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                | Liverpool, anni Sessanta: quattro ragazzi
semisconosciuti si riuniscono alla Emi
per incidere il loro primo disco. Che
parte a stento. Ma poi, improvvisamente... |  |   
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				| IL ROCK DEI BEATLES
ABBATTE I "MURI"
DELL'INTERO PIANETA |  |   
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              | L’11 settembre 1962 quattro ragazzi di Liverpool si riuniscono a Londra, in una delle 
sale d’incisione della Emi, per registrare il loro primo 45 giri. Sul lato A 
suona Love me do; sul lato B P.S. I love you. Le canzoni non sono 
nulla di eccezionale: elementari nell’armonia e nella melodia, sostenute da una 
voce pulita ma scolastica, a tratti coadiuvata dall’intervento di un secondo 
cantato che dà vita a un effetto polifonico gradevole ma molto semplice. 
Insomma, due pezzettini rock’n’roll che si aggiungono alla pletora che 
dal 1955 - anno ufficiale della nascita del genere, ad opera di Bill Haley - 
domina le hit parade europee e americane. Ma qualcosa di imponderabile - 
su cui critici musicali, sociologi ed esperti di costume stanno ancora 
interrogandosi - fa sì che quell’11 settembre sia destinato a essere ricordato 
come il momento della nascita di un mito: quello dei Beatles.  Da allora 
ai nostri giorni, malgrado il gruppo si sia sciolto nel 1970, lo stile, la 
musica, le facce di John, Paul George e Ringo sono una parte inscindibile della 
vita di almeno tre generazioni: i sessantenni, che li hanno vissuti; i 
quarantenni, che li hanno solo sfiorati ma che han potuto seguire le gesta 
solistiche di Lennon e di Mc Cartney; i ventenni, che hanno saccheggiato le 
discoteche dei predecessori e che, a denti stretti o con estremo trasporto, ne 
hanno riconosciuto la grandezza e l’attualità. Sui Beatles è stato 
scritto più che su ogni altro gruppo o artista rock. Per evitare di ripeterci, 
quindi, non ci soffermeremo sugli aneddoti e sui particolari più conosciuti, ma 
dapprima racconteremo il periodo poco conosciuto ai più, quello degli esordi; 
quindi, analizzeremo l’evoluzione della loro musica e la parallela evoluzione 
della società degli anni Sessanta, al fine di dare una risposta ad una domanda 
che il critico musicale Gino Castaldo ha posto in questi termini: "I 
Beatles hanno espresso un’epoca, o sono stati espressione di un’epoca?". 
Un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina; tuttavia, crediamo 
di poter rispondere. Innanzitutto va detto che prima dei Beatles ci sono 
i Quarrymen, un gruppo di quindicenni fondato, sempre a Liverpool, da John 
Lennon. Vi fanno parte tutti i suoi più cari amici, che con lui condividono 
intere giornate all’insegna del teppismo e dell’insubordinazione. Un manipolo di 
teddy-boys, affascinati dalla gioventù bruciata della quale splendido 
esempio fu James Dean. Lennon e i suoi 
amici si pettinano come lui, ne scimmiottano gli atteggiamenti da 
"ribelle senza causa", insomma si pongono fuori da quel contesto di regole 
sociali che imbalsama gli anni Cinquanta non solo per le famiglie piccolo 
borghesi, ma anche per quelle della working class (classe 
lavoratrice), della quale fanno parte i Lennon. Meglio: quel che rimane 
dei Lennon. Fred e Julia, i genitori di John, sono protagonisti di breve 
matrimonio: lui è un marinaio, che al momento della nascita del piccolo si trova 
imbarcato in qualche sperduto angolo del mondo, dal quale, misteriosamente, non 
farà più ritorno, nemmeno per vedere come è fatto il suo unico figlio; lei è una 
segretaria, che abbandonata dal marito decide a sua volta di abbandonare il 
figlio alle cure di sua sorella Mimi, per rifarsi una vita con un altro uomo. 
Gli zii di John, quindi, fanno da effettivi genitori, anche se il piccolo, 
malgrado tutto, riesce a mantenere un ottimo rapporto con sua madre. Ad ogni 
modo, anche gli zii hanno un estrazione sociale piuttosto bassa. Fortunatamente, 
John e i suoi amici non emulano integralmente le gesta di James Dean, e decidono 
di darsi a un’attività che, in quegli anni, va per la maggiore: la musica. 
