Nell'Ottocento le Potenze europee intensificano la colonizzazione dell'Africa
occupando zone ricche di risorse. Nel 1911 il nostro governo entra in lizza e…
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L'ITALIA CONQUISTA LA LIBIA…
E' SOLO UNO SCATOLONE DI SABBIA
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"Stato canaglia", covo di terroristi, prossimo bersaglio dell'ira americana. Con questi termini, dopo un relativo periodo di tranquillità e silenzio, la Libia è ritornata di prepotenza ad occupare le pagine dei giornali. Ma se le cronache dell'oggi, e in specie quelle filo americane, additano colpe e responsabilità del paese governato dal colonnello Gheddafi, non si può dimenticare che esso fu nel XX secolo vittima del colonialismo europeo. E questa esigenza della memoria riguarda in modo specifico l'Italia, perché proprio il nostro paese fu il protagonista di quest'aggressione nel 1911, imponendo un dominio che sarebbe terminato solo con la sconfitta nella seconda guerra mondiale.
La storia di questa conquista non inizia però nel 1911, con la dichiarazione di guerra che l'Italia invia all'Impero Ottomano che sulla Libia aveva un protettorato secolare, ma almeno una ventina d'anni prima, quando i territori al di là della Sicilia iniziano ad incuriosire e interessare sia i governanti italiani sia i nostri affaristi e gli esploratori.
Un primo inizio di questa guerra, o meglio una sua causa remota è certamente la conquista della Tunisia da parte della Francia, che nel 1881 impone il suo protettorato sul paese nordafricano che da tempo era nel mirino dell'Italia come possibile obbiettivo coloniale. Perduta questa possibilità, in un periodo in cui tutti gli Stati europei consideravano vitale assicurarsi un qualche dominio coloniale, l'Italia si vede costretta a ridefinire le proprie mire e a ricercare nuovi paesi da conquistare. In questa prospettiva si manifesta per la prima volta un certo interesse per la Libia, che all'epoca era divisa in due province chiamate Tripolitania e Cirenaica sottoposte al controllo dell'Impero Ottomano. Tra i primi italiani ad interessarsi di queste terre vi fu Mario Camperio, viaggiatore e uomo politico che, dopo aver fondato a Milano uno società di esplorazioni commerciali per l'Africa svolse una ricognizione nel paese, per capire quali possibilità commerciali esso offriva.
Mentre Camperio proponeva più che altro di aumentare gli scambi commerciali con la Libia, il governo italiano iniziò a tessere una complessa tela di rapporti diplomatici tali da consentirgli in un futuro prossimo di annettersi il paese senza resistenze da parte delle grandi potenze europee. Nel 1887 grazie alle intese per il rinnovo della Triplice Alleanza l'Italia ottenne il via libera dalla Germania, nel 1902 dall'Inghilterra, pochi anni dopo dalla Francia e dall'Impero Austro-Ungarico, fino al via libera accordato nel 1909 dalla Russia. Queste iniziative di carattere diplomatico vennero integrate con manovre di penetrazione in campo economico, soprattutto attraverso l'attività del Banco di Roma che a partire dal 1907 aveva istituito una succursale a Tripoli e che- sollecitato dal governo italiano- finanziava diverse imprese e attività commerciali in Libia.
Le manovre preparatorie del governo potevano contare sul largo sostegno accordato all'iniziativa coloniale dai giornalisti e dagli scrittori italiani dell'epoca, che in larga maggioranza vedevano di buon grado la conquista della Libia. A partire dal 1911 i principali quotidiani italiani scrissero sempre più spesso dei vantaggi che sarebbero potuti derivare all'Italia da questa conquista: possibilità di sviluppo economico che avrebbero arricchito gli stessi libici, di cui avrebbero beneficiato le classi popolari italiane che non sarebbero più state costrette all'emigrazione verso paesi stranieri. Tra l'altro molti giornalisti erano convinti che la conquista della Libia si sarebbe realizzata con grande facilità, sia per la debolezza (vera) dell'Impero Ottomano che proprio in quegli anni stava attraversando una fase di rivoluzione interna, sia per la presunta (e solo presunta) disponibilità dei locali verso gli italiani.
