideologico era squisitamente marxista: Marx ed Engels come sommi numi tutelari; emancipazione degli operai, lotta al capitalismo, conquista del potere e socializzazione dei mezzi di produzione come obiettivi politici. Ma la via da seguire non prevedeva i passaggi rivoluzionari cari all'anarchismo e alla correnti più ortodosse del marxismo. La lotta politica avrebbe dovuto seguire il normale iter della competizione parlamentare all'interno del sistema di potere in vigore nell'Italia liberale.
Se la scelta del confronto politico parlamentare avvicinava il nascente Partito dei lavoratori italiani al modello del Partito socialdemocratico tedesco, a livello organizzativo Turati preferì non riferirsi al centralismo burocratico tedesco. Il congresso di Genova approvò l'dea di una struttura partitica 'leggera', decentrata e poco burocratizzata. In pratica, una sorta di sovrastruttura di coordinamento per il variegato mondo dell'associazionismo proletario (società di mutuo soccorso e leghe di resistenza) che potevano così conservare un'ampia autonomia di movimento. Ma il 'correntismo', espressione di libertà ma anche di conflittualità latente, sarà, come vedremo più avanti, il peccato originale del Psi per i successivi trent'anni.
Quattro anni dopo Genova, Turati fa il suo ingresso da deputato alla Camera. Sradicato dalla tranquilla e operosa vita milanese non riuscirà mai ad abituarsi alla vita del politico attivo. L'ambiente romano lo metteva in continua agitazione (fumava più di 40 tra sigari e sigarette al giorno, accompagnandole a quantità smodate di caffè). Lo conferma la Kuliscioff: "Mi pare che quando sei a Roma perdi assolutamente la tua orientazione mentale". Eppure l'ultimo decennio del secolo sarà quello in cui meglio dimostrerà la sua capacità politica e organizzativa. Tiene costanti rapporti con Engels, è designato rappresentante del proletariato italiano al congresso internazionale di Bruxelles, anche se ai grandi dibattiti teorici preferisce sempre il 'provincialismo' dell'attività quotidiana sul campo.
Nel 1898 viene condannato a dodici anni di reclusione in occasione dei 'moti del pane di Milano, repressi nel sangue da Bava Beccaris. L'accusa di sobillazione è assolutamente campata in aria. Turati si era infatti adoperato fino alla fine per scongiurare una rivolta i cui scopi gli parevano poco chiari: "Non fate dimostrazioni - disse -, che sarebbero pretesto ad una repressione feroce. Il Governo è pronto, noi no". Tra le imputazioni ci fu anche quella di aver scritto i versi del Canto dei lavoratori, l'inno del partito operaio: chi veniva colto a cantarlo in pubblico era condannato a 75 giorni di carcere (confiderà anni dopo a Treves: "Mi han fatto tanti processi per quei versi come eccitanti all'odio di classe. Dovevano invece condannarmi a morte per incitamento al delitto contro la poesia"). La detenzione durò fortunatamente pochi mesi. Il 4 giugno dell'anno successivo venne liberato grazia ad una amnistia.
Col nuovo secolo, scampato il pericolo della svolta reazionaria del governo Pelloux Turati incomincia a guardare verso la sinistra costituzionale. Non si tratta più di condurre l'opposizione da soli ma di costituire un fronte comune a sostegno di un governo illuminato. Dalle colonne di Critica sociale scrisse di una necessaria "egemonia temporanea" del nord ricco, industrializzato e riformista nei confronti di un Mezzogiorno culla della reazione. Il risultato fu che già nel 1901 le diverse anime del partito entrarono in conflitto sul tema del cosiddetto "ministerialismo". Infatti, Turati scelse in quell'anno di appoggiare l'operato del governo Zanardelli-Giolitti per provare a conquistare alla causa socialista l'ala più dinamica e progressista della borghesia. Ma su questa strada, che per forza di cose prevedeva una emancipazione delle masse operaie lenta e graduale, Turati incontrò una forte opposizione all'interno del partito. Su tutti, Arturo Labriola, che lo accusò di scarso interesse verso i problemi del Mezzogiorno. Ma anche Enrico Ferri, che senza accantonare la sua personale vocazione rivoluzionaria, mise le mani avanti dichiarando che l'appoggio al governo doveva essere valutato caso per caso. Per non parlare poi di Salvemini. Il professore napoletano, che a Turati era parso una specie di esaltato rivoluzionario, teorizzò che il Partito socialista doveva saper rispondere alle attese delle masse uscendo dalla legalità. Un'ulteriore stoccata, forse la più dolorosa, fu quella della sua compagna: "Mi dispiace - scrisse la Kuliscioff - ma è la tua malattia: ti metti sempre troppo dal punto di vista del governo, e qualche volta subisci l'illusione di far parte del medesimo. Questa aberrazione psichica non ti permette d'infilare la via giusta del ragionamento dal nostro punto di vista".
