CATTEDRA
ECONOMIA: OCCORRE PROVARE A CAMBIARE
di PAOLO MARIA DI STEFANO
Di una ripresa economica qualcuno afferma di scorgere all’orizzonte alcuni segni, per quanto deboli. E’ possibile che qualche miglioramento lo si intraveda: accade sempre, quando si mettono in atto azioni di promozione, anche disperate. Ma il vero problema è nel riconoscere l’obsolescenza dell’attuale sistema e la necessità di sostituirlo con un sistema diverso, in grado di ridurre al minimo i difetti dell’attuale. Noi continuiamo a ragionare secondo gli schemi usuali, e ci attacchiamo a presunti capisaldi del Paese e dei suoi imprenditori.

Una nota per tutti.

Almeno a giudicare da quanto è accaduto a settembre nel settore telefonico, in quello dell’acciaio e dei trasporti aerei, (e da quanto è accaduto in quasi tutti i settori merceologici) l’Italia ha ampiamente dimostrato di non possedere né imprenditori e neppure dirigenti di livello internazionale (salvo le eccezioni di rito). Non ha imprenditori degni di questo nome perché in tutti i modi possibili e immaginabili il rischio d’impresa è uscito dagli orizzonti di chi intraprende, e chi lo ha fatto negli ultimi decenni ha sempre operato considerando azienda e impresa come una vacca da mungere nel proprio interesse e, che è più grave, contando su finanziamenti più o meno a fondo perduto per speculare sui cambi. Fino all’entrata in vigore della moneta unica, almeno. Poco male, se avesse avuto a disposizione dirigenti degni del nome e della professione. Invece, anche di questi l’Italia è carente. Anche i dirigenti pensano che l’impresa sia una vacca da mungere e, soprattutto, anche i dirigenti sono convinti di saper tutto della gestione, di non aver nulla da imparare da nessuno. E non è un caso che, sempre salve pochissime eccezioni, nella mia professione di consulente di gestione non ho mai incontrato dirigenti italiani di imprese italiane disposti a mettersi in discussione ed a partecipare a corsi e lavori di aggiornamento e approfondimento. Salvo che non si trattasse di eventi di rilievo particolare per l’immagine. Vi siete accorti che, in Italia, la formazione e l’aggiornamento – quando se ne faceva – erano nella quasi totalità riservate agli operai, agli impiegati e talvolta persino ai quadri, e i dirigenti rarissimamente si degnavano di apparire in aula?

Necessaria premessa
. Coloro che parlano di economia – e sono troppi! – e, soprattutto, chi l’economia la insegna all’Università hanno una sorta di pietra miliare, di pilastro dal quale iniziare. E come se si trattasse di un diverso lapis niger, credono di leggere e di conseguenza proclamano che “i fattori della produzione sono terra, capitale e lavoro”. E da qui, senza alcuna verifica, neppure la più superficiale, (come è buona abitudine degli italiani certamente, degli altri, credo molto meno) si lanciano in un profluvio di parole dirette a disquisire sulla economia e sui rapporti tra questa e la politica e su tutti i corollari possibili ed immaginabili. E in questo sì che i nostri economisti rivelano più di un barlume di creatività, proprio di quella che manca in assoluto quando si tratta di curare o di innovare il sistema economico. Capita sempre più spesso di imbattersi in tentativi più o meno suggestivi e corretti di attribuire la qualifica di “fattore della produzione” a fenomeni i più diversi, sì che il numero si espande all’infinito, e sempre con qualche grano di attendibile verità.
Ad esempio, da qualcuno si annovera tra i “fattori di produzione” l’impresa, che certamente con la produzione ha a che fare, ma che, a mio parere, è soggetto attivo di essa, non uno dei suoi elementi essenziali. Significa che l’impresa utilizza tutti o parte dei fattori di produzione per perseguire la propria causa ultima che non è il puro e semplice dar vita ad un prodotto – bene o servizio che sia – bensì di realizzare profitto attraverso uno scambio avente per oggetto “quel determinato prodotto”. Dal che discendono conseguenze numerose e importanti, la prima delle quali è che non è la produzione a creare profitto, bensì lo scambio e dunque è (anche e soprattutto) degli elementi costitutivi di questo che un imprenditore deve occuparsi. E poi – seconda conseguenza – il profitto (che è il nome dell’utilità privata) non è il contrario dell’utilità sociale, bensì soltanto l’altro lato della medaglia chiamata appunto utilità. Il che mentre da un lato chiarifica quella “funzione sociale delle imprese” di cui in Italia si favoleggia a vuoto, dall’altro dovrebbe almeno ingenerare questo dubbio: se profitto e utilità sociale sono le due facce di una stessa medaglia, non è possibile che i principi e le tecniche della gestione d’impresa siano esattamente giustapponibili a quelle della gestione delle imprese e degli enti “pubblici” e “gestiti dal pubblico”?

