E-BOOK
di RENZO PATERNOSTER
LA POLITICA INTERNAZIONALE
DELLA SANTA SEDE
DALL'ETA' ANTICA A PIO X
IL PRIMO ALLEATO DELLA CHIESA:
COSTANTINO IL GRANDE
CAPITOLO PRIMO
La rivoluzione di Costantino
Possiamo tranquillamente riconoscere nell'Editto di Tessalonica, emanato dall'imperatore Teodosio - il 27 febbraio 380 - il primo esempio di collaborazione tra lo Stato e la Chiesa. Occorre appuntare che essa, fu solo una collaborazione religiosa: lo Stato e la Chiesa unirono le proprie forze e appuntarono le armi contro le numerose sette che pullulavano in seno alla cristianità (eretici, scismatici, apostati).
Già nel 313, con l'Editto di Milano, Costantino il Grande garantì la libertà religiosa per tutti i culti, tra cui il cristianesimo. Di fatto però il cristianesimo fu per Costantino la religione da sostenere come fattore di unità per il suo Impero:
Con un intento salutare e del tutto giusto abbiamo preso questa decisione:
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Uno dei primi Concilii
a nessuno deve essere rifiutata la libertà di seguire e scegliere l'osservanza e il culto dei Cristiani. A ciascuno deve anzi essere accordata la libertà di dare il suo cuore a quella religione, che egli stesso ritiene gli sia utile, perché la divinità gli voglia donare in tutto la sua abituale cura e benevolenza
. [In Eusebio, Hist. Eccl., X, 5: così cit. da Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo. Documenti della Chiesa nei primi otto secoli con introduzione e commento, Milano, 1990, p. 63].
Costantino riconobbe la sovranità della Chiesa di Roma, ma solo nell'ambito della sua potestà sacramentale e di magistero, rivendicando a sé il diritto di vigilanza e di controllo sulle attività di governo della Chiesa stessa. Al primo concilio ecumenico, tenutosi a Nicea nel 325, Costantino - in qualità di imperatore - ebbe una presidenza effettiva, almeno durante le riunioni nelle quali si trattarono argomenti che concernevano il governo della Chiesa.
Accanto al riconoscimento che garantiva la libertà di culto dei cristiani, Costantino esentò la Chiesa dal pagamento delle tasse, riconobbe ai vescovi il potere di emanare sentenze arbitrali valide come le sentenze dei tribunali civili, permise alla Chiesa di ricevere donazioni, riconobbe la festività della domenica. Importante fu anche la donazione alla Chiesa di un pezzo di terra situato all'interno delle mura di Roma, ricostruite nel 271 dall'imperatore Aureliano.

Tale terreno era stato un tempo proprietà della famiglia Laterani ed era, adesso, parte delle proprietà della moglie dell'imperatore Costantino. Su di esso sorgevano un palazzo mezzo diroccato, che fu ricostruito e diventò la residenza del pontefice; una scuola di cavalleria, che fu trasformata nella basilica lateranense.
L'imperatore intervenne anche contro la dottrina del presbitero alessandrino Ario, che rifiutava di credere compatibile con il monoteismo l'uguaglianza tra il Padre e il Figlio, e quindi negava la natura divina del Cristo. Costantino, allora, convocò (325) un concilio a Nicea per riconfermare lo stesso dogma nella formulazione che l'antagonista di Ario, Atanasio, ne aveva fatto. Così Costantino motivò la convocazione del concilio:
Poiché ho appreso, dalla prosperità dello Stato, la bontà della potenza divina, ho pensato che lo scopo di questo Stato dovesse essere anzitutto di conservare alla Chiesa cattolica, tra i popoli così felici, un'unica fede, una sincera carità, una comune adorazione di Dio onnipotente. Ma non poteva essere concluso nessun ordinamento immutabile e durevole senza che tutti, o almeno la maggior parte dei vescovi, si riunissero e prendessero una decisione; perciò molti vescovi si sono trovati insieme per trattare questo problema, e anch'io mi trovavo fra loro, come uno di voi, perché non potrei negare ciò che mi dà tanta gioia, l'essere vostro compagno nel servizio di Dio. [In Eusebio, Vita Cost. II, 17: così cit. da Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo. Documenti della Chiesa nei primi otto secoli con introduzione e commento, Milano, 1990, pp. 67-68].
A Nicea, non solo fu condannata la dottrina ariana, ma fu formulato il dogma della consustanzialità del Padre e del Figlio; fu in altre parole formulato quell'articolo di fede che poi - completato dai risultati del secondo concilio ecumenico di Costantinopoli, del 381 - rappresenterà il credo della Chiesa cristiana. Al concilio si formulò anche il cosiddetto simbolo niceo, ancora tutt'oggi usato dai cattolici: «Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili». Costantino fece in breve tempo della Chiesa cristiana la Chiesa imperiale.
Come mai l'imperatore romano, da un'iniziale diffidenza verso i cristiani, cambiò atteggiamento? Eusebio narrava che Costantino, alla vigilia della battaglia di ponte Milvio contro Massenzio, a seguito di una visione vide sul sole l'immagine di una croce con la scritta In hoc signo vinces (con questo vinci).

Egli si convinse così che la croce, simbolo del Cristo, fosse apportatrice di vittoria sui nemici: l'imperatore dette allora istruzioni affinché quel simbolo fosse riprodotto sulle sue insegne. Con la nuova bandiera, Costantino ebbe nel 312 quattro successive vittorie sull'esercito di Massenzio, impadronendosi dell'Italia. L'imperatore così, vincitore sul nemico grazie anche alla nuova bandiera, si schierò a favore della religione cristiana.
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Pianta e panoramica
dell’Abbazia di Cluny
Mettendo da parte la leggenda, la vera ragione di questo atto, va ricercata nel fatto che sia Costantino, sia i suoi consiglieri, erano giunti alla conclusione che in una società profondamente frammentata, soltanto i cristiani possedevano - con la loro religione - un'organizzazione efficiente e coerente. Questa alla lunga avrebbe potuto saldare insieme i vari elementi conflittuali del popolo, per trasformarli nella solidarietà nazionale tanto necessaria per portare avanti la politica dell'Impero (infatti in Italia, già nel IV secolo, la Chiesa aveva novanta sedi episcopali, per lo più concentrate nel Sud). Quindi, indubbiamente, quella di Costantino fu una vera e propria operazione politica in grande stile, che determinò la presa di possesso dell'intero apparato ecclesiastico da parte dello Stato.
A conforto di queste opinioni, narra Eusebio che l'imperatore avrebbe detto a commento del suo editto: «Io speravo che, se fossi riuscito a stabilire un accordo generale religioso, l'amministrazione degli affari pubblici se ne sarebbe avvantaggiata» [Cit. da Campolieti G., Le sante bugie, Bari, 1993, p. 117].
Costantino, con il passare degli anni, si convertì realmente alla religione dei cristiani, anzi s'innalzò ad inviato di Dio, poiché - come egli stesso disse - «Dio ha voluto i miei servigi e li ha giudicati adatti per mettere in pratica la sua decisione» [In Eusebio, Vita Cost. II, 17: così cit. da Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, pp. 66]. Anche se l'imperatore rimandò il suo battesimo al termine della sua vita, tutti i suoi discorsi ufficiali, i suoi editti e le sue azioni, ebbero toni sempre più cristiani a tal punto che, in un editto, rivolgendosi a Dio stesso, affermò:

«Sotto la tua guida ho iniziato e condotto a termine le mie imprese per la salvezza degli uomini, ho fatto portare davanti a me il Tuo santo Segno dappertutto e così ho condotto l'esercito a gloriose vittorie»; per questo, se la necessità lo imporrà «sono spinto a mettermi personalmente all'opera, per ricostruirti la Tua santissima casa, che gli uomini abominevoli ed empi hanno criminalmente devastato e profanato» [In Eusebio, Vita Cost. II, 17: così cit. da Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, pp. 66].
Così l'imperatore Costantino, tra il 326 e il 333, ordinò di livellare la zona in cui si pensava fosse sepolto Pietro, apostolo e primo vescovo della Chiesa di Roma. La zona, un colle e la vallata che dominava, costituivano nel I secolo d.C. Il Campus Vaticanus; qui furono giustiziati e inumati i primi martiri della Chiesa universale, tra cui l'apostolo Pietro. L'imperatore fece ricoprire la necropoli della valle; sulla piattaforma che se ne ottenne fece costruire, in verticale rispetto alla sepoltura apostolica, la prima basilica di san Pietro.
Finito il tempo dell'esistenza precaria, dell'incertezza, la Chiesa sviluppò la tendenza al compromesso con i poteri civili, fondando la propria identità nel rapporto con questo potere e con le classi dominanti. Infatti, essendo da poco diventata licita, essa, nonostante il pressante intervento nelle attività di governo, accettò di buon grado la protezione imperiale, giacché aveva bisogno di consolidare le sue giovani strutture, e tra queste l'Ufficio Pietrino.
Un altro atto dell'imperatore, che avrà conseguenze millenarie per la Chiesa di Roma, fu la decisione di trasferire la capitale imperiale. La divisione dell'Impero in due parti, una occidentale facente capo a Roma, l'altra orientale facente capo a Costantinopoli, mise in moto un processo inarrestabile di lacerazione dell'antica unità politica, favorendo una progressiva egemonia dei fattori ecclesiastici nella vita civile in Occidente. Tuttavia, la divisione dell'Impero portò poco a poco anche alla divisione del cristianesimo stesso: accanto ad un cristianesimo latino in Occidente, apparve un cristianesimo greco in Oriente. In questo modo, all'iniziale lacerazione dell'antica unità politica, si aggiunse una culturale, che più tardi sarà irrigidita da frontiere politiche.
Diverso fu l'aspetto che assunse il sistema dei rapporti fra Stato e Chiesa nell'Impero Bizantino. La Chiesa era qui completamente assorbita dall'impero; essa era concepita come un organo dello Stato, e quindi sottoposta direttamente alle cure dell'imperatore. Tutte le dispute teologiche non erano solo una questione interna della Chiesa; esse si vennero ad intrecciare con questioni politiche e divennero un fattore costante non solo nella storia della Chiesa, ma anche in quella dello Stato.