L'accusa che piovve addosso a Turati, e che negli ambienti della sinistra estrema diventerà una delle più infamanti, sarà quella di atteggiarsi a 'socialista riformista'. Nel
Filippo Turati. Alle sue spalle Rosselli
1902 durante l'infuocato Congresso di Imola, la posizione di Turati venne violentemente attaccata. Nonostante tutto riuscì a spuntarla, anche perché Giolitti gli era venuto incontro introducendo due importanti misure a favore dei lavoratori: la riduzione dell'orario e il divieto di lavoro ai minori di dodici anni. Ma pochi mesi dopo, l'azione repressiva del governo nei confronti di alcune manifestazioni nel meridione portò l'ala massimalista del partito al sopravvento, obbligando i vertici a togliere l'appoggio a quel Giolitti che in più occasioni Turati aveva definito "l'unico uomo di governo serio che abbia la camera".
La frattura sarà ricomposta nel 1908 quando al Congresso di Firenze l'ala massimalista di Ferri ne uscirà sconfitta. E Turati non fu il solo a gioirne. Giolitti, per dimostrare ai suoi avversari la bontà dell'apertura a sinistra, attestò la maturazione democratica delle classi lavoratrici, oltre che con la celebre frase "La libertà ha mandato in soffitta Carlo Marx", favorendo l'elezione a vicepresidente della Camera del decano dei deputati socialisti, Andrea Costa.
Ma il pendolo si sarebbe spostato ancora verso il massimalismo nel 1912. Merito, questa volta, di Benito Mussolini che, a nome della corrente rivoluzionaria presentò, durante il congresso di Reggio Emilia, una mozione che proclamava l'espulsione di Bonomi, Bissolati e Cabrini, 'colpevoli' di eccessive simpatie per la monarchia. Turati, forte della campagna antimilitarista in opposizione alla guerra italo-turca dell'anno precedente (1911) non fu coinvolto nella diatriba, e con atteggiamento piuttosto ambiguo, criticò anch'esso il riformismo 'alla Bissolati'.
Dopo le rivoltellate di Sarajevo, quando la tempesta della prima guerra mondiale si avvicinò anche al nostro paese, Turati svolse un'intensa campagna contro l'intervento. Ma a dichiarazione di guerra inoltrata, la parola d'ordine dei socialisti fu "non aderire, non sabotare". Turati e i suoi insistevano più sul "non sabotare", i massimalisti sul "non aderire". Il risultato fu che la parte più moderna e responsabile del partito, quella turatiana appunto, si schierò per la mobilitazione patriottica successiva alla rotta di Caporetto. Gli altri, fedeli a Serrati e alla logica del 'tanto peggio tanto meglio', imbaldanziti dalle notizie provenienti da Pietrogrado, scelsero la via dell'oltranzismo ispirata all'esempio dei 'compagni' russi.
A guerra conclusa Turati tentò ancora una volta di favorire i legami tra i partiti di democrazia laica e progressista e il movimento operaio, ma la frazione rivoluzionaria aveva di nuovo preso le redini e rifiutava in modo aprioristico qualsiasi alleanza. "Questo partito- scrisse amareggiato alla Kuliscioff - ha la vocazione alla solitudine e all'impotenza".