Ma dicevamo che l’’impresa non è fattore della produzione ma soggetto che si attiva per utilizzare tutti o alcuni di essi al fine di creare utilità.
E poi, forse, è anche da ricordare che la produzione non è che uno degli aspetti dell’economia. Meglio: è così se alla produzione si guarda come processo realizzatore dei prodotti, ai quali occorre guardare come oggetto di quello scambio che crea utilità quando correttamente condotto. Diventa invece elemento essenziale al concetto stesso di economia quando a questa si guardi nel suo contenuto di ordine sociale della ricchezza, cioè di “leggi secondo le quali la ricchezza delle collettività di individui si forma, si trasforma, si accumula, si distribuisce, si consuma.” Ed è anche da ricordare quanto scriveva Marshall nel 1920: “L’economia è uno studio della ricchezza, e nello stesso tempo una parte dello studio dell’uomo”.

Allora intanto una considerazione: non è vero che “produzione” ed “economia” coincidono, e dunque mentre può apparire certo che alla produzione si possa guardare come ad un elemento essenziale dell’economia, questa ha evidentemente altri elementi che ne condizionano l’esistenza e le manifestazioni.
E bisogna individuarli con la massima precisione possibile, se anche soltanto si desidera analizzare il sistema economico per quello che è e individuarne i punti di forza e i punti di debolezza.
E prima di farlo, ricorderò che alla terra, al capitale ed al lavoro come “fattori di produzione” fu aggiunta a suo tempo l’organizzazione ed io propongo di aggiungere l’ulteriore elemento della comunicazione; e vorrei anche ricordare che nulla esiste che non sia qualificabile come prodotto, cioè come risultato di attività, non necessariamente ed esclusivamente umana e non necessariamente volontaria e consapevole.
Ma la cosa forse più rilevante è che non esiste nessun prodotto che non sia destinato ad uno scambio, e che il concetto di “scambio” assorbe ogni e qualsiasi utilizzo di ogni e qualsiasi risultato di ogni e qualsiasi attività, sia esso utilizzo effettuato dallo stesso produttore, sia esso effettuato da soggetti terzi.
Poiché di scambio si può correttamente parlare sia in senso interpersonale che in senso intrapersonale .
Con conseguenze di non secondo momento. Per esempio, la cancellazione della qualifica di “inutilità” che vada al di là di un senso assolutamente relativo: inutile è un prodotto che non è adatto alla soddisfazione di “quel determinato bisogno”. Anche il prodotto apparentemente più inutile della faccia della terra ha la capacità di soddisfare almeno il bisogno “creativo” di colui che lo ha prodotto .

Mi rendo conto che la sintesi può apparire difficile e almeno in parte anche confusa, ma non ho altra scelta qui e in questo momento Ma è possibile un’ulteriore precisazione: non di “fattori della produzione” si dovrebbe parlare, bensì di “fattori dello scambio". La produzione non indirizzata allo scambio – ammesso e non concesso che ne sia possibile l’ipotizzarla – sarebbe qualcosa (questa sì!) di assolutamente inutile. E questo fa sì che al centro dell’economia si possa (si debba?) porre lo scambio, e non più il prodotto che dello scambio null’altro è se non l’oggetto, ed alla cui definizione è estranea non soltanto la concretezza, ma anche la reale esistenza.

E dunque un dubbio (mio): non è possibile che “economia” e “scambio” siano sinonimi? Ne seguirebbe la possibilità di affermare che gestire gli scambi è la stessa cosa che gestire l’economia, e che una buona economia dipende da una buona gestione degli scambi.