Tuttavia non sempre le mire dello Stato vennero a coincidere con quelle della Chiesa, alla collaborazione iniziale tra Stato e Chiesa, si sostituì spesso la lotta tra le due istituzioni. In definitiva, anche in questa regione lo Stato romano-bizantino trovò nella Chiesa cristiana una grande forza morale unificatrice, e questa trovò nello Stato un forte appoggio morale.
Costanzo, figlio
di Costantino,
imparò egregiamente
da suo padre
l'arte del comando
su tutto
Costanzo, figlio di Costantino, imparò egregiamente da suo padre l'arte del comando su tutto, fino all'inverosimile; anzi superò il padre in questo, fin tanto da dichiarare che la sua volontà doveva essere considerata canone della Chiesa. Questo atteggiamento dell'imperatore è confermato in una lettera che Costanzo inviò a Rimini, nel luglio del 359, dove erano riuniti più di quattrocento vescovi occidentali per discutere sul problema dell'episcopato e della Chiesa orientale. La lettera è il primo documento che testimonia il cesaro-papismo dell'imperatore. Questo documento inizia con il riconoscimento, da parte imperiale, che il «benessere di tutti i popoli in ogni luogo risiede nel giusto ordinamento degli affari della Chiesa, e difendere questi è compito dei vescovi»; tuttavia, continua Costanzo, «sui vescovi e le questioni della Chiesa orientale non avete assolutamente nulla da decidere a Rimini», poiché «nessuna decisione infatti può avere alcuna forza giuridica, se ad essa fin d'ora la Nostra volontà nega ogni importanza e ogni carattere d'obbligatorietà» [Cit. Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, pp. 78. La lettera di risposta dei vescovi a p. 101-103].
L'imperatore Teodosio, che si convertì al cristianesimo all'inizio del suo governo in seguito ad una grave malattia, fece di più: l'ortodossia cattolica diventò per sua volontà, dal 27 febbraio 380, "religione di Stato":
Vogliamo che tutti i popoli sottoposti al Nostro governo professino la religione che il Santo Apostolo Pietro ha trasmesso ai Romani, che viene annunziata fino ai nostri giorni come Lui l'annunziava, e che è seguita ancor oggi, come tutti sanno, dal pontefice Damaso e da Pietro vescovo di Alessandria, entrambi uomini di santità apostolica.

Secondo l'insegnamento degli Apostoli e del Vangelo, Noi crediamo tutti nella divinità unica del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in un'eguale maestà ed in una santa Trinità.
Noi ordiniamo che il nome di Cristiani cattolici spetti unicamente a coloro che consentono in questa fede, e che tutti gli altri insensati che se ne allontanano siano chiamati eretici e pazzi, e devono portare la vergogna dell'eresia. Le loro associazioni non potranno insignirsi del nome di Chiesa, essi saranno puniti prima dall'ira divina e poi dai provvedimenti che Noi prenderemo sotto l'aspirazione celeste
. [In Codex Justinianus I, cit. in Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, pp. 90].
A questo punto è caratteristico il convergere e il compenetrarsi degli interessi dell'Impero e del Papato e la loro cosciente collaborazione contro ogni pericolo che minacciasse l'ordine teocratico dello Stato, sia se venisse dagli avversari interni o esterni dell'imperatore, sia dalle forze disgregatrici delle eresie. Tuttavia, appena divenuta religione di Stato, l'imperatore subordinò a se il cristianesimo e ne fece cosa sua.
Gli imperatori eserciteranno sulla nuova religione ufficiale quelle stesse prerogative che, per legge, esercitavano prima sui culti pagani: lo jus sacrum non era altro che una parte dello jus pubblicum, quindi l'imperatore era considerato (o meglio si considerava) anche pontifex maximus, il supremo sacerdote della Chiesa nazionale.
Ispirato da Ambrogio, vescovo di Mediolanum (l'attuale Milano), l'imperatore rovesciò i termini delle persecuzioni, in precedenza inflitte dai pagani ai cristiani, e nel 391 impose la chiusura di tutti i templi non cristiani, decretando la messa al bando d'ogni forma di culto pagato.
Teodosio ebbe due atteggiamenti diversi di fronte alla Chiesa, a seconda che si trattasse di quella occidentale o di quella orientale.
Nei confronti della Chiesa occidentale, l'imperatore restò fedele alla politica che Costantino aveva applicato con l'editto di Milano; quindi riconobbe al papa l'esercizio della potestà sacramentale e il potere spirituale nell'insegnamento della verità della fede cattolica. (Non fu considerato un affronto da Teodosio il richiamo che il vescovo Ambrogio gli fece in seguito alla strage di Tessalonica; anzi l'imperatore accettò la penitenza pubblica che il vescovo di Mediolanum gli impose).
In Oriente, invece, l'imperatore pur decretando che prima del vescovo di Costantinopoli fosse data preminenza al vescovo di Roma, si ritenne la fonte unica e suprema del diritto della Chiesa universale. In questo modo egli giudicò suo potere intervenire d'autorità nelle nomine dei vescovi, convocare concili ecumenici, legiferare anche su materie prettamente ecclesiastiche, convocare i tribunali ecclesiastici sotto forma di sinodi per risolvere determinate controversie.

Già agli inizi del IV secolo, la Chiesa aveva fissato in tre grandi regole i princìpi fondamentali della propria organizzazione: la distinzione e la relativa separazione del
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Carlo Magno
clero e dei laici; la superiorità dei vescovi; l'esonero delle donne dal sacerdozio e dalle attività superiori, come l'insegnamento e l'amministrazione dei sacramenti. Nonostante questi progressi, si rendeva necessario organizzare ancora meglio la Chiesa: essa lo fece attraverso un processo d'imitazione dei modelli giuridici-amministrativi imperiali.
La creazione di un "tribunale" per l'arbitrato episcopale, sulle questioni che ricadevano specificatamente nelle materie della fede e dei dogmi ecclesiastici; la creazione di una cancelleria e di un archivio per i documenti emanati e ricevuti dalla sede di Roma; furono questi i primi aspetti dello sviluppo della Chiesa come istituzione. Su imitazione dei "decreti imperiali", il vescovo di Roma iniziò ad usare la cosiddetta decretale papale, strumento stilato sotto forma di "lettera" in cui si davano precise istruzioni su determinate controversie in materia di fede, dogmi e disciplina ecclesiastica; tale lettera aveva validità giuridica definitiva. Cosa ancor più importante è che la decretale, pur rivolgendosi ad un singolo caso sottoposto all'attenzione del vescovo di Roma, assumeva validità universale per tutte le sedi della Chiesa cristiana.
Abbiamo già visto nel capitolo precedente che la più antica decretale papale a nostra conoscenza, fu quella scritta l'11 febbraio 385 da papa Siricio al vescovo Imerio di Tarragona. L'uso delle decretali fu enormemente ampliato dal vescovo di Roma Innocenzo I (401-417). Importante è la decretale scritta al vescovo Vitricio di Rouen, in cui Innocenzo sosteneva il diritto del vescovo di Roma di deliberare circa le controversie riguardanti questioni maggiori: in pratica nel documento papale si proclamava la funzione superiore che il vescovo di Roma aveva su tutta la Chiesa.
La sostanza di tutte le decretali, ha scritto Walter Ullmann, «era che, secondo i princìpi papali, esse rendevano esplicito e applicabile alla condizione umana e terrena ciò che era stato stabilito dalla divinità. Il diritto era emanazione della divinità, e poteva essere reso noto all'umanità solo per il tramite di organi qualificati», il carattere vincolante di tale diritto andava ricercato «non nel consenso degli uomini o da considerazioni storicamente determinanti, ma dalla fede dei cristiani nel governo dell'universo stabilito dalla divinità» [Ullmann W., Il papato nel Medioevo, Roma-Bari, 1987, p.16]. E' chiaro dunque che per tenere unita la Chiesa tutta, l'organizzazione andava indirizzata verso un modello di monarchia assoluta (d'origine divina) al cui trono avrebbe dovuto sedere un uomo che, pur nell'indegnità personale, è in ogni caso il successore di colui che aveva ricevuto il potere di legare e sciogliere dal Cristo.