Tra i grandi sostenitori dell'impresa libica figurava in primissima fila Enrico Corradini, fondatore dell'associazione nazionalista italiana e autore del famoso volumetto "L'Ora di Tripoli" in cui si sostenevano le ragioni di una conquista italiana. Alle motivazioni tradizionali e più in voga, Corradini ne aggiunse altre di tipo spirituale, perché a suo parere la guerra avrebbe rafforzato la coscienza, la spirito nazionale e le qualità morali del popolo italiano. Per tutta la schiera dei sostenitori dell'impresa - dal Corriere della Sera alla Tribuna al Nuovo Giornale- la Libia era una terra ricca e rigogliosa che occorreva solo sfruttare meglio: tutti sognavano immense coltivazioni di grano e orzo, immense piantagioni di ulivi e aranci e "mandorle, peschi, fichi, albicocche, meli, peri, cocomeri, meloni, legumi….crescono spontanei dappertutto i vegetali destinati all'industria".
Pochi e poco ascoltati gli oppositori, che a livello di testate potevano contrae sull'autorità della Voce, dell'Unità di Salvemini e della Critica Sociale di Turati. A ragione - ma si sa che la voce di Cassandra non è mai ascoltata- essi mettevano in guardia contro le false illusioni sulle ricchezze minerarie e agricole della Libia, invitavano a valutare i costi dell'impresa e i turbamenti che questa avrebbe creato sullo scenario diplomatico internazionale.
Nonostante queste voci dissenzienti, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti portò avanti speditamente i suoi piani e nel settembre del 1911 decise che era ormai giunto il momento di attaccare. Il 28 settembre l'ambasciatore italiano a Costantinopoli consegnò un ultimatum al primo ministro turco, in cui si lamentava lo stato d'abbandono in cui versavano la Tripolitania e la Cirenaica e si denunciavano presunte angherie ed ostacoli subiti dalle iniziative commerciali italiane nella regione. Nonostante la particolare disponibilità dimostrata dall'Impero Ottomano a trattare per scongiurare il pericolo di un conflitto, il governo italiano rifiutò ogni proposta e il 29 settembre annunciò di "aver deciso di procedere all'occupazione militare della Tripolitania e della Cirenaica" e presentò la sua dichiarazione di guerra.
Il 3 ottobre ebbero inizio le operazioni militari, ad opera delle unità navali italiane che bombardarono la città di Tripoli. Dopo un'altra mattinata di bombardamenti contro le difese della città - attacchi a cui i vecchi armamenti turchi non potevano rispondere- sbarcarono a Tripoli circa duemila uomini comandati del capitano Umberto Cagni. I turchi avevano già abbandonato la città e l'occupazione si svolse perciò in un clima irreale, senza che i soldati italiani fossero costretti a sparare un solo colpo. Come disse Barzini, inviato del Corriere della Sera, "nessuno si aspettava che così presto si insediasse la sovranità dell'Italia"
In realtà sia i giornalisti sia le autorità politiche e militari, stavano sottovalutando i pericoli legati a questa conquista e si lasciavano prendere da un'eccessiva euforia per l'esito iniziale di questo scontro. Nessuno aveva ben compreso soprattutto la mentalità della popolazione autoctona, o meglio delle varie tribù che abitavano la regione. Nessuno, tranne don Leone Castellani, illustre islamista che già nel giugno del 1911 aveva messo in guardia il parlamento con un discorso lungimirante pronunciato alla Camera. Dopo aver sconsigliato l'invasione, ricordando che l'ostilità dei libici verso i Turchi non significava certo che i primi fossero disposti a sottomettersi agli italiani, Caetani passava a descrivere lo stile di vita della popolazione indigena. "La popolazione della Tripolitania per moltissima parte è nomade- spiegava Caetani - e non riconosce che in misura minima l'autorità dell'Impero Ottomano…Ora, se noi occupiamo Tripoli, dovremmo cominciare dallo stabilire l'ordine pubblico tra queste popolazioni, che vivono in un deserto sconfinato, bianco, giallastro, dove si muore di caldo, ove si soffoca dalla polvere, ove, per seguire molti fantasmi che mai potremmo raggiungere, faremmo morire i nostri soldati a centinaia e centinaia per malattie, senza vedere un solo nemico." I pericoli non finivano però qui, perché Ceatani spiegava ai parlamentari che le popolazioni della Tripolitania erano tra le più "fanatiche del mondo mussulmano" e che in quelle zone dimorava il "papa nero", il grande capo mussulmano capo della setta dei senussi. " E noi- concludeva Caetani - vogliamo proprio andare ad occupare queste terre eccitando contro il nostro dominio una delle più terribili forze del fanatismo musulmano, per cui ci troveremo in stato di continua guerra e quindi di spese senza fine?"