Di fattori della produzione si è parlato – e non del tutto trasversalmente – in una sera di settembre nel corso della presentazione a cura della Tigulliana di un saggio di Alberto Mingardi in quell’intimo e suggestivo piazzale San Francesco in una Chiavari da sempre attenta alla cultura.
Un “fuori onda” ha avuto per me un interesse particolare. Alla mia affermazione, peraltro del tutto informale e casuale “nelle nostre università si insegna ancora un’economia vecchia e superata, tanto che si sostiene che i fattori della produzione sono terra, capitale e lavoro, quanto meno dimenticando l’organizzazione e la comunicazione”, è stata opposta una nota interessante. “Ma organizzazione e comunicazione sono un lavoro e senza lavoro la terra forse non è così interessante. E dunque, i fattori della produzione possono essere indicati come capitale e lavoro”. La mia risposta a caldo è stata “forse sì, ma questo implica uno sforzo di classificazione ulteriore per spiegare concetti e fenomeni non semplicissimi”.
E’ stata la prima volta che mi si è prospettata la possibilità di ragionare in termini di “riduzione” anziché di moltiplicazione dei fattori della produzione. E la cosa mi ha fatto pensare, anche perché se non erro chi mi ha lanciato la provocazione è stato l’Autore del saggio all’onore della cronaca, ponderoso quanto interessante lavoro in strenua difesa dell’economia libera, del liberismo e della intelligenza del danaro - perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio editore).

Intanto, ho messo del tempo a realizzare che i relatori ragionavano facendo coincidere il concetto di “economia” con quello di “capitalismo”. La conferma l’ho avuto solo a fine serata, quando l’alto dirigente al tavolo dei relatori ha fatto esplicito riferimento al capitalismo, tra l’altro rispondendo – solo in parte e a mio modo di vedere non correttamente – ad una mia domanda sul ciclo vitale del prodotto chiamato sistema economico attuale, ciclo a mio avviso nella fase discendente e dunque in uno stato tale da richiedere interventi “strutturali” (come oggi si dice), preceduti da un “disegno” di un sistema che, per esser diverso, sarebbe comunque nuovo.
Una mia carenza, senza dubbio, ma credo dovuta alla convinzione che parlare di economia, di mercato e di finanza non significasse assolutamente limitare il discorso al capitalismo e neppure all’economia libera o al libero mercato, come più comunemente si dice. Dal momento che si possono ipotizzare tipi diversi di economie e di sistemi economici, limitare il discorso alla sola economia capitalista è certamente fonte di equivoci.

Affermare che i fattori della produzione sono solo due, capitale e lavoro, conduce (tra l’altro) ad una conseguenza interessante.
Questa. Anche il capitale è frutto di lavoro e comunque di attività, e su questo non mi pare possano sussistere dubbi di sorta. In un modo o nell’altro, disporre di capitali significa che qualcuno – non necessariamente il capitalista del momento – quei capitali ha costruito e incrementato. Dunque, ha lavorato per poterne disporre e il disporne è a sua volta un lavoro.
E se così è, non vi pare che i fattori della produzione possano essere ridotti ad uno solo, il lavoro, appunto?
Se così fosse – se, cioè, al lavoro fosse possibile pensare come al solo vero “fattore della produzione” – bisognerebbe riconoscere al lavoro una funzione assolutamente preminente rispetto a qualsiasi altro elemento. Il capitale sarebbe di secondo momento, rispetto al lavoro, e così la natura (la quale, peraltro, dovrebbe trovare una sua collocazione a mezza via tra il capitale ed il lavoro), e così pure l’organizzazione e la comunicazione.
Il che porterebbe a cercare, individuare e realizzare una scala di priorità sia in termini di retribuzione che di sacrifici eventualmente da sostenersi per supplire le sempre possibili debolezze del sistema.

Forse non è così; forse è e rimane vero che i fattori della produzione sono natura, capitale, lavoro; e forse è anche vero che ad essi occorre aggiungere l’organizzazione e comunicazione, almeno quando si voglia distinguere tra “produzione” e “economia o sistema economico”, ma certamente al lavoro spetta quel “quid” in più che ne fa il fattore più importante in un mondo – quello dei fattori costitutivi della economia – nel quale la natura, il capitale, l’organizzazione e la comunicazione si dividono con esso l’essenzialità, nel senso che non si può parlare di economia, non esiste economia e non esiste sistema economico che non dipenda dalla contemporanea presenza di lavoro, natura, capitale, organizzazione e comunicazione.

Allora il problema dei sistemi economici sembra essere una questione di bilanciamento tra i diversi fattori – e su questo nessuno credo possa obbiettare – e dipende dalle priorità di volta in volta riconosciute ed applicate.