Aurelio Agostino di Tagaste
La dissoluzione dell'Impero d'Occidente, e l'entrata in Roma il 24 agosto del 410 di Alarico, capo dei Goti, portò i cristiani a dubitare dell'esistenza di Dio e della protezione di Pietro sul gregge e sulla Città eterna. In questo clima di disperazione Aurelio Agostino di Tagaste, poi vescovo di Ippona dal 396, concepì l'opera De civitate Dei (La città di Dio). L'importanza di questa poderosa opera non va trascurata, in quanto essa costituisce una pietra miliare del pensiero cristiano politico-religioso, che influenzerà in modo determinate la storia dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato.
Nella sua opera Agostino distingue una città terrena e una città celeste, abitata rispettivamente da chi vive «secondo l'uomo» e da chi vive «secondo Dio». La città terrena, che nel disprezzo di Dio è mossa dall'amore di sé, discende da Caino e corrisponde al mondo storico dello Stato, del suo potere e della società costituita da uomini cattivi ed egoisti per niente timorosi di Dio. La città celeste, che nel disprezzo di sé è mossa dall'amore di Dio, è quella che discende da Abele che, come un pellegrino, non edifica comunità ed aspetta in premio la città costruita dai santi.
Per Agostino lo Stato non rappresenta la città terrena, né la Chiesa rappresenta immediatamente la città celeste; sia lo Stato sia la Chiesa non sono altro che le fasi delle due città. Infatti, il santo identifica la città celeste con la Chiesa tradizionalmente concepita come realtà escatologica, in altre parole destinata a realizzarsi pienamente solo alla fine dei tempi.
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Costantino il Grande
Partendo da questi concetti, Agostino affermò che, anche se Roma è caduta in mano ai barbari, il giusto sa che con la sua fede può sfidare tutte le avversità. L'uomo cattivo può conquistare e togliere agli uomini timorosi di Dio solo la città terrena, ma non quella celeste; perché la vera fede in Dio non potrà mai perire anche se le strutture dell'Impero sono destinate a crollare. La Chiesa ha il compito di promuovere la città di Dio; lo Stato formato da uomini giusti, non solo non deve ostacolarla in questo grande compito, anzi deve aiutarla. In definitiva, nella Civitas Dei si trovano teorizzati i princìpi teocratici della Chiesa considerata superiore a qualsiasi realtà terrena. La dottrina ideologica della Chiesa nei secoli a venire, si nutrirà dei concetti espressi da Agostino per promuovere una concezione teocratica dove il pontefice romano, quale vicario del Cristo, presiede su tutto e su tutti.
All'Impero d'Occidente successe lo Stato; quest'ultimo perdeva il carattere d'entità assoluta, assumendo il carattere di una comunità di uomini retta da un potere unico. Questo non poteva che avvantaggiare la Chiesa. L'Impero si era dimostrato fallibile e la Chiesa, anche se si era appoggiata ed aveva collaborato a quest'autorità civile, restava l'unica istituzione che continuava ad esistere. Quindi solo essa poteva essere l'erede legittima del dissolto Impero. Non solo. Poiché la Chiesa deriva direttamente da Dio, e da Dio riceve ninfa vitale, solo essa può essere considerata l'unica legittima monarchia universale. Il suo capo, il Cristo, è quindi la sola suprema autorità universale. Ma il Cristo ha delegato il suo potere sulla terra al suo vicario, il pontefice romano, che esercita questo potere in sua vece; quindi solo il papa è l'unica e suprema autorità universale sulla terra. E' questa la teoria che prima legittima la teocrazia e poi la ierocrazia papale.

Il potere del papa
Venuta meno l'unità imperiale romana, le circostanze storiche che si determinarono, contribuirono ad agevolare la figura politica del Papato. La carenza in Italia di un'autorità militare e civile, in grado di fronteggiare e contenere le orde barbariche che premevano su Roma, costrinse papa Leone I Magno - che già aveva assunto il titolo pagano abbandonato dagli imperatori di pontifex maximus - a prendere decisioni anche di carattere politico. Papa Leone, infatti, assieme al console imperiale Avieno e al prefetto del pretorio Trigenzio, poté salvare Roma e i romani dagli Unni di Attila (452). Il pontefice partecipò all'ambasciata romana che a Peschiera, nel 452, dissuase Attila dal continuare la sua avanzata verso Roma. Appena tre anni dopo, Leone non riuscì a fare lo stesso con Genserico, che nel 455, con i suoi Vandali, entrò in Roma saccheggiandola, pur risparmiando, grazie all'implorazione di Leone, ogni sorta di crudeltà alla popolazione. Da allora l'autorità pontificia apparve anche come un servizio reso alla comunità e il suo potere politico fu considerato come ufficio di giustizia e di difesa per le popolazioni indifese.
A partire da Leone I i pontefici cominciarono così ad esercitare anche la sovranità territoriale effettiva su quello che poi divenne lo Stato della Chiesa. Non solo, le offerte del mondo cattolico alle tombe di Pietro e Paolo, le donazioni dei privati, le concessioni imperiali e il tipo d'economia praticato dalla sede pontificia, fecero in breve tempo della Chiesa di Roma una delle istituzioni più ricche ed influenti dell'epoca. Alla fine del V secolo, il Papato disponeva di rendite e proprietà attorno a Roma, in Sardegna, in Corsica, in Sicilia, nella Gallia, in Dalmazia, in Africa, in Egitto, in Siria.
Venuta meno l'unità imperiale romana, la dottrina del cattolicesimo s'incontrò anche con le culture delle popolazioni barbare: nacque così la cristianità occidentale. Il problema che subito si presentò, fu quello di determinare le sfere di competenza dello Stato e della Chiesa. In questo periodo salirà al trono di Pietro l'africano Gelasio, un personaggio che contribuirà alla definizione della dottrina teocratica tanto cara ai pontefici che si succederanno nel Medioevo, e che sarà fatta propria, nella nostra epoca, da Leone XIII.

Se papa Siricio decretò l'identità del pontefice romano con Pietro, papa Gelasio formulò in maniera lucida la teoria dei due poteri - quello sacrale e quello regale - entrambi d'origine, ma il primo superiore al secondo. L'africano Gelasio, non ancora vescovo di Roma, aveva già scritto nel 488 un trattato dove presentava l'ideale del buon
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San Damaso papa
imperatore, che se voleva essere un bravo sovrano cattolico, non doveva cedere a pretese contrarie alla Chiesa, in quanto «se egli non autorizza ciò che offende Dio, questo gioverà a lui e a tutto lo Stato, alla sua salvezza e al suo regno» [Gelasius, Epistulae, in Thiel A., Epistulae Romanorum Pontificum, Braunsberg 1868: così cit. da Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, p. 156].
Nel 494, papa Gelasio, nell'epistola Ad imperatorem Anastasium, formulò una delle più antiche teorie che legittimavano il potere temporale e, nello stesso tempo, delimitavano l'invadenza dello Stato nel settore spirituale:
[...] principalmente governa questo mondo: il potere sacro dei vescovi e quello temporale dei re. Di questi due poteri il ministero dei vescovi ha maggior peso, perché essi devono render conto al tribunale di Dio anche per i re dei mortali. [...]
Ti è pure noto che per partecipare ai divini misteri hai bisogno di adempiere ai precetti della religione, che a te non è lecito di stabilire, perché in tali cose dipendi dal giudizio dei ministri del santuario che non puoi piegare a compiere il volere tuo. [...]. Nelle cose temporali, invece, riguardanti lo Stato, anche i preposti al culto di Dio prestano obbedienza alle tue leggi, perché sanno che per divino potere ti fu data la potestà imperiale affinché nelle cose temporali ogni resistenza venisse esclusa. [...].
E se conviene che tutti i fedeli si sottomettano ai vescovi, i quali rettamente dispensano le cose sacre, quanto maggiormente è necessario procedere con il capo di quella sede che Dio ha preposto a tutte le altre e dalla Chiesa universale fu sempre venerata con devozione filiale
[Il documento di Gelasio si può leggere in Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, pp. 176-179].
Conseguenza ovvia della teoria di Gelasio, detta anche teoria della divisio gladiorum (ossia della divisione delle due spade, dei due poteri in ogni caso non contrapposti), fu che i detentori dei massimi poteri sulla terra erano due: l'imperatore, espressione della regalis potestas; il papa, espressione della sacrata pontificum auctoritas.

Nella lettera scritta da Gelasio all'imperatore Anastasio è presente una terminologia già collaudata dal diritto pubblico romano: l'ufficio laico era indicato con il termine potestas (con valore eminentemente giuridico), mentre l'ufficio ecclesiastico era indicato con il termine auctoritas (con valore tipicamente morale).
Esprimendo l'importante formula della separazione fra l'autorità spirituale e il potere temporale, Gelasio affidava al potere religioso una funzione più alta di quella civile, giacché solo la Chiesa (e per essa il pontefice, come vertice massimo d'ogni potere religioso), proprio perché considerata entità in sé assorbente ogni valore terreno, poteva legittimare il potere concesso al sovrano. Così poiché, per usare le stesse parole di Gelasio, «nessuno può, in alcuna occasione e per alcun pretesto umano, pensare di porsi al di sopra dell'ufficio di colui che per ordine di Cristo è stato posto al di sopra di tutti e di ciascuno e che la Chiesa universale ha sempre riconosciuto come guida», l'imperatore non poteva giudicare nemmeno i sottoposti al papa, i vescovi, perché essi sottostavano alla sola giurisdizione pontificia, in quanto uomini consacrati della Chiesa. In questo modo il pontefice Gelasio anticipò il principio del beneficio ecclesiastico. Di fatto, però, la teoria gelasiana non cambiò il sistema dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Infatti, nelle attività conciliari e giurisdizionali della Chiesa, l'interferenza dell'imperatore non venne a mancare; il potere civile lasciò unicamente nelle mani della gerarchia ecclesiastica l'autorità rituale e sacramentale della Chiesa stessa.
Sulla stessa scia di Gelasio, papa Simmaco (498-514) scrisse anch'egli la sua Memoria giustificativa all'imperatore Anastasio. Con toni assai diversi da quelli usati da Gelasio, egli chiese ad Anastasio: «Forse perché sei imperatore pensi che si debbano disprezzare anche i giudizi di Dio?»; e usando toni sempre più minacciosi, continuò affermando: «Tu imperatore ricevi il battesimo dal pontefice, prendi da lui i sacramenti, ne richiedi la preghiera, ne speri la benedizione, chiedi a lui la penitenza. [...] tu amministri le cose umane, egli [il papa] dispensa a te le divine. Così egli ti è, non dirò superiore, ma certo almeno pari di dignità. [...] Noi accettiamo le autorità umane, purché non indirizzino la loro volontà contro Dio». Alzando il tiro, Simmaco sembrò avvertire Anastasio:

Ricordati di essere uomo, per quanto sia grande il potere su cui t'appoggi, guarda tutti quelli che dall'inizio del dogma cristiano hanno tentato di perseguitare o di affliggere la
Simmaco fu
accusato
dall'imperatore
di essere stato
eletto in maniera
irregolare
fede cattolica con diversi propositi, come, in questo desiderio di devastarla, di apportarle ogni danno, siano stati sconfitti proprio coloro che, fidando della loro forza, avevano tentato queste azioni, come la verità ortodossa sia prevalsa quanto più veniva creduta oppressa, e come si può dimostrare che essa crebbe sotto i suoi persecutori, così si può riconoscere che portò alla rovina chi la perseguitava
[Cit. da Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, pp. 181-186].
Simmaco fu accusato dall'imperatore di essere stato eletto in maniera irregolare.
Le due ambasciate inviate dal pontefice a Bisanzio per definire la pace, non approdarono a nessuna conclusione dignitosa. Occorrerà aspettare la morte dell'imperatore Anastasio e la salita al trono imperiale di Giustino, come la morte del pontefice Simmaco e l'elezione di Ormisda (514-523), per veder concludersi una, se pur breve, pace tra l'Impero e il Papato: infatti lo scisma, almeno per il momento, fu composto secondo occasionali circostanze politiche il giorno di Pasqua del 519.
La morte dell'imperatore Giustino portò suo nipote Giustiniano al trono imperiale; questo comportò l'inizio di un nuovo conflitto tra il potere temporale e quello spirituale. Di fatto Giustiniano dirigeva la politica dell'Impero già sotto il regno di suo zio, e a lui si deve il ristabilimento dell'unità ecclesiastica con la Chiesa di Roma. Tale unità fu la premessa necessaria all'attuazione dei grandi progetti politici imperiali in Occidente, prima fra tutti la restaurazione dell'Impero romano universale.
Nell'ambito della storia dei rapporti tra Stato e Chiesa, il periodo di Giustiniano rappresenta il momento della massima influenza del potere civile sulla vita ecclesiastica, e nessun altro imperatore aveva avuto o avrà un'autorità così illimitata sulla Chiesa. Come incarnazione sulla Terra del Dio dei cristiani, Giustiniano si sentiva autorizzato a dirigere la Chiesa nello stesso modo in cui dirigeva lo Stato; per questo egli si riservava il potere di decidere anche sulle questioni dogmatiche e liturgiche, il diritto di intervenire personalmente ai concili e quello di scrivere perfino trattati teologici ed inni sacri. Giustiniano disse di se stesso: «E' sempre stata nostra fervente premura, e lo è ancora oggi, mantenere inalterata la retta, immacolata fede e la sicurezza della santa, cattolica e apostolica Chiesa di Dio. Abbiamo considerato questo come la prima delle nostre preoccupazioni nel governare. Perciò noi siamo convinti che per questo ci è stata affidata da Dio nella nostra vita terrena l'autorità imperiale e per questo siamo stati protetti da Dio, perché possiamo sottomettere i nemici del nostro Stato e possiamo così nell'altra vita ricevere, come speriamo, la grazia al cospetto di Dio». [In Liber adversus origenem, Praefatio, così cit. da Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, p. 193].
La stessa politica fu portata avanti anche dagli imperatori che succedettero a Giustiniano: essi non solo si ritennero gli unici detentori del diritto di emanare norme che regolassero la società cristiana, ma considerarono il papa costituzionalmente parte integrante dell'Impero. I papi di questo periodo si dimostrarono assai deboli nell'opporsi agli interventi dell'autorità civile.

Il pastorale e lo scettro: il dominio temporale dei papi
Con il passare del tempo, i pontefici cominciarono a desiderare un proprio Stato, per garantirsi entrate, ma soprattutto l'autonomia. Un enorme pericolo per l'autonomia del Papato e della sua Chiesa, era rappresentato - in questo periodo - dai Bizantini a sud e dai Longobardi a nord. Questi ultimi, convertiti al cristianesimo nel 698, verso la metà del secolo VIII s'impadronirono di Ravenna, per poi logicamente dirigersi verso Roma.
Qual era la politica migliore da adottare per salvaguardare l'autonomia della Chiesa pericolosamente minacciata dagli invasori? Il proverbio insegna che tra due mali, occorre scegliere il minore: il pontefice avrebbe potuto allearsi con i Longobardi per scacciare i pericolosi Bizantini. Fu adottata un'altra decisione. La politica dei vari pontefici, che da Gregorio II (715-731) in poi la Chiesa adotterà per più di mille anni, fu quella di impedire la formazione di un unico regno italiano. In questo modo il papa poteva meglio controllare i vari Stati, e all'occorrenza metterli l'uno contro l'altro.
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Riproduzione di un Dictatus
(editto papale)
Con Astolfo, re dei Longobardi, papa Stefano II aveva già stipulato una pace di quarant'anni. Tuttavia il re longobardo non rispettò il trattato, tanto che lo stesso pontefice si vide costretto ad inviare presso il re due suoi delegati, Astolfo Azzo, abate di san Vincenzo al Volturno, e Ottato, abate di Montecassino. Lo scopo della visita fu di indurre Astolfo a ridare la pace a Ravenna e a Roma. Il passò fallì. Il pontefice, allora, chiese invano aiuto a Costantino V. Sentitosi in pericolo, il 14 ottobre 753, papa Stefano II si recò personalmente dal re franco Pipino il Breve per chiedere di muovere guerra ai Longobardi. L'amicizia con il re dei Franchi era stata un'opera ben studiata da parte di papa Zaccaria (741-752). Studiamo brevemente come si arrivò a tale amicizia.
Nel territorio franco l'amministrazione era praticamente in mano ai maestri di palazzo, poiché la vecchia dinastia dei Merovingi si dimostrò del tutto incapace di governare il loro regno. Pipino, figlio di Carlo Martello e maestro del palazzo, tramite una missione franca inviò al pontefice Zaccaria una lettera in cui poneva un preciso quesito: era giusto che Childerico III continuasse ad essere considerato re di Francia pur non avendo l'effettiva autorità nel suo regno? La risposta di papa Zaccaria segnò la fine della dinastia merovingia e il principio dell'alleanza politico-religiosa della dinastia carolingia con i pontefici romani. Rispose il pontefice: il titolo di re va a chi effettivamente amministra lo Stato e non a quel sovrano che, se pur legittimo, in pratica non esercita alcun potere.

L'anno 750 segnò la deposizione di Childerico III per opera di Pipino detto il Breve, che a Soissons si elesse formalmente re dei Franchi, facendosi consacrare dall'arcivescovo Bonifacio. Torniamo alla visita di Stefano II.
Il 6 gennaio del 754 Stefano incontrò Pipino nel castello di Ponthion (presso Vitry le François); il re si dichiarò disponibile per un intervento a favore della Chiesa, ma richiese al pontefice la legittimazione del proprio governo. Nell'incontro il papa portava con sé un documento tanto importante, quanto controverso: la donazione di Costantino. Nel 1442, il filologo Lorenzo Valla dimostrò, nel suo De falso credita et mentita costantini donatione, la falsità del documento: Stefano si era in sostanza fatto costruire il documento, retrodatandolo di più di quattro secoli. Il documento tuttavia s'inserisce nell'ambito del concetto giuridico di allora, che voleva l'esercizio della giurisdizione presupporre l'esistenza di un patrimonio.
Partendo dalla convinzione che, essendo il pontefice romano il rappresentante sulla terra dell'imperatore celeste (cioè Dio), solo il papa aveva il diritto di comandare lo spirito e la materia; quindi egli era il naturale e assoluto detentore anche della corona imperiale. Tuttavia il pontefice non aveva desiderato per sé tale corona, permettendone l'uso a Costantino che diventava imperatore per volere del papa e quindi di Dio. Costantino, non ritenendo giusto che un imperatore esercitasse il suo potere nella stessa sede di colui che riteneva l'imperatore del cielo e della terra, si trasferì con il consenso papale a Bisanzio; e prima di abbandonare Roma sottoscrisse questo tanto famoso quanto importante documento. In questo modo il pontefice cercò così di superare le pretese secolari su Roma, dando alla città un carattere sacro di fronte a tutti i popoli che avrebbero potuto minacciarla.
Il Costitutum Costantini consta di due parti: nella prima si narra la leggenda della conversione al cristianesimo di Costantino; nella seconda lo stesso imperatore, per gratitudine verso papa Silvestro (314-335) che lo aveva guarito con le preghiere da una malattia (forse la lebbra), dava disposizioni circa i beni temporali della Chiesa romana, statuendo la posizione del Papato nei confronti del potere civile. L'imperatore avrebbe concesso al papa il primato su Antiochia, Costantinopoli, Alessandria e Gerusalemme, insieme al dominio su parte dell'Italia; il pontefice inoltre era riconosciuto come giudice supremo del clero. Altre disposizioni stabilivano l'equiparazione fra la gerarchia ecclesiastica e quella civile e disciplinavano il governo dei beni temporali della Chiesa. In realtà, la donazione ci fu, ma riguardava qualche basilica romana e la rendita di trenta oliveti per l'illuminazione delle 8730 lampade del Laterano. [cfr. Pepe G., Il Medio Evo barbarico d'Italia, Torino, 1963. In appendice la donazione di Costantino, pp. 333-344].