Stimolati dal rock’n’roll, da Bill Haley, Cliff Richard, Chuck Berry, 
Elvis Presley, i ragazzi cominciano a strimpellare qualche strumento: chitarra, 
basso, banjo, batteria. Per dare qualcosa in più alla sezione ritmica 
inseriscono nel gruppo un asse da lavare, riecheggiando le washboard 
bands che ai primordi del jazz fecero di New Orleans un luogo mitico. La 
musica dei Quarrymen, però, è ben diversa da quella suonata dalle prime 
orchestrine jazz, e si basa su pochi accordi, tanto rumore. Tuttavia, la ventata 
di novità che spira dal gruppo fa sì che vi sia chi, in occasioni di matrimoni o 
feste di fine anno scolastico, sia disposto a ingaggiarli.
 E proprio ad una di queste feste è presente Paul 
McCartney, che si dimostra interessato alla musica dei Quarrymen e che, alla 
fine del concerto, sale sul palco per complimentarsi con i musicisti e accennare 
con loro a qualche accordo di chitarra. Ma, tra i Quarrymen, c’è qualcuno che lo 
impressiona più di tutti: "Ricordo questo vecchio ubriaco di birra che si 
avvicina e che mi alitava sul collo mentre suonavo. "Che cosa vuole questo 
ubriacone?", pensai. A un certo momento disse che Twenty Flight Rock era 
una delle sue canzoni preferite. Così seppi che era un intenditore. Era John. 
Aveva con sé qualche birra. Aveva 16 anni e io solo 14, così a me sembrava un 
uomo grande. Gli mostrai qualche altro accordo che non conosceva (...) Poi me ne 
andai. Sentii che li avevo ben impressionati, che avevo dimostrato loro quanto 
fossi bravo". E infatti, una settimana più tardi, Paul entra nel gruppo e 
comincia a scrivere canzoni a quattro mani con John, dando vita a quella che 
sarebbe divenuta la più prolifica e strabiliante coppia di autori che la musica, 
classica e leggera, abbia mai conosciuto. I due rappresentano il più tipico dei 
binomi: ribelle e rock John; posato e melodico Paul. Quest’ultimo, 
infatti, viene da una famiglia piccolo borghese che sogna, per il figlio, un 
avvenire da avvocato o da scrittore. Paul frequenta ottime scuole: il ginnasio e 
i liceo classico all’antichissimo Liverpool Institute, vera officina 
delle giovani leve borghesi e aristocratiche della città.
 Tuttavia, la morte della madre di Paul, Mary Patricia, 
destabilizza la famiglia McCartney: Jim, il padre, entra in una profonda crisi 
depressiva; Paul e il fratellino, Michael, vengono affidati alla zie. I binari 
di una vita che avrebbe dovuto condurre il primogenito verso un esistenza fatta 
di tranquillità, benessere e invidiata posizione sociale sono del tutto divelti: 
Paul si trova allo sbando, e l’ancora di salvezza, come per John, è la chitarra. 
Ad ogni modo, McCartney mantiene - e manterrà in futuro - nel modo di fare e di 
apparire una grazia e un’educazione che rivelano inequivocabili origini. Come 
capita in ogni gruppo di adolescenti, i componenti del gruppo mutano alle 
velocità di riproduzione delle cellule del corpo umano. Gli unici membri fissi 
dei Quarrymen sono John e Paul. Circa un anno dopo dal loro incontro, alla band 
si unisce George Harrison, da qualche tempo amico di McCartney. Sulle prime, 
John non ne approva l’ingresso nei Quarrymen in ragione della sua giovane età 
(George, infatti, ha solo 13 anni); ma la capacità di saper padroneggiare la 
chitarra e conoscenza di altri numerosi accordi rendono indispensabile l’apporto 
di Harrison alla crescita musicale del gruppo. Che, nel frattempo, cambia anche 
nome: non più Quarrymen (che viene dalla Quarry Hill High School, frequentata da 
John ma non dagli altri due), ma Silver Beatles. La leggenda vuole che il 
mutamento sia stato ispirato da un vecchio ubriaco che, infastidito da una 
performance dei ragazzi in una birreria, si sia alzato e abbia detto loro: "La 
vostra musica è roba da scarafaggi (beetles)", e che poi i tre abbiano 
sostituito la "e" con una "a" (Beatles) per sottolineare il genere da 
loro praticato, il beat. In effetti, sembra che l’idea del nome sia 
venuta a John, che ragionava sul fatto che la band di Buddy Holly - vera star 
del rock’n’roll - si chiamava Crickets (grilli). Allo stesso modo, 
loro avrebbero potuto chiamarsi scarafaggi (con la variante linguistica 
di cui abbiamo accennato).