Così, il sistema capitalistico discende dalla priorità assoluta data al capitale, e dunque dalla prevalenza data alla sua sicurezza, al suo incremento, alla sua retribuzione. Che in virtù della natura egoistica dell’essere umano, tende ad essere perseguita a scapito della retribuzione degli altri fattori. E quando, pur di retribuire il capitale, di accrescerlo o comunque di metterlo al sicuro da ogni rischio, si sacrifica il fattore lavoro fino a livelli eccessivi, il sistema entra in crisi.
Che è quello che sta accadendo.
E allora ecco un possibile compito della Politica e dello Stato: controllare l’equilibrio dei fattori dell’economia tra di loro, evitando il verificarsi di disparità dovute ad eccessi di qualsiasi tipo. E questo può farsi controllando il peso di ciascun fattore e intervenendo sempre quando necessario con strumenti efficaci.

Il che intanto ci dice che ragionare in termini di esclusione dello Stato dal novero dei soggetti “imprenditori” e dal mondo della “economia libera” dovrebbe essere fatto con moltissima prudenza. Anche perché non si vede la ragione per la quale una persona dotata di capacità giuridica e di capacità di agire – quale incontestabilmente lo Stato è – dovrebbe non avere la pienezza del diritto e trovarsi nella posizione di un capitis deminutus proprio in quel “sistema economico” che, in fondo, è la manifestazione della vita quotidiana e futura dei cittadini, non solo, ma anche degli Stati stessi e delle genti tutte.

L’intervento dello Stato su tutti e su ciascuno degli elementi essenziali del sistema economico è dunque non soltanto opportuno, ma obbligato, e il punto di riferimento – la “causa” della sua azione (che è anche la “causa” della sua esistenza) – può esser descritta come “curare il miglior bilanciamento tra i fattori della economia”.

Ecco allora che – forse – una maggiore attenzione alla azione dei sindacati potrebbe non esser fuori luogo. Per ragioni anche valide, in Italia i sindacati hanno senza dubbio alcuno ecceduto in quella che loro chiamano “difesa dei lavoratori”, creando in fondo anomalie non da poco e comportamenti senza dubbio quanto meno rischiosi da parte di lavoratori iperprotetti e, forse, anche iperpagati. Con questo in più: che la qualifica di “lavoratore” è stata riservata agli operai, innanzitutto, e solo con qualche difficoltà più del necessario estesa agli impiegati e successivamente ai “quadri” ed ai dirigenti. In questo, avendo come punto di riferimento non “il lavoro”, ma quella parte del lavoro che più facilmente capitalisti e imprenditori pretendevano e pretendono di controllare, riuscendovi più che qualche volta.

E sempre forse, uno Stato che divenisse imprenditore e che, osservando tutte le “leggi” dell’economia si ponesse come concorrente ai privati nella aree di interesse, potrebbe contribuire all’equilibrio essenziale tra la produzione, la distribuzione, la comunicazione e l’utilizzo di almeno alcune categorie di prodotti. Penso ai libri di testo per le scuole, ad esempio, e dunque all’editoria scolastica: cosa vieta allo Stato di avere una sua editoria che faccia corretta concorrenza ai privati? Per non parlare, ovviamente, di tutti quei settori ai quali si riconosce la qualifica di “strategici” e nei quali, dunque, lasciar mano libera ai privati può non essere opportuno e neppure conveniente.

E per quale ragione lo Stato non deve avere sue proprie imprese di comunicazione? In questo settore, forse, si potrebbe porre un argine allo strapotere di tutte quelle imprese pubblicitarie che contribuiscono non soltanto a “produrre” una idea sopravvalutata di prodotto, ma anche a creare domanda eccessiva, con questo svolgendo azioni che turbano il mercato e la concorrenza. Ed anche al dilagare di tutta una serie di net work non soltanto diseducativi e quindi dannosi, ma anche probabilmente nati solo per beneficiare di quei finanziamenti che – chissà perché – sono a carico dello Stato e quindi dei cittadini.
E via di seguito.