L'impotenza fu acuita dopo la scissione di Livorno, da cui nacque il Pci (1921). E mentre le squadracce fasciste imperversavano, e Mussolini gongolava nel vedere gli ex compagni di partito frazionarsi in entità ormai prive di consistenza politica ed elettorale, arrivò anche per Turati il decreto di espulsione dal suo partito. Era il fatidico 1922 e mancavano pochi mesi alla marcia su Roma. Assieme a Matteotti diede vita al Partito socialista unitario (1922). Come molti altri, Turati percepì con ritardo l'avvento del fascismo, ma tuttavia fu uno dei pochi disposti ad agire ("ogni quarto d'ora perduto è un tradimento"). E agire significava cercare anche un accordo in extremis con i popolari e Giolitti. Ma il vecchio statista, forse per un'antica ostilità con Sturzo, si tirò indietro all'ultimo momento. Dopo il delitto Matteotti (1924) anche Turati prese parte alla secessione dell'Aventino, ma ormai i giochi erano fatti e dopo la definitiva instaurazione della dittatura, avvenuta nel gennaio del 1925, non restò altra strada che quella dell'esilio. Nell'Italia fascista non c'era posto per un mite parlamentarista che all'arte del comando aveva sempre preferito la supremazia della ragione.
Del resto, la stoffa del leader combattivo Turati non l'aveva mai avuta. Con il consueto piglio critico la Kuliscioff gli scriveva: "Non hai il temperamento del condottiero e ti manca la prontezza". E lui, di rimando, gli replicava piccato: "Non ho mai aspirato ad essere capo di
Turati (secondo da sin.) a Parigi
chicchessia: mi ripugna e mi secca quando mi additano a tale". In vita sua aveva sempre apprezzato tutto ciò che poteva contribuire a ridurre le tensioni sociali e non a infuocarle, al punto che anche la sola parola 'sciopero generale' sembrava metterlo in agitazione. Solo negli ultimi anni di vita, nell'esilio parigino, ragionando sulla conquista del potere da parte del fascismo fece un'autocritica che dovette costargli molto: "La forza si vince con la forza. Quando la forza è tutta materiale, la resistenza dovrà pur essere della stessa natura. La non resistenza al male, se può avere un valore quando è suscettibile di provocare una reazione morale, diviene al contrario una vera complicità quando le circostanze e il carattere degli avversari rendono impossibile ogni reazione morale. Mossi da una concezione superiore della vita, noi abbiamo forse troppo disarmato le masse". Se queste parole debbano intendersi come una condanna del proprio operato politico non è dato sapere. Pessimista di natura ("Io sono profondamente convinto che la vita non ha scopo e si tratta di passarla, di ingannarci a noi stessi, nel modo più pulito possibile. Allora anche i più piccoli risultati sono, o sembrano sufficienti […] E non lagnarsi e non rammaricarsi. Tutto è lo stesso, poi"), Turati fu sempre uno spietato critico di sé stesso. Anna Kuliscioff una volta lo riproverò: "Sembri un gran signore che non sa vivere né godere […] Sei sempre malcontento di te, di quel che fai, e non dovresti fare". Non sbagliava. Ma quella 'debolezza', il dubbio metodico eletto a prassi politica, rimane, con la fede nel riscatto dei lavoratori e nel primato del parlamento, uno degli insegnamenti lasciati in eredità da Filippo Turati.
BIBLIOGRAFIA
  • Turati, di R. Monteleone, Torino, 1987
  • Turati, di F. Catalano, Milano, 1982
  • Turati e la Kuliscioff, di N. Valeri, Firenze, 1974
  • Esilio e morte di Filippo Turati, di A. Schiavi, Roma, 1956
  • Gli sviluppi ideologici del socialismo democratico in Italia,di L. Valiani, Roma, 1956
  • Giolitti e Turati. Un incontro mancato, di B. Vigezzi, Milano, 1976