 Ma Beatles è 
troppo corto e così viene aggiunto Silver (argento). La prima 
tournée dei Silver Beatles è programmata in Scozia, e il gruppo ci arriva 
senza un batterista. Per il secondo tour, che li porta ad Amburgo, Paul decide 
che non se ne può fare a meno e convoca un certo Pete Best, che accetta ben 
volentieri. A lui si unisce anche Stuart Sutcliff, grande amico di John. Stuart 
dimostra grandi attitudini artistiche, soprattutto per quel che concerne il 
look: in locali frequentati da veri rockers, dove imperano i giubbotti di 
pelle e gli stivali, i Beatles - ispirati da Sutcliff - si presentano con 
giacche a quadrettini bianchi e neri, capelli pettinati verso l’alto e scarpe a 
punta. Se Stu (il suo soprannome) si rivela un valido art 
director, non può dirsi altrettanto delle sue capacità musicali: suona il 
basso, ma è così maldestro da incappare in grossolani errori che lo costringono 
a esibirsi con le spalle voltate al pubblico, per trovare migliore 
concentrazione. Il tour tedesco è una palestra importantissima per i 
Beatles, che imparano cosa voglia dire suonare su un palco e affrontare 
un pubblico che capisce ben poco della loro musica. Ciononostante, i cinque 
ragazzi di Liverpool (John, Paul, George, Pete e Stuart) riescono a entusiasmare 
i clienti dei locali nei quali suonano grazie all’energia sprigionata dalle loro 
performance. Al ritorno in Inghilterra vengono ingaggiati come gruppo fisso del 
Cavern Club di Liverpool; ma è una seconda tournée ad Amburgo a segnare 
il loro destino. E’ il 1961, e i Beatles si esibiscono nel locale Top 
Ten accompagnando il cantante Tony Sheridan. Una sera, dopo il concerto, si 
avvicina loro un produttore discografico, Bert Kaempfert, chiedendo se abbiano 
intenzione di incidere per la Polydor.
 Inutile 
aggiungere quale sia stata la risposta; va invece detto che il disco 
che ne nasce, My Bonnie, vende abbastanza bene in Germania. Non troppo 
bene, invece, in Inghilterra, ma quanto basta per indurre un ragazzo - un tale 
Raymond Jones - a entrare in un negozio di dischi per acquistarlo. E’ il 28 
ottobre 1961, una data storica. Il negoziante, tuttavia, ignora il nome del 
gruppo. Quando il 
  giorno dopo altre 
due ragazze gli chiedono lo stesso disco, quel negoziante, che si chiama Brian 
Epstein, si incuriosisce e, una settimana più tardi, va al Cavern Club ad 
ascoltare i Beatles. I quali, nel frattempo, erano diminuiti: Stuart 
Sutcliff, un po’ perché infastidito dall’atteggiamento vagamente ostile di Paul 
nei sui confronti, un po’ per evidente mancanza di talento musicale, decide di 
lasciare il gruppo. Al quale, però non potrà mai più riunirsi: affetto da un 
tumore al cervello, Stu muore nell’aprile del ‘62, e il suo decesso segna 
profondamente John (già provato, come abbiamo detto, da quello della madre) 
acuendone gli aspetti ribelli. Ma torniamo a Epstein, che così racconta la sua 
prima volta di fronte ai Beatles: "Non erano molto ordinati nè molto 
puliti. Fumavano mentre suonavano e mangiavano e parlavano e fingevano di 
colpirsi fra di loro. Voltavano le spalle alla platea e gridavano alla gente e 
ridevano dei propri scherzi. Ma c’era un’eccitazione quasi generale. Sembravano 
trasmettere una specie di magnetismo personale. Rimasi affascinato da loro". 