Papa Stefano II riuscì a convincere Pipino dell'autenticità del documento, convenendo nel patto di Quierzy. Nell'alleanza fu redatto un altro documento chiamato
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Enrico a Canossa
Promissio Carisiaca (ovvero "Promessa di donazione di Pipino"), dove era statuito che, in caso di vittoria sui Longobardi, il papa sarebbe entrato in possesso di gran parte della Tuscia, della Corsica, dei ducati di Spoleto e di Benevento, dell'esarcato (con Istria e la costa veneta), dei territori padani sino al fiume Po (Parma, Reggio, Mantova, Monselice), della costa adriatica della Pentapoli (da Rimini ad Ancona). Il re avrebbe guadagnato i restanti territori dei Longobardi, ma soprattutto sarebbe stato consacrato protettore della cristianità.
Il patrimonium Petri sarebbe servito, secondo la motivazione dell'alleanza, come garanzia della libertà della Chiesa nel diffondere il Verbo del Cristo.
Il trattato ebbe la consacrazione ufficiale il 28 giugno del 754, e cioè quando a St. Denis Stefano II procedette alla solenne "unzione" di Pipino, di sua moglie Bertrada e dei suoi due figli Carlo e Carlomanno. Nell'estate del 756 i Longobardi furono sconfitti, e Pipino il Breve mantenne le promesse fatte al papa. Quindi, a prescindere dalla validità della donazione fatta da Costantino, il potere temporale della Chiesa si venne a costituire nel 756 attraverso un accordo. Questo potere temporale permise al pontefice di inserirsi nel complesso gioco politico fino alla formazione del Sacro Romano Impero, istituito con l'incoronazione di Carlo Magno la notte di Natale dell'anno 800, per opera di Leone III.
L'incoronazione imperiale di Carlo Magno fu ritenuta del tutto legittima, in quanto il trono di Costantinopoli fu considerato vacante perché vi sedeva una donna, Irene, che aveva fatto abbacinare il figlio Costantino. Con quest'incoronazione il pontefice si costituiva depositario e dispensatore del potere imperiale; nello stesso tempo poneva un'ipoteca sul potere imperiale, restaurando la tradizione che voleva il papa superiore a qualsiasi potere temporale sulla terra.
Nella pratica, però, Carlo Magno interferì continuamente in materia ecclesiastica, specie nelle nomine, entrando così in attrito con la Chiesa. Anzi, l'imperatore stesso dichiarò, in una lettera al pontefice, di voler proteggere la Chiesa sia all'interno sia all'esterno: all'esterno contro gli attacchi degli arabi e dei saraceni e contro il pericolo rappresentato dai pagani e dagli eretici; all'interno per permetterle di raggiungere i suoi più alti fini spirituali.

L'aspirazione di Carlo Magno fu di voler riunire sotto l'egida cristiana, in modo da realizzare un unico corpus, tutti i popoli del suo Impero, che erano così diversi per cultura, per origini, per lingua e per religione. La Chiesa, con il suo prestigio, ma soprattutto con il suo apparato ben strutturato, risultò molto utile all'imperatore per raggiungere i suoi fini.
Da Carlo Magno in poi, gli imperatori franchi dichiareranno la loro piena potestà nell'esercizio del potere legislativo, del potere amministrativo di patrimoni della Chiesa e in materia ecclesiastica.
Nonostante l'ingerenza imperiale, in questo periodo - come ai tempi di Costantino e Teodosio - i vantaggi che la Chiesa otteneva da questa stretta unione con l'autorità statale non erano lievi. Certo, fu enormemente rafforzata la dipendenza dell'alto clero dall'autorità civile, ma in questo modo la Chiesa ampliò il suo potere economico e politico, anche se a danno della sua autonomia religiosa e disciplinare.
Le cariche più importanti dell'Impero erano, infatti, ricoperte da ecclesiastici: l'Amministrazione dello Stato era composta da un alto numero di ecclesiastici; gli ispettori imperiali, i missi dominici, che garantivano l'amministrazione della giustizia, erano un dignitario civile ed uno ecclesiastico (a volte entrambi erano ecclesiastici); il Consiglio del re era formato da un alto numero di dignitari della Chiesa, i proceres; importante è la figura dell'arcicappellano che non era soltanto il consigliere del re, ma aveva anche alte mansioni amministrative (divise tuttavia con il conte palatino) con funzioni di stesura di tutti gli atti pubblici e privati emanati dalla volontà regale, il capo degli archivi del Regno era in genere il chierico protonotario che era a sua volta o vescovo o abate. Tutto questo accadde perché anche la Chiesa entrò a far parte del sistema feudale che Carlo Magno portò in Italia.

La mondanizzazione della Chiesa
il Consiglio
del re era formato
da un alto numero
di dignitari
della Chiesa,
i proceres
Il sistema feudale, che aveva le sue radici storiche negli istituti politici delle popolazioni tribali germaniche del periodo precedente alle grandi invasioni barbariche, fu sviluppato agli inizi del VII secolo dai Pipinidi, dinastia di capi Franchi. Ma il sistema feudale in Italia, durante il periodo di Carlo Magno, non aveva ancora preso un aspetto di carattere politico. Questa caratteristica cominciò a svilupparsi dalla morte dello stesso Carlo Magno (814), quando nell'877 - con il Capitolare di Kiersy - fu conferito ai feudatari maggiori il diritto di trasmettere il feudo ai loro figli per eredità diretta (in seguito, nel 1037, Corrado II il Salico, con la Costitutio de feudis, estese tale diritto anche ai feudi minori).
Come abbiamo appena riferito, nemmeno la Chiesa di Roma restò estranea a tale sistema; e il fenomeno dell'infeudazione della gerarchia ecclesiastica portò alla conseguente corruzione dell'alto clero. Così vescovi e abati diventarono a pieno titolo signori feudali, inserendosi nella gerarchia del nuovo sistema politico attraverso privilegi di investiture e di immunità.
Due sono le differenze che intercorrevano tra un feudatario laico ed uno ecclesiastico: la prima consisteva nel fatto che un feudatario ecclesiastico, a differenza di uno laico, non compariva di persona dinanzi alla giustizia, ma si faceva rappresentare da un vice-domino se il feudo apparteneva ad un vescovo, da un advocatus se apparteneva a un monastero; la seconda, nel fatto che i feudi ecclesiastici non erano ereditabili, questo in quanto i vescovi e gli abati non avevano eredi diretti. In questo modo, alla morte del feudatario ecclesiastico, i feudi ritornavano al sovrano.
Giacché la struttura feudale ecclesiastica si dimostrò più dipendente dal potere laico, la politica carolingia, per meglio dominare tutto il sistema feudale, cominciò ad inserire sistematicamente l'alta gerarchia della Chiesa nel suo sistema politico. La creazione di vescovi-conti (e di abati-conti) si dimostrò non solo meglio controllata, ma anche più sicura e stabile per la tradizionale fedeltà degli ecclesiastici rispetto ai feudatari laici.
Ma se il sistema dei vescovi-conti e degli abati-conti giovava efficacemente alla politica imperiale, certo non si può dire lo stesso riguardo alla politica della cura delle anime: la Chiesa iniziò a mondanizzarsi e l'alto clero, ingolfato nella politica terrena, si allontanò pericolosamente dall'attività per il quale era stato creato.

Il problema delle investiture fu particolarmente sentito da alcuni ecclesiastici come una limitazione alle loro libertà, in quanto essi diventavano di fatto soggetti al controllo laico. In questo contesto, intorno agli anni Quaranta del IX secolo, iniziarono ad essere pubblicati testi che - basandosi su materiale giuridico in parte inventato, in parte apocrifo, in parte proveniente da vecchi decreti papali - giustificando il diritto dell'investitura ecclesiastica da parte del papa creavano in pratica un nuovo diritto. Tra questi famosa è la raccolta di diritto ecclesiastico detta pseudo-isidoriana (dal nome Isidoro Mercator o Picator col quale è designato l'autore) che giustificava giuridicamente l'affrancamento dell'episcopato dal controllo dei signori secolari. Sulla stessa scia si colloca la raccolta di Magonza, creata dal diacono Benedetto Levita.
La mondanizzazione riguardò anche un altro problema. Le cospicue rendite delle sedi vescovili (e delle abbazie) finirono per essere ambite dalle ricche e nobili famiglie dell'epoca che iniziarono ad avviare alla carriera ecclesiastica i figli minori che, secondo l'usanza medievale, restavano esclusi dalla successione ereditaria della stessa famiglia. Il
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Moneta con effigie
dell’imperatore Teodosio
moltiplicarsi dei feudatari ecclesiastici portava anche ad un altro pericolo: l'autorità della Chiesa, a cui spettava la nomina dei vescovi, e l'autorità civile, a cui competeva l'investitura feudataria, si reggevano su un equilibrio precario e il conflitto tra i due poteri restava in agguato.
Dal punto di vista dei rapporti tra lo Stato e Chiesa, il problema si riconduceva al fatto che entrambi formavano una comunità feudale-religiosa, in quanto lo Stato si basava - come abbiamo visto - sulla struttura della Chiesa, e quest'ultima aveva acquistato una compartecipazione politica a tutti gli effetti. Il conflitto tra i due poteri si rese inevitabile.
Così, nell'intervallo che va dalla metà del X alla metà del XI secolo, si assisterà ad una pretesa supremazia civile su quella spirituale, molto più dura e più oppressiva di quella dei Romani e dei Carolingi, con l'ingerenza nelle cose della Chiesa da parte degli imperatori della dinastia di Sassonia e in seguito di quella di Franconia. Anzi, come vedremo, la dinastia degli Ottoni da una parte tentò di imporre papi tedeschi, o in ogni caso dei pontefici a loro fedeli, per accaparrarsi i possedimenti della Santa Sede, dall'altra iniziò un controllo sistematico sulle nomine dei vescovi che avrebbero potuto rafforzare in tutti i territori dell'Europa cristiana il potere imperiale.