Forse le previsioni di don Caetani volgevano, almeno sul piano strettamente militare, troppo sul pessimistico, ma in effetti erano già un passo avanti rispetto alla bella favola della conquista senza colpo ferire.
Il 23 ottobre questa favola svanì infatti come neve al sole, quando i turchi guidarono un attacco contro molte postazioni italiane e molti autoctoni che si trovavano nella zona italiana insorsero contro le nostre truppe. Tutti, dai giornalisti ai soldati semplici ai generali furono sorpresi dall'attacco e tutti ugualmente furono vittima del panico e dello sgomento, che si rivelò più grande dell'entità stessa della rivolta. Panico e sorpresa che vengono ben descritte dal racconto di un giornalista italiano presente sulla scena: "una fiumana di popolo correva, ruzzolava, si rialzava. Le lacrime irrigavano i volti dallo spavento. Le porte si barricavano, le finestre si chiudevano frettolosamente."
In termini pratici, la rivolta non era stata altro che un debole tentativo di riconquista presto abbandonato e più che altro si era tramutata ben presto in una manifestazione d'insofferenza degli arabi verso il nuovo dominatore straniero. Ma in termini di immaginario, essa costituì un punto di svolta, l'abbandono delle favole belle per un crudo realismo esasperato dalla delusione che si prova per l'infrangersi di un sogno. Pertanto, la reazione italiana a questo tentativo fu spietata e cruenta oltremisura, avvallata dalle accuse di tradimento che erano lanciate contro la popolazione musulmana. La paura e la sorpresa fecero spesso perdere la lucidità ai soldati italiani, che si lasciarono andare a spietati episodi di rappresaglia, uccidendo civili e rivoltosi anche quando l'ordine era di catturarli ed esistevano concrete possibilità di arrestarli senza correre rischi. Un soldato italiano racconta ad esempio di come tra il 23 ottobre e il 30 dello stesso mese lui e i suoi compagni d'arme avessero ammazzato "500 arabi e più" e non si fa alcuno scrupolo nel riferire di omicidi compiuti contro civili inermi, ai quali "ci legammo mani e piedi, tutti in mucchio e una compagnia a colpi di fucile li ammazzava."
Se questi episodi erano il frutto di iniziative spontanee dei soldati semplici o per lo meno non decise dagli alti comandi, non meno feroce fu l'amministrazione della giustizia militare. Molti degli insorti infatti vennero processati e condannati a morte e tali condanne erano comminate spesso senza prove della colpevolezza e sempre senza nessun tribunale d'appello a cui ricorrere. Così, come ci riferisce l'inviato del Giornale d'Italia, era possibile che nel volgere di una giornata venisse iniziato e concluso un procedimento contro sei presunti rivoltosi e fosse loro comminata la condanna a morte. "Intanto nella stessa sera- ci spiega appunto il futuro gerarca fascista Federzoni - si radunava il tribunale di guerra per decidere la sorte dei sei imputati di omicidio premeditato ai danni dei nostri ufficiali e soldati. Il giudizio non fu lungo né difficile: tutti e sei gli imputati furono riconosciuti rei del delitto loro attribuito. Il tribunale pronunciò sentenza di mote per fucilazione." L'atteggiamento delle nostre truppe era d'altra parte largamente condiviso dall'opinione pubblica interna e dai giornalisti che si trovavano il Libia, i quali ritenevano che si dovessero direttamente passare sotto le armi i rivoltosi, senza neppure attendere il giudizio del tribunale, perché "a questi predoni senza pietà noi dobbiamo dare la caccia senza pietà."