L’indomani, Epstein ordina per il suo negozio 200 copie di My Bonnie, e 
circa un mese più tardi, il 3 dicembre ‘61, li invita nel suo ufficio per 
proporsi come loro manager. L’incontro non viene turbato nemmeno dallo 
 spaventoso ritardo col quale si presenta Paul, che con una buona dose di snob 
afferma di aver tardato perché si è fatto il bagno. Tuttavia, deve passare 
ancora un mese prima che i Beatles acconsentano a Brian Epstein di 
diventare il loro manager, cui sarebbe spettato il 25% degli incassi. L’arrivo 
di Epstein comporta una ripulita all’immagine del gruppo, cosa che John Lennon 
non riesce a digerire. Negli anni Settanta, a esperienza conclusa, l’ex 
beatle confessa quanto segue: "Brian ci voleva in abiti ordinati e in 
camicia, e Paul gli dava corda. Io non volevo affatto e provavo a incitare 
George a ribellarsi con me. Gli dicevo "Vedi, non abbiamo bisogno di questi 
fottuti vestiti. Buttiamoli fuori dalla finestra". La mia ribellione era per 
avere la cravatta slacciata, col bottone più alto della camicia aperto, ma Paul 
veniva sempre a chiudermelo. Ho visto un film, l’altra sera, la prima 
trasmissione televisiva alla quale abbiamo partecipato. La gente del Granada era 
venuta a riprenderci e noi avevamo quegli abiti, e non eravamo noi, e guardando 
quel film ho capito che quella è stata la prima volta in cui abbiamo cominciato 
a venderci".
 Oltre ad un’immagine 
diversa - sempre più simile a quella che farà il giro del mondo, e cioè quella 
di quattro ragazzi della porta accanto, con le giacche senza colletto, gli 
stivaletti di camoscio e i capelli a caschetto -, Epstein porta anche i primi 
contatti con le major discografiche. Il 1° gennaio del ‘62 i 
Beatles si esibiscono di fronte ai talent-scout della Decca, ma 
non riscuotono i consensi sperati; e lo stesso accade con la Columbia. Chi si 
interessa al gruppo è invece la Emi, che fissa loro una seduta di incisione per 
i primi di giugno. Di fronte a loro c’è un signore, il cui nome è George Martin. 
Come per Epstein, anche per lui la performance degli scarafaggi (che 
suonano cinque brani, tra i quali Love Me Do, P.S. I love you e 
Besame Mucho) è una folgorazione. Martin annusa nell’aria odore di 
successo, e il futuro gli darà ragione. Decide quindi di mettere sotto contratto 
i Beatles, non prima però di apportare un ulteriore e definitivo 
cambiamento alla formazione: la sostituzione, alla batteria, di Pete Best con 
Ringo Starr. Sull’episodio non è stata fatta mai molta chiarezza. Due elementi, 
tuttavia, sono più che evidenti: primo, Best viene silurato nel momento in cui i 
Beatles cominciano a raccogliere i frutti di una gavetta alla quale il 
batterista ha partecipato senza tirarsi indietro; secondo, Ringo non è 
tecnicamente migliore di Pete. Alla metà di agosto del ‘62, quindi, Espstein 
comunica a Best la drammatica decisione, imputandola a un George Martin poco 
soddisfatto delle sue esecuzioni e agli altri tre, dubbiosi sulle capacità di 
adattamento di Pete alla futura produzione musicale del gruppo. Nell’ambiente 
musicale la notizia causa un piccolo terremoto, alimentato dagli articoli delle 
riviste musicali, alcune delle quali indugiano in analisi da rotocalco 
femminile, sostenendo che Best avesse lasciato il gruppo perché non intendeva 
pettinarsi i capelli come John, Paul e George.
 Sta di fatto che, a dispetto dei comunicati ufficiali 
della Emi, che parlavano di un addio consensuale e senza rancore, Pete Best ne 
risentirà profondamente, e deciderà di abbandonare il campo musicale per 
dedicarsi ad altro. Al suo posto, abbiamo detto, viene chiamato un Ringo Starr. 
Il suo vero nome è Richard Starkey e anche lui, come gli altri, viene da 
Liverpool. Starr conosce i Beatles qualche anno prima ad Amburgo, dove 
anche lui è in tour con il gruppo degli Hurricanes e dove, ascoltata le 
canzoni di Lennon e McCartney, manifesta subito vaghe intenzioni di unirsi a 
loro. Alla lunga, sarà soddisfatto. Con l’ingresso di Ringo (il cui nomignolo 
viene dalla sua smodata passione per i rings, gli anelli), l’immagine dei 
Beatles acquista un’impronta definitiva e completa. Quattro ragazzi, 
uniti da un’esperienza musicale comune ma con attitudini e caratteri 
completamente differenti: Paul, quello borghese e ben educato; John, il ribelle 
della working class; George, il silenzioso e il più dotato tecnicamente; 
Ringo, il brutto anatroccolo ma anche il più simpatico. Quest’ultimo, in 
particolare, è un vero e proprio miracolato. A soli sei anni viene colpito da 
una peritonite che lo constringe a dieci settimane di coma e a una convalescenza 
di più di un anno. Ma forse è proprio il fatto di aver superato una prova così 
difficile che lo porta a vedere sempre il lato più bello delle cose: è 
simpatico, premuroso e regala bontà a chiunque conosca.