Ottone entrò in scena allo stesso modo di Pipino il Breve. Berengario d'Ivrea, che il 22 novembre 950 fu eletto e incoronato a Pavia re d'Italia, cominciò a minacciare i possedimenti pontifici. Papa Giovanni XII (955-964) chiese aiuto ad Ottone I. Tale richiesta, che come abbiamo appena detto somigliava a quella fatta da papa Stefano II a Pipino, portò inevitabilmente al ripetersi dei conflitti tra il potere spirituale del papa e il potere temporale dei sovrani.
Ottone fu incoronato primo imperatore del sacro Romano Impero germanico il 2 febbraio del 962; papa Giovanni, per l'occasione, fece dono ad Ottone di una copia della "Donazione di Costantino", questo evidentemente per ricordargli su quali basi giuridiche poggiava la sua autorità e il suo potere. Nello stesso anno dell'incoronazione imperiale di Ottone, il 13 febbraio, le due autorità stipularono un accordo che precisava, dal punto di vista strettamente politico, le attribuzioni dei due sovrani. Ma Ottone, usando anche come base d'appoggio la feudalità ecclesiastica, che si presentava con la doppia prerogativa di essere nominata dall'imperatore stesso e di non essere ereditaria, pensò di tenere a bada le ambizioni autonomistiche dei feudatari; il che rendeva necessaria una politica di forza nei riguardi del Papato, che venne in concreto sottomesso proprio nell'accordo del 13 febbraio 962.
Il Privilegium Ottonis (così fu chiamato l'accordo) era diviso in due parti: la prima riguardava le concessioni territoriali e i tributi che l'autorità civile, e quindi l'imperatore, era tenuta a garantire al pontefice:
[...] ci impegniamo e promettiamo, mediante questo patto di conferma, [...], i possedimenti papali come li avete tenuti in potestà e giurisdizione finora da parte dei nostri predecessori e come ne avete disposto [...].
Parimenti, mediante questo patto di nostra delega, confermiamo le donazioni che Pipino e poi Carlo imperatore di spontanea volontà conferirono al beato Pietro Apostolo, nonché il censo o pensione o altri tributi che ogni anno si solevano versare sia dalla Toscana sia dal ducato spoletino al Palazzo del re dei Longobardi, come è stabilito nelle soprascritte donazioni e come si convenne tra papa Adriano e l'imperatore Carlo [...].

La seconda parte del documento, che svuotava praticamente di contenuto la prima, affermava che il dominio dell'imperatore si estendeva anche su tutto il territorio riconosciuto di pertinenza del governo pontificio. Nel documento si affermava, soprattutto, che nessun ecclesiastico poteva essere ordinato papa prima di aver prestato il giuramento di fedeltà all'imperatore dinanzi all'assemblea del popolo e ai missi imperiali; tale ordinazione tuttavia, almeno secondo le disposizioni del documento, non avrebbe subito alcuna ingerenza del potere civile:
[...] si obblighi con giuramento a che la futura elezione dei pontefici si faccia secondo i canoni e con rettitudine, per quanto ognuno possa intendere, e che nessuno acconsenta all'elezione del pontefice prima che egli faccia, alla presenza dei nostri messi o di nostro figlio o di tutti, una promessa quale è noto abbia fatto spontaneamente il nostro venerando padre spirituale Leone, a soddisfazione e conservazione futura di tutti i diritti [...].
Non appena Ottone si fu allontanato da Roma, il pontefice Giovanni cominciò a tramare con gli esponenti italiani del partito anti-tedesco per sottrarsi alla tutela imperiale. La reazione dell'imperatore non si fece attendere. Egli, di ritorno a Roma, convocò in san
Il pontefice
fu deposto,
ed al suo posto
fu eletto un semplice
laico di nome
Leone, che
divenne Leone VIII
Pietro un sinodo (963), che accusò Giovanni XII in contumacia (visto che il pontefice aveva appena fatto in tempo a fuggire) d'omicidio, spergiuro, simonia, lussuria e incesto. Il pontefice fu deposto, ed al suo posto fu eletto un semplice laico di nome Leone, che divenne Leone VIII (963-965). Nello stesso tempo, all'insaputa di tutti, Ottone, per dare una base giuridica alle sue pretese, modificò il patto del 13 febbraio 962 facendo inserire una clausola che prevedeva il giuramento di fedeltà all'imperatore da parte di chiunque salisse al trono di Pietro. Il Papato dovette soggiacere alla volontà della monarchia germanica.
Ottone III si dimostrò ancora più intraprendente dei suoi predecessori dando un nuovo indirizzo all'unione del Papato e dell'Impero. Egli dichiarò nulli e illegali tutte le donazioni fatte al papato, compresa ovviamente quella fatta da Costantino; considerando proprietà imperiale i possedimenti pontifici, li affidò con decreto proprio al papa.

Non solo, riuscì a far salire al trono di Pietro un suo cugino sedicenne, Brunone dei duchi di Carinzia, che diventò Gregorio V (996-999); in seguito e alla morte del cugino papa, riuscì anche far nominare papa il suo ex tutore e arcivescovo di Ravenna, Gelberto di Aurillac, che diventò Silvestro II (999-1003).
Gregorio V (primo papa tedesco), che appena una settimana dopo la sua elezione incoronò Ottone III imperatore d'Occidente, e specialmente Silvestro II (primo papa francese) collaborarono con l'imperatore alla riorganizzazione della cristianità fino ad estenderla alla Polonia e all'Ungheria (reame, quest'ultimo, che secondo le intenzioni papali doveva diventare, e lo diventò per secoli, baluardo della cristianità sia contro lo scisma greco sia contro i musulmani). Silvestro II addirittura lanciò, per la prima volta nella storia della Chiesa, un appello per la liberazione del santo Sepolcro dai musulmani. Tuttavia, l'ascesa al trono di Pietro di due pontefici non italiani urtò contro i sentimenti campanilistici dei romani, provocando rivolte ed elezioni di antipapi.
Questa situazione confusionaria si faceva sempre più insostenibile e iniziò a diffondersi nella cattolicità il bisogno di una riforma che portasse la Chiesa sul piano prettamente spirituale. Centro principale di un vigoroso moto di rinnovamento fu il monastero benedettino di Cluny in Francia. Il fatto che Cluny si sottraeva al dominio dei laici (in quanto l'abbazia era esente da qualsiasi autorità civile e religiosa che non fosse il papa in persona), ci spiega perché proprio da questo monastero s'iniziò a combattere il clero corrotto dalla politica e tutti quelli che naturalmente favorivano tale corruzione. Molti pontefici di questo periodo ebbero stretti rapporti con il monastero, altri invece furono essi stessi monaci a Cluny.
La svolta decisiva del movimento riformatore si ebbe al concilio di Pavia nel 1022. Presieduto congiuntamente dall'imperatore Enrico II e da papa Benedetto VIII (1012-1024), il concilio emanò una serie di decreti per correggere la condizione d'ignominia dell'episcopato e le sue smodatezze, specie quelle legate alle alienazioni delle proprietà ecclesiastiche. Per quanto riguarda la riforma dell'elezione pontificia, occorrerà aspettare il pontificato di Niccolò II. Infatti il 13 aprile del 1059, papa Niccolò, con il decreto In nomine Domini, ridusse la partecipazione del clero e del popolo ad un puro assenso. Egli, ammonendo i poteri civili a non interferire, affidò l'elezione del nuovo papa ai cardinali. L'anno dopo, sempre con un decreto, Niccolò ribadì i concetti espressi nel documento In nomine Domini, eliminando però il consenso dei laici. Cosa più importante fu il mancato rinnovo, da parte del pontefice, dell'omaggio dovuto all'imperatore, previsto dal primo decreto.
L'azione di Niccolò fu il primo passo verso la teocrazia, anche se per inaugurare la vera filosofia e politica teocratica, occorrerà attendere l'avvento di papa Gregorio VII.

Gregorio VII e la dottrina teocratica
Se la dottrina ideologica della Chiesa s'inizia con la Civitas Dei d'Agostino, nella quale si trovano teorizzati i princìpi teocratici della Chiesa considerata superiore a qualsiasi realtà terrena, la concezione teocratica riceve il suo massimo impulso da papa Gregorio VII. Infatti, la necessità di stroncare le tendenze autonomistiche all'interno dell'organismo ecclesiastico, che rischiava di diventare un insieme di "Chiese private", ma anche la necessità di debellare il sistema delle investiture da parte dei poteri laici - che avevano trasformato l'alto clero in vassallo dell'imperatore - furono considerati da papa Gregorio il più urgente lavoro nel quale impegnare il suo magistero.
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Papa Gregorio VII
Il cardinale diacono Ildebrando di Soana, già collaboratore attivo di papa Leone IX (che lo chiamò da Cluny) e consigliere pontificio di altri quattro pontefici (Vittore II, Stefano IX, Niccolò II, Alessandro II), apparteneva come ecclesiastico al circolo dei cosiddetti riformatori: essi, dal tempo del pontificato di Leone IX (1049-1054) erano attivi nell'amministrazione del distretto di Roma ed in altri campi. In questo circolo Ildebrando assunse, come arcidiacono, una posizione di guida, particolarmente nelle relazioni con il regno tedesco. Ildebrando si rese subito conto che necessitava sviluppare una reale politica per contrastare l'imperatore, in quanto non bisognava contentarsi di semplici ammonimenti. Assecondò perciò il disegno di papa Niccolò II per arrivare a costituire una salda alleanza con i Normanni, che avevano nel frattempo fondato nell'Italia meridionale un forte Stato. Nello stesso tempo, assicurate in tal modo le proprie spalle alla Chiesa, Ildebrando si premurò anche di far stringere amicizia al papa con la potente figlia di Beatrice di Lorena e del duca e marchese di Toscana Bonifacio, la marchesa Matilde di Canossa.
L'alleanza con i Normanni fu suggellata nell'accordo firmato a Melfi nel 1059, dove fu riconosciuto il titolo di duca di Puglia e di Calabria a Roberto il Guiscardo (e quindi furono riconosciute le conquiste normanne fatte a Capua, in Puglia e in Calabria). La legittimazione delle conquiste militari fatte, e di quante altre i normanni avessero eventualmente compiuto ai danni degli infedeli musulmani e degli eretici greci, creò indubbiamente un rapporto di vassallaggio dei Normanni verso il Papato.