Così ragionando, la crisi del sistema economico attuale troverebbe una via di uscita proprio nel proporre un nuovo e diverso equilibrio tra i fattori dell’economia, segnatamente tra capitale e lavoro. E la troverebbe anche introducendo nei mercato l’operatore “pubblico” al quale non è giusto né corretto guardare come ad un incapace in grado soltanto di succhiare soldi e di mettere i bastoni tra le ruote, anche per incompetenza, agli imprenditori privati.
A proposito dei quali, forse uno Stato attento potrebbe porre condizioni di “professionalità” nell’intrapresa, curando la preparazione specifica di chiunque voglia aprire una impresa e divenire operatore su di un qualsiasi mercato.

Che potrebbe essere una non malvagia indicazione per tentare di strutturare un’uscita dalla crisi attuale che è, ripeto, crisi di sistema.

E, anche, forse la situazione di oggi potrebbe indurre a ripensare al significato profondo di quell’aggettivo “libera” che tanto spesso si accompagna ad “economia”, insieme realizzando una delle più profonde e drammatiche ragioni del contendere in tutto il vasto mondo della “società” e dunque dell’intero genere umano.
La questione potrebbe trovare una soluzione, probabilmente affidabile, se si ricordasse che al concetto di libertà sempre di più si è andato associando quello di assenza di ogni e qualsiasi limite, tanto che la definizione stessa di libertà suona “stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza di ordine morale, sociale, politico; la situazione relativa all’assenza di costrizioni o limitazioni.” . Che in un certo senso, neppure troppo vago, riecheggia quella anarchia che si definisce come “stato di disordine politico dovuto a mancanza o debolezza di governo” o anche “dottrina sociale e politica che propugna l’abolizione, per mezzo di rivoluzioni, dell’ordine e della autorità costituita e accentrata, nonché di ogni forma di costrizione esterna” .

Forse non sarà superfluo notare come a proposito dell’economia si insegni –almeno nelle nostre scuole- che il diritto e la morale non hanno molto a che vedere con la scienza economica, che da essi prescinderebbe proprio in nome della libertà.
In altre parole: gli scambi economici e quindi il fenomeno che noi chiamiamo in senso stretto mercato se non limitato da elementi e principi di etica e di diritto si realizza nel modo migliore raggiungendo un equilibrio che, se turbato, tende a rinascere dalle proprie ceneri, come l’araba fenice.
E proprio come accade per l’araba fenice - della quale che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa - dell’esistenza di questo equilibrio auto rigenerantesi dubita fortemente la scuola di Keynes. Non perché non sia vero che, nei loro momenti migliori, i sistemi economici siano in equilibrio, bensì perché la storia sembra dimostrare che almeno per i turbamenti rilevanti, le cose vanno diversamente, e il sistema economico, anziché tornare alla posizione di equilibrio iniziale, tende ad allontanarsene sempre di più.

E noi stiamo attraversando un periodo di turbamenti inequivocabilmente epocali.

A questo si aggiunga che secondo la scuola di Keynes le posizioni di equilibrio di piena occupazione sono l’eccezione: la regola è rappresentata da posizioni di equilibrio con un grado più o meno rilevante di disoccupazione.
Allora il vero problema non è “la piena occupazione”, bensì la maggiore occupazione possibile, nel quadro del migliore equilibrio possibile tra i cinque fattori dell’economia.

I quali, tutti, sono condizionati dall’etica, dall’equità e dal diritto che si pongono come elementi essenziali di ogni e qualsiasi quadro di riferimento economico, sociale ed individuale.
1. Marco Fanno, Elementi di scienza economica, Lattes & C. Editori, Torino 1961, quattordicesima edizione.
2. Alfred Marshall, Principi di economia, traduzione italiana dell’ottava edizione inglese del 1920, nella 4a collana degli economisti, UTET
3. Qualcosa di più attorno al concetto di prodotto, di utilità e di scambio è nel mio Il marketing e la comunicazione nel terzo millennio, Franco Angeli, Milano 16° edizione 2004, pagg. 63 e segg.
4. In proposito, il mio Product management- dalla gestione del prodotto alla gestione dello scambio – Franco Angeli, Milano, 4° edizione 2010
5. Devoto- Oli Dizionario della lingua italiana. La voce prosegue indicando per il lemma “libertà” al negativo “atto o episodio che rivela mancanza di controllo o di ritegno riconducibile, nei rapporti sociali, o a eccessiva coincidenza o a mancanza di rispetto”. Lo Zingarelli specifica “condizione di chi (di ciò che) non subisce controlli, costrizioni, coercizioni, impedimenti e simili”.
6. Zingarelli e Devoto-Oli cit.