 Il suo atteggiamento non muta nemmeno quando, a tredici 
anni, una pleurite lo costringe ad altri due anni di degenza. Insomma, una 
perfetta applicazione del detto popolare "sorridi, e la vita ti sorriderà". In 
quell’agosto del ‘62, la vita mostra a Ringo un sorriso a trentadue denti (e 
anche a trentadue carati). Quel che accade negli anni successivi è la storia del 
gruppo musicale più famoso di tutti i tempi, che scatena una rivoluzione 
musicale, sociale e, in minima parte, anche politica. Per quel che concerne 
questo ultimo aspetto, viene subito alla mente il conferimento del titolo di 
Members of British Empire (M.B.E.) che la regina Elisabetta conferisce 
loro nel 1965, all’apice di quel fenomeno che è stato chiamato 
Beatlemania. Gli scarafaggi, quindi, diventano baronetti. Ciò 
suscita, nell’opinione pubblica mondiale, un clamore senza eguali, ma anche le 
stizzite reazioni dei più conservatori tra tutti gli insigniti di onorificenze 
britanniche, tre dei quali le restituiscono. I meriti dei Beatles, sotto 
un profilo formale, sono meramente commerciali: con le loro vendite, hanno 
contribuito a incrementare le entrate grazie all’esportazione di un tipico 
prodotto britannico. La forma, però, cela una sostanza ben diversa: come ha 
scritto Marco Pastonesi nel suo libro Beatles, il conferimento 
dell’M.B.E. "...era il tentativo dell’autorità di apparire più vicina e 
sensibile alle esigenze dei giovani, e contemporaneamente lo sforzo di inglobare 
il fenomeno musicale e sociale come una delle espressioni - libere - del sistema 
democratico". Tra le voci che si levano contro il gesto della Corona britannica, 
vi sono anche quelle di chi sottolinea che l’accettazione di tale onore da parte 
dei Beatles significherebbe l’adesione della musica rock a 
quell’establishment che essa tenta di scardinare a colpi di chitarra e 
batteria. E’ un discorso, a nostro giudizio, che non trova appigli.
 Da un punto di vista sociale, i Beatles 
non sono stati un fenomeno di rottura con l’ordine costituito come lo sono stati 
altri cantanti o altri gruppi: basti pensare agli americani Bill Haley (il cui 
pezzo più noto, Rock around the clock, era la colonna sonora del film 
Il seme della violenza), Jerry Lee Lewis (che fa scandalo quando annuncia 
il suo matrimonio con una sua cugina tredicenne), agli Inglesi Rolling 
Stones, eterni rivali dei Beatles, che mostrano di se stessi 
un’immagine molto più maledetta. I Beatles, invece, sono i ragazzi della 
porta accanto. Una cronaca di Natalia Aspesi per Il Giorno, datata 24 
giugno 1965, li ritrae a bordo del treno che da Torino li porta Milano, dove i 
Fab four (i favolosi quattro) sono attesi per un concerto al velodromo 
Vigorelli che entrerà nella storia. John, Paul, George e Ringo vengono descritti 
come quattro giovanotti che ancora non si sono resi conto di quello che hanno 
scatenato, e dei soldi che ci hanno guadagnato: giocano a Black Jack, 
sorridono a chi sta loro intorno, non si lasciano andare ad atteggiamenti 
divistici ("...si sono dimostrati sin troppo gentili: tanto da sorridere e 
chiacchierare, e chiedere chiarimenti sulle sette parole d’italiano che devono 
assolutamente sapere per questa tournée"). E’ fuor di dubbio che proprio questa 
loro immagine di bravi ragazzi, che trasgrediscono solo portando i capelli più 
lunghi del normale, scatena nelle ragazzine - ma anche in non pochi ragazzi - 
un’isteria come mai si sono conosciute in precedenza.