L'alleanza con Roma diede impulso alla conquista normanna nell'Italia meridionale, e nel 1091 Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero misero fine in modo definitivo al predominio arabo in Sicilia. Nel 1130 Ruggero II poteva dichiararsi rex Siciliae, Calabriae et Apuliae. Successivamente, con l'accordo di Benevento (1156), il pontefice Adriano IV riconobbe al re normanno la legazia apostolica sulla Chiesa in Sicilia.
Questo rapporto di vassallaggio alla Chiesa, determinerà l'inizio della lotta per le investiture.
Accanto alle questioni politiche, l'arcidiacono Ildebrando volle affrontare, con seria determinazione, il programma dei riformatori che prevedeva l'eliminazione della simonia e del concubinato colpendo soprattutto la causa di tale decadenza del clero, identificata nel regime di dipendenza delle chiese dalla proprietà privata laica.
Per questo appoggiò il movimento dei cosiddetti "patarini", prendendo l'iniziativa presso papa Alessandro II per un appoggio ufficiale pontificio allo stesso gruppo. (Sorto a Milano per opera del basso clero e del popolino, la Pataría (da pàtari, ovvero pidocchi, straccioni) fu un movimento che, nato senza l'iniziativa del papa o della Curia, volle combattere gli abusi della società ecclesiastica).
Alessandro II risposte positivamente e inviò il "vessillo di san Pietro" al cavaliere Erlembaldo, uno dei capi dei patarini, suggellando ufficialmente il sostegno papale allo stesso movimento. Nello stesso tempo, papa Alessandro ammonì l'arcivescovo di Milano Guido e depose sia l'abate Azzone del monastero di san Celso sia Alberto abate del monastero di san Vincenzo, due canonici che senza essere monaci avevano comprato le due abbazie. Per soffocare il movimento riformatore dei patarini, l'imperatore stesso fu costretto all'intervento, attirandosi le proteste di papa Alessandro.
Divenuto papa Gregorio, Ildebrando cominciò ad eseguire alla lettera il programma del circolo dei riformatori, senza riguardo alcuno per la tradizione sinodale; anzi scatenò una vera e propria battaglia politica contro l'imperatore Enrico IV. Avendo in mente l'idea della Chiesa primitiva, a cui egli voleva ricondurre la Chiesa del suo tempo, papa Gregorio diede al suo magistero pontificio alcune priorità: riuscire a destituire tutti i prelati corrotti, per favorire il ritorno del clero alla sanità morale con l'estirpazione della simonia e il ritorno alla castità; risanare il meccanismo dell'elezione pontificia, anch'esso profondamente alterato dalla corruzione, liberando la Chiesa dalle interferenze laiche. In quest'ottica egli avvierà una riforma che risulterà determinante per la Chiesa, la cosiddetta riforma gregoriana.

Con una serie di ventisette decreti, il Dictatus papae, Gregorio si costituiva così
...Solo al papa
è permesso,
per quanto
lo richiedono
le circostanze,
emanare nuove leggi...
depositario e dispensatore del potere imperiale, affermando in tal modo il suo primato e la sua superiorità anche sul potere temporale. Il concetto fondamentale del dictatus, documento politico-ecclesiastico, è la supremazia universale della Chiesa di Roma e del suo vicario generale; in pratica Gregorio volle tentare di instaurare una teocrazia pontificia:
La Chiesa romana è stata fondata unicamente dal Signore.
Solo il vescovo di Roma sia detto, legittimamente, universale.
Egli solo può deporre o assolvere i vescovi.
Il suo legato presiede a tutti i vescovi in concilio, anche se è di grado inferiore, e può emettere di essi sentenza di deposizione.
Il pontefice romano può deporre gli assenti.
Non si deve, tra l'altro, rimanere nella stessa casa con coloro che sono stati dal papa scomunicati.
Solo al papa è permesso, per quanto lo richiedono le circostanze, emanare nuove leggi, formare nuove comunità, trasformare una canonica in abbazia, e per contro suddividere un vescovado ricco e riunire quelli poveri.
Egli solo può servirsi delle insegne imperiali.
Il papa è l'unico uomo cui tutti i prìncipi bacino i piedi.
Solo il suo nome venga recitato nelle Chiese.
E a questo nome nessun altro al mondo sia equiparato.
A lui è permesso deporre gli imperatori.
Egli può, se la necessità lo impone, trasferire tutti i vescovi da una sede ad un'altra.
Egli può inviare un chierico ovunque voglia.
Chi viene da lui ordinato può presiedere ad una Chiesa ma non essere vassallo, e non gli è permesso accettare un rango più elevato da un altro vescovo.
Nessun sinodo deve essere detto generale senza il volere del papa.
Nessuna legge e nessun codice sia considerato canonico senza il suo benestare.
Le sue sentenze non debbono essere respinte da nessuno, ed egli solo può respingere le decisioni di tutti.
Egli stesso non deve essere giudicato da nessuno.
Nessuno osi condannare chi si appella alla sede apostolica.
Le questioni importanti di ciascuna Chiesa debbono essere riferite solo ad esso.
La Chiesa romana non ha mai sbagliato e, secondo la testimonianza delle Sacre Scritture, non sbaglierà mai in futuro.
Il vescovo di Roma, se ordinato canonicamente, è senza alcun dubbio reso santo per i meriti di San Pietro [...].
Dietro ordine e col consenso del papa, è permesso ai sudditi di formulare una accusa.
Egli può, senza convocazione sinodale, deporre e riconciliare vescovi.
Non sia considerato cattolico chi non concorda con la Chiesa di Roma.
Il papa può sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà agli ingiusti.

Papa Gregorio, comunque, preparò già in anticipo l'opinione pubblica con un decreto sull'investitura laica formulato nel concilio romano del febbraio 1075. Con questo documento il pontefice proibì ai vescovi di ricevere la loro carica dalle mani di un laico, ed i metropoliti di consacrare coloro che avessero accettato tale carica in queste condizioni; ai prìncipi laici fu tuttavia fatto salvo il diritto di conferire ai vescovi i cosiddetti regalia in cambio del giuramento di fedeltà. Ricordiamo che dall'epoca della costituzione della Chiesa imperiale, la regalia indicava i possedimenti e i diritti assegnati di volta in volta al vescovo o all'abate eletto o nominato dal re tramite investitura conferita con anello e scettro. Dalle regalie derivava l'obbligo di fedeltà e di determinate prestazioni verso l'Impero. Nonostante il decreto, il re Enrico IV continuò ad operare le investiture laiche non solo in Germania ma anche in Italia.
Negli ultimi anni di pontificato, papa Ildebrando diede alla cattolicità un altro documento importante, il dictatus di Avranches: trentasette proposizioni che completano, con formulazioni sul primato liturgico, le precedenti formulazioni del dictatus papae.
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Sant’Agostino
E' chiaro che Gregorio non portò nulla di nuovo nelle pretese di supremazia del vescovo di Roma su tutti gli altri vescovi; egli fu solo un tenace esecutore di tutto quel materiale fatto di antichi decreti papali e leggi canoniche che esaltavano la figura del papa-monarca e davano un'effettiva giuridicità all'autorità pontificia. Indubbiamente, però, l'estensione anche alle questione temporali e politiche del potere papale, fu l'innovazione più importante del magistero pontificio di Gregorio portata nel campo delle relazioni tra Stato e Chiesa. Da essa trasse origine la dottrina teocratica della Chiesa cattolica e l'atteggiamento del Papato politico dei secoli XII e XIII.
Se alcuni prìncipi cristiani fecero in seguito atto di sottomissione e di vassallaggio nei confronti del pontefice (i re d'Ungheria e Aragona, il conte di Barcellona, i duchi normanni dell'Italia meridionale), l'imperatore Enrico IV - come abbiamo già studiato - impersonò la resistenza al disegno teocratico della Chiesa. In questo modo la riforma di Gregorio VII portò a forti scontri con l'imperatore.
A seguito della riforma gregoriana, sorsero conflitti anche all'interno della Chiesa stessa. Il clero minore e i vescovi protestarono argomentando che papa Gregorio aveva usurpato i poteri legislativi che spettavano soltanto ai concili generali; anche i cardinali meno importanti, specie quelli che non furono consultati da Gregorio, protestarono reclamando che i poteri supremi spettavano al papa assieme al collegio cardinalizio; molti altri cardinali, a seguito del loro potere di eleggere il pontefice, reclamarono il diritto di giudicare i vescovi. Papa Ildebrando dovette faticare molto per portare, almeno all'interno della sua gerarchia, l'ordine.

In questo periodo della storia, i rapporti fra un sovrano e i suoi sudditi si basavano sull'obbligo della fedeltà, ma anche i rapporti fra i fedeli e la Chiesa erano basati su tale obbligo. Fedeltà - fides - aveva così il doppio significato del legame fra il signore e il vassallo, ma anche fede dell'uomo in Dio e nella sua Chiesa. Da qui la difficoltà nell'usare questo termine, nel separare il senso secolare da quello religioso. Nella realtà del tempo, la sfera religiosa e la sfera politica erano così strettamente congiunte, che non era necessario separarle nelle parole. Così i campi di competenza, dell'imperatore e del papa, si sovrapponevano e il termine che li comprendeva entrambi era una volta Impero, una volta Chiesa. Questo comportò ovviamente un conflitto che divenne aspro, perché entrambi reclamavano, come giudici supremi, una posizione prima dirigente, poi indipendente (quando non si poteva ottenere la prima) nella cristianità. In questo quadro s'inserisce la lotta per il potere all'investitura.