Questi provvedimenti estremi vennero integrati con altri, certo meno violenti ma caratterizzati comunque da un sentimento di profondo disprezzo nei confronti degli arabi. In particolare, si decise di deportare in alcune isole italiane gli insorti arrestati che si riteneva eccessivo assassinare ma che potevano comunque costituire un pericolo per la neonata colonia italiana. La decisione venne presa dallo stesso Giolitti, che il 24 ottobre comunicò al comandante Caneva la sua decisione. "Quanto ai rivoltosi arrestati che non siano stati fucilati - scriveva il presidente del Consiglio- li manderò alle isole Tremiti dove ella può direttamente dirigerli avvisandomi partenza." Nei resoconti giornalistici su queste prime deportazioni di libici si avverte il cambiamento di atteggiamento nei confronti della popolazione autoctona. Se prima gli arabi erano uomini civili che solo attendevano d'essere liberati dal barbaro imperio turco, ora sono diventati "malinconici armenti….massa insensibile, gregge sotto la bufera". Il libico ribelle, che non ha saputo riconoscere la magnanimità italica prostrandosi a terra per venerarla, è ora diventato un nemico da combattere e per di più un nemico vendicativo, bestiale, irrazionale. Anche tra coloro che sono stati deportati alle Tremiti è evidente la presenza di questo spirito animalesco e riottoso, da cui "non trapela la riconoscenza ma un odio, un odio formidabile ed intenso, un odio selvaggio e assetato di ribellione." Gli italiani che li arrestano e li tengono rinchiusi in prigioni disumane hanno dunque ragione a temerli, perché questi prigionieri non sono uomini ma esseri bestiali che provengono dal cuore nero dell'africa. "La folla cenciosa preferisce abbeverarsi all'uso delle greggi e calma l'arsura con un'avidità bestiale….arabi e negri riparano entro le grotte e vi cercano il riposo e l'oblio nel sonno: il groviglio dei corpi e degli stracci che le carni ricoprono muove all'orrore, sembra che dal cuore roccioso dell'isola sia scaturita una nidiata di serpi."
Tale è l'animalità di questi prigionieri che nulla impedisce ai soldati italiani di trattarli come bestie, arrestandoli in massa e trasportandoli in condizioni disperate verso i luoghi di prigionia. Tra il 1911 e il 1912 vennero deportati in 3053, di cui 1080 furono inviati alle Tremiti, 834 a Ustica, 654 a Gaeta, 349 a Favignana e 136 a Ponza. Di questi arrestati,pochi alla fine del conflitto tornarono a casa, la maggioranza deceduta per malattie infettive come tifo e colera e per affezioni respiratorie dovute alla rigidità del clima invernale e alle condizioni di malnutrizione in cui erano tenuti.
Mentre gli italiani si impegnavano nel diffondere attraverso i propri resoconti giornalistici un immagine razzista dei libici, alcuni inviati di quotidiani stranieri tentavano di spostarsi sull'altro fronte, per andare a verificare personalmente se tanto turpi fossero i costumi degli arabi combattenti. Cosi fece ad esempio Alan Osteler, corrispondente del Daily Express che si fermò per sei settimane in Tripolitania, incontrando i capi delle truppe turche nelle quali erano inquadrati anche molti autoctoni fedeli al vecchio regime. Grazie ad Osteler, i turchi hanno l'occasione di smentire alcune maldicenze, come quelle che li vogliono mangiatori di topi e gente stremata dalla fame. "Quelle storie non sono vere- dice Nesciat bey comandante delle truppe turche- Non mangiamo topi. Non ho mai mangiato un topo nella mia vita e nemmeno una lucertola. Abbiamo abbondanza di cibo, grazie a Dio, benché ci mancano i dolciumi. Senza dubbio agli italiani piace descriverci come affamati nel deserto, ma prima che ci riducano a quella condizione devono riuscire a tagliare le nostre linee di comunicazione, e per ora non si sono spinti all'interno al di la della portata dei cannoni delle navi".
Alcuni importanti intellettuali arabi si impegnarono a loro volta per contrastare le falsità propagandistiche degli italiani, ma spesso proponendo uguali e speculari menzogne. Tra le voci più importanti e interessanti in campo turco vi fu certamente Macruf ar Rusafi, poeta iracheno e importante uomo politico. Macruf scrisse in occasione dell'aggressione italiana un canto di 55 versi, dove tale impresa era denunciata come un attacco di tutto l'occidente contro l'islam. Ecco come incitava il popolo arabo alla rivolta:
"Orsù! Levati e marcia in guerra, o Oriente: affidati alla spada e dimentica l'amore degli scritti!/Non ci inganni che si dica "un'epoca di progresso".Quel che dicono è invero la peggiore delle menzogne;/ Non li vedi tra l'Egitto e Tunisi violare con stragi e massacri il sacro suolo dell'Islam?/…Italiani, gente odiosa, non siete, o banda di impotenti, un popolo.