 Un’isteria che include anche l’aspetto sessuale, tanto 
da portare migliaia di fanciulle a lasciare le tracce del proprio entusiasmo sui 
sedili delle arene nelle quali si esibiscono i Beatles (i famosi wet 
seats, le sedie bagnate). Il fenomeno, dal punto di vista sociale, è di 
fondamentale importanza: come ha scritto Gino Castaldo, "... per la prima volta 
il fenomeno, perfettamente integrato nei suoi aspetti musicali, di costume, di 
mode e comportamenti, unisce i giovani di tutto il mondo. 
 Quest’universalità, 
ottenuta con un beat semplice e incisivo, con dei suoni effervescenti di 
chitarra e con degli eleganti e euforici impasti vocali è l’aspetto più 
stupefacente di questa ascesa... ". I Beatles, in sintesi, sono un 
cocktail in cui musica, sociologia, immagine e un pizzico di politica si 
emulsionano dando vita a un gusto irripetibile. Soprattutto sotto il profilo 
musicale. Per decenni, migliaia di critici si sono chiesti come sia stata 
possibile quella creatività, che li portava a esplorare ogni genere e a uscirne 
ogni volta vincitori. Una domanda alla quale rispondere diventa ancora più 
difficile, alla luce di dell’incontestabile verità rivelata da Ringo: "Diventai 
batterista perché era l’unica cosa che sapessi fare. Ma ogni volta che ascolto 
un altro batterista mi accorgo di non essere bravo (...) Io so soltanto suonare 
sul controtempo perché John non sa suonare la chitarra ritmica. Tecnicamente non 
sono bravo, però sono bravo a muovermi, a dondolare la testa. Ecco perché mi 
piace ballare: peccato che non lo si possa fare alla batteria". E’ una 
dichiarazione sbalorditiva, che fa pensare a quattro Forrest Gump che, 
trovatisi in mano degli strumenti musicali, hanno cominciato a suonarli e hanno 
scatenato il finimondo. Ma in effetti le cose non stanno proprio così. Se è vero 
che chi sapeva far scivolare le dita sulle corde della chitarra è il solo George 
- che non a caso diverrà amico di un tale Eric Clapton -, è anche vero che lo 
straordinario talento inventivo di Lennon e McCartney trova un sapiente 
direttore in George Martin, il loro produttore, dotato di solida cultura 
musicale e grande tecnica di improvvisazione. Solo così riesce a spiegarsi la 
genesi di canzoni quali Yesterday, Michelle, Norwegian 
Wood (la prima canzone pop in cui trova spazio un sitar), Drive my 
car, o di album quali Revolver e Sergeant Pepper’s Lonely Heert 
Club Band, vere pietre miliari nella storia del rock, dischi che non 
sono semplici raccolte di canzoni ma che raccontano una storia con un principio 
e una fine, come se fossero delle opere letterarie. In conclusione, possiamo 
affermare che i Beatles sono stati innanzitutto musica. Una musica di 
qualità eccelsa, che però era suonata da quattro ragazzi che hanno acceso la 
miccia di una rivoluzione non solo nel campo delle sette note, bensì anche in 
quello della società di allora, allentandone con grazia e senza troppi scossoni 
i freni inibitori. Senza di loro, che pure hanno avuto illustri predecessori 
(tra tutti, Elvis) non avremmo avuto la splendida musica degli anni Sessanta e 
Settanta, carica di significati esplosivi che si sposavano a meraviglia con la 
qualità delle esecuzioni. Cercando soccorso nelle categorie filosofiche, 
possiamo affermare che i Beatles sono stati il "motore immobile" di tutto 
quel che è accaduto in quei due decenni (entusiasmanti ma, per un verso, anche 
tragici). E ci viene da ridere quando, di fronte alle stesse scene di isterismo 
che oggi si verificano al passaggio dei Ricky Martin, dei Robbie Williams, dei 
Boyzone (o che dieci anni fa si verificavano davanti ai Duran Duran o 
agli Spandau Ballet), sentiamo qualche genitore affermare "Succedeva la 
stessa cosa per i Beatles": vuol dire che non ha capito niente di quel 
che stava accadendo.
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	          | BIBLIOGRAFIA 
Beatles, di Marco Pastonesi - Edizioni 
Gammalibri
The Beatles, di John Reed - Edizioni Gammalibri
La terra promessa, di Gino Gastaldo - Feltrinelli 
editore
Dizionario della musica pop & rock - Edizione 
Tascabili Economici Newton 
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