La lotta per le investiture
La lotta per le investiture fu uno degli scontri di maggior rilievo nella storia medioevale: l'imperatore e il papa ingaggiarono una sfida decisiva per le sorti della società feudale e per l'autonomia della Chiesa nell'ambito di tale società. Sino a quando la nomina imperiale fu limitata ai laici, per affari strettamente temporali, non vi fu nessun motivo di contrasto. Ma quando l'imperatore sconfinò dalla sua sfera e pretese di ingerirsi nell'ambito della giurisdizione ecclesiastica, entrò in conflitto totale con il pontefice e la sua Chiesa. Il controllo imperiale dei vescovadi e delle abbazie esautorava la Chiesa di uno dei suoi maggiori punti di forza. Accanto alla perdita di prestigio politico, si aggiungeva anche l'ondata di malcostume che il diritto imperiale di investire provocava. Ne scaturì un vero e proprio commercio di cariche e di privilegi religiosi, che testimoniava come l'investitura fosse diventata un puro gioco politico e di interesse dei sovrani. Nella società medioevale si diffuse così la simonia, ossia il commercio di cose e di cariche sacre, e il nicolaismo, ovvero il venire meno all'obbligo del celibato ecclesiastico.
In questo contesto si situa l'usurpazione, promossa da Enrico IV, della cattedra arcivescovile di Milano per opera del diacono Tebaldo (marzo 1075). In un primo momento papa Gregorio fu molto conciliante con l'imperatore, il quale rimproverò ad Enrico soltanto alcune designazioni non canoniche, compresa quella fatta a Milano. Enrico IV convocò un concilio a Worms, il 24 gennaio 1076, nel quale i vescovi tedeschi accusarono il pontefice di aver fomentato con le sue iniziative il disordine politico dell'Impero, provocando allo stesso tempo una diminuzione del prestigio imperiale. Così nel concilio si decise per la
Enrico IV convocò
un concilio a Worms,
il 24 gennaio 1076,
nel quale i vescovi
tedeschi accusarono...
deposizione di Gregorio dal trono pontificio. Quest'ultimo a sua volta, in una solenne allocuzione della Chiesa universale, scomunicò l'imperatore: [...] al re Enrico, che insorse con inaudita superbia contro la Chiesa, contesto il governo del regno di Germania e d'Italia e sciolgo tutti i cristiani dal vincolo del giuramento che gli hanno fatto o gli facessero; e vieto chiunque di prestargli servizio come re [...]. E poiché come cristiano non volle obbedire né ritorna a Dio ch'egli ha abbandonato - intrattenendo relazioni con scomunicati, compiendo molte iniquità, disprezzando le ammonizioni della Chiesa nel tentativo di scinderla - in tua vece lo lego col vincolo della scomunica. [...].
Nel marzo dello stesso anno, Enrico indirizzò al pontefice la sua invettiva:
Enrico re non per usurpazione ma per sacra ordinazione di Dio a Ildebrando non più papa ma falso monaco.
Per tua vergogna hai meritato questa forma di saluto tu che nella Chiesa non hai tralasciato occasione di disdoro anziché di onore, di maledizione anziché di benedizione. [...] Tu hai creduto che la Nostra umiltà fosse timore e non hai temuto di ergerti contro il potere regio che Ci è stato concesso da Dio, ed hai osato minacciare di togliercelo: come sei Noi avessimo ricevuto il regno da te, come se il regno o l'imperio sia nella tua mano e non in quella di Dio. Nostro Signore Gesù Cristo che ha chiamato Noi al regno, non ha chiamato te al sacerdozio.
[...] Anche me, che benché indegno sono consacrato a regnare tra i cristiani, hai colpito; mentre io, secondo quanto insegna la tradizione dei santi Padri, non posso essere giudicato che da Dio solo, e soltanto per delitto di fede - non sia mai - potrei essere deposto; [...]. Tu dunque sei colpito da questo anatema e condannato dal giudizio di tutti i Nostri vescovi e Nostro; scendi, abbandona la sede apostolica usurpata; altri salga sul soglio di Pietro.
Io, Enrico, re per grazia di Dio, io ti dico con tutti i miei vescovi: scendi, scendi, dannato nei secoli
. [In Monumenta Germaniae Historica, Costitutiones et acta imperatorum et regum, Hannover 1893: così cit. da Villari R., Storia medioevale, Roma-Bari, 1992, pp. 164-165].

Nonostante la scomunica, il pontefice, in una lettera all'episcopato tedesco (7 settembre 1076), si dichiarò disposto a perdonare l'imperatore. Quest'ultimo, abbandonato dal clero tedesco e dai prìncipi cristiani, si vide costretto a cedere alle pretese del papa, promettendo ai suoi prìncipi che entro un anno dalla data della sua scomunica avrebbe chiesto al papa l'assoluzione. Da qui seguì l'incontro e l'umiliazione di Canossa.
Enrico, il 28 gennaio 1078, dopo tre giorni d'attesa in atto di penitente dinanzi alle mura della rocca di Canossa, entrò nella cappella di san Niccolò e supplicò la cugina Matilde di intermediare il perdono del pontefice. Papa Gregorio, pur nella convinzione dell'insincerità di Enrico, decise di assolvere il re. Il re fu così ammesso alla presenza del papa, e dopo aver ricevuto l'assoluzione delle sue colpe, rilasciò con la garanzia di Matilde, di Adelaide di Susa e di Oddone di Cluny, una dichiarazione nella quale prometteva di conformarsi completamente al giudizio del pontefice.
Con l'umiliazione di Canossa sembrò in un primo momento che Enrico ne uscisse sconfitto; tuttavia, per disgrazia del pontefice, la sottomissione di Canossa indebolì l'opposizione dell'aristocrazia tedesca, che nel frattempo si era data un nuovo re nella persona di Rodolfo di Rheinfelden. Enrico nel 1080 ritornò a confrontarsi con il terribile Gregorio. Scomunicato nuovamente, nel sinodo di Brixen, l'imperatore oppose a Gregorio un nuovo pontefice nella persona dell'arcivescovo Ghiberto di Ravenna, che si diede il nome di Clemente.
Comunque, nello scontro tra Gregorio ed Enrico, lo Stato della Chiesa rappresentò soltanto un elemento secondario, come peso politico e militare: molto più importante fu per il pontefice l'appoggio dei Normanni e d'altri sovrani e feudatari che si posero sotto la sua tutela per salvaguardare la propria indipendenza di fronte alla volontà di dominio dell'Impero.
Inizialmente anche con i Normanni i rapporti furono abbastanza difficili. In Inghilterra, Guglielmo il Conquistatore (1035-1087), intento a creare una struttura di potere secolare basata sul feudo, considerava la Chiesa un aspetto dello Stato, e di conseguenza i vescovi, strumenti utili al governo, andavano assoggettati allo stesso sistema dei principali concessionari terrieri laici.

Il disegno di Guglielmo portò così l'intera rete dei vescovadi e delle abbazie nel
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Papa Simmaco
sistema delle concessioni terriere; in questo modo si poteva imporre a tutti i vescovi e agli abati di adempiere agli obblighi delle servitù feudali: cosicché la Chiesa fu integrata nell'intero sistema feudale, rendendola dipendente legalmente ed economicamente alla corona. In questo modo la Chiesa meglio si organizzò, rendendo più insidiose le sue mire di affermazione d'autonomia.
Per indebolire la Chiesa locale, Guglielmo il Conquistatore lavorò per impedire al pontefice di giungere a qualsiasi rapporto diretto con la gerarchia locale: furono date così disposizioni affinché tutte le lettere e le bolle papali passassero attraverso il controllo del re; fu stabilito e ordinato che i legati pontifici sbarcassero in Inghilterra solo su invito e con l'autorizzazione del sovrano; che le corti ecclesiastiche chiedessero il consenso al sovrano per fare appelli o inviare corrispondenza alla Curia romana; che i decreti sinodali necessitassero dell'approvazione regia per essere emessi; che nessuno potesse essere scomunicato o perseguitato da un vescovo a meno che non lo ordinasse il re.
Gregorio VII manifestò la necessità per Guglielmo di riconoscersi vassallo del papa, e quindi soprattutto di non interferire nel governo della Chiesa. Infatti, papa Ildebrando, nel richiedere al sovrano normanno il pagamento dell'obolo di san Pietro, ricordò al re la supremazia universale della Chiesa di Roma e del suo vicario generale.
Guglielmo rispose al pontefice di accettare l'invio a Roma dell'obolo, ma rifiutò molto francamente il suo giuramento di vassallaggio al papa, in quanto «mai promisi di farlo né trovo che i miei predecessori mai lo facessero ai Vostri predecessori» [Lindsay J., I Normanni, Milano, 1995, p. 316].
Papa Idelbrando di Soana ebbe il merito, anche se perseguito senza pieno successo, di avviare la Chiesa verso la completa indipendenza dell'Impero. Per un irrealizzato sogno teocratico [Il corsivo è di Rendina C., I papi. Storia e segreti, Roma, 1993, p. 322], Gregorio emanò precise disposizioni relative al rafforzamento degli strumenti della politica diplomatica. Egli ampliò i già larghissimi poteri dell'istituto della legazia apostolica, fece assumere ai legati pontifici una figura giuridica più completa con autorità e prerogative ben definite.

La sfida lanciata da Idelbrando-Gregorio sopravvisse così nelle lotte dei suoi successori fino al completo trionfo della sovranità universale del pontefice romano e della sua Chiesa.
Ha scritto Walter Ullmann: La figura di Ildebrando-Gregorio VII dominò il papato: quello che fino a quel momento era stato solo programmatico e concettuale, ora era sul punto di venire realizzato in tutto il mondo; sotto l'intrepida guida di Gregorio e grazie alla sua forza interiore e al suo programma, il papato divenne un'istituzione di dimensioni europee. Se era stato il papato a creare Ildebrando, ora era Gregorio VII a fare del papato l'istituzione principale d'Europa, e con lui cominciò a guadagnare consistenza l'opinione sostenuta nel V secolo secondo cui la Chiesa romana era madre di tutte le Chiese, anche se a volte la Chiesa fu madre dura e il papa, come monarca, un padre indegne [Ullmann W., Il papato nel Medioevo, Roma-Bari, 1987, pp. 143-144].
(1 - Continua)
 
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