Le resistenze della popolazione musulmana si dimostrarono in effetti superiori alle attese e resero difficile alle truppe italiane espandere il proprio dominio oltre una fetta molto ristretta di territorio. A queste difficoltà l'Italia rispose con un atto diplomatico che molte diplomazie internazionali giudicarono sbagliato e grave, proclamando il 5 novembre 1911 la propria sovranità sulle province turche. L'atto diplomatico fu contestato non solo perché non rispecchiava una situazione di fatto ma perché da un lato dimostrava la volontà annessionista italiana e dall'altro rendeva inutile qualsiasi tentativo di accordo diplomatico con la Turchia. Nonostante un opinione pubblica europea sempre più avversa al tentativo di conquista- anche per la durezza delle repressioni attuate dopo il 23 ottobre- l'Italia cercò di rafforzare le proprie posizioni con un ulteriore dispiego di mezzi e di uomini. A dicembre si allargò l'area controllata intorno a Tripoli e nello stesso mese vennero conquistate alcune posizioni strategiche sul confine con la Tunisia, che impedivano il rifornimento alle truppe turche e arabe.
La vera svolta della guerra giunse però in primavera, quando le truppe italiane occuparono Rodi e quando alcuni siluranti entrarono nello stretto dei Dardanelli. A questo punto il governo turco, preoccupato più per l'incolumità del proprio territorio che per la situazione in Libia, avviò le trattative di pace. Con questa mossa e con la minaccia di intervenire nella guerra in atto nei Balcani l'Italia era riuscita a risolvere una situazione che sul campo di battaglia avrebbe potuto protrarsi per anni.
Nell'ottobre del 1912 venne firmato presso Ouchy, vicino a Losanna, un trattato di pace tra il governo italiano e il visir dell'Impero Ottomano. Maometto V riuscì comunque a presentare la rese in termini molto onorevoli, almeno agli occhi della popolazione libica. Nel suo proclama più che di un passaggio di consegne all'Italia si parlava di una "nuova e intera autonomia" per i popoli della Tripolitania e della Cirenaica. Se è vero che concretamente tutti i soldati della Turchia abbandonarono la Libia, da un punto di vista ideale il proclama di Maometto V costituì un punto di riferimento per i nazionalisti libici che continuarono la resistenza.
Dopo il trattato di pace con l'Impero Ottomano l'occupazione italiana proseguì a fasi alterne, intrecciandosi con gli avvenimenti della prima guerra mondiale che ne influenzarono parzialmente lo svolgimento. Dopo una serie di importanti conquiste ottenute nel 1913 e il 1914, durante la prima guerra mondiale la resistenza libica venne sostenuta da austriaci e tedeschi e costrinse gli italiani a ritirarsi verso l'interno, arroccandosi sulle località costiere in posizione difensiva. Il pericolo di perdere i possedimenti fu tale che gli italiani in Cirenaica preferirono accordarsi con la setta dei Senussi- quella già indicata da Caetani - che controllava ormai il territorio oltre la linea della costa.
Una svolta alla conquista italiana venne dopo la vittoria della prima guerra mondiale e soprattutto con l'avvento del fascismo, che mirava a conquistare tutto il territorio libico. A partire dal 1922 venne rioccupata un ampia fetta di territorio da Misurata a Sirte, dal Gebel a Gadames. Queste conquiste si completarono nel 1924 e tale rimase il dominio italiano fino al 1927, quando le operazioni ripresero sotto il comando del Generale Graziani. Rodolfo Graziani, nominato governatore della Cirenaica da Mussolini, divenne tristemente famoso per la durezza dei suoi metodi, che gli permisero di porre fine alla resistenza libica. Nel1931 egli fece catturare e uccidere il capo dei ribelli Omar el Mukhtar, ma questo successo fu reso possibile dai provvedimenti repressivi condotti contro l'intera popolazione del Gebel, la zona dove più forte era la resistenza libica: tutti gli abitanti vennero rinchiusi in campi di concentramento e l'area di transito con l'Egitto venne sbarrata con il reticolato.
Con questi infelici episodi si concludeva la conquista italiana della Libia, che solo dieci anni dopo sarebbe entrata in crisi per l'esito infausto del secondo conflitto mondiale
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BIBLIOGRAFIA- La Terra Promessa. La guerra italo - turca e la conquista della Libia, di P.Maltese, Milano, 1968
- La guerra di Libia 1911-1912, di S.Romano, Milano 1977
- Il socialismo italiano e la guerra di Libia, di Degli Innocenti, Roma, 1976
- Deportati libici della guerra 1911-1912, di C.Moffa, Rivista di Storia Cont., 1, 1990.
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