Numero 133 - Novembre 2007
EDITORIALE - STORIA OGGI
Educazione e senso morale.
Siamo sempre più poveri.
di PAOLO M. DI STEFANO*
C'era una volta l'educazione, pesante fardello che costringeva a molti sacrifici, prodotto anch'essa di qualche costrizione. Per esempio, non poggiare i gomiti sulla tavola; non bere direttamente dalla bottiglia; salutare per primi e rispondere al saluto; cedere il passo e il posto alle persone anziane; non masticare sbattendo le labbra e non sorbire rumorosamente il brodo; non infilarsi le dita nel naso; ascoltare senza interrompere; non alzare la voce. C'era una volta il rispetto per gli altri, vasta categoria dell'educazione, nella quale rientrava l'alzarsi quando l'insegnante raggiungeva la cattedra e quando la lasciava; l'assistere alla lezione in silenzio, chiedendo la parola con un'alzata di mano e aspettando il permesso di parlare; il vestirsi con decoro e pulizia; il riconoscere l'esperienza e i meriti di un lavoro spesso durato lunghi anni nel silenzio dei laboratori e spesso nella solitudine del pensiero ed ai cui risultati l'umanità deve passi in avanti non sempre piccoli, mai trascurabili.
E famiglia e scuola sembravano andare quasi d'accordo. Quanto i ragazzi non riuscivano ad assimilare a casa, per le ragioni più varie, poteva essere imparato a scuola. Famiglia e scuola avevano (anche) la consapevolezza di essere complementari. Di doverlo essere, nell'interesse della società. E i ragazzi non erano mandati a scuola per essere promossi: la frequentavano per imparare, e, una volta imparato, esser promossi.
C'era una volta, appunto, e una buona educazione era un fattore d'immagine irrinunciabile, tanto che i "parvenus" (nuovi ricchi, villani rifatti, recita il dizionario) diventavano oggetto di gag, di scenette, di sfottò spesso impietosi. E il giudizio "sembra un parvenu" aveva un che di definitivo e suonava spesso un invito a starne lontano e a non imitarne i comportamenti. Tutto perché "imitava" l'educazione delle categorie superiori, dei "signori". Mirava a sembrare qualcosa che non era. Un signore, appunto.
E da un vero signore, tra le altre cose, si pretendeva il senso della misura e, nei confronti degli altri in genere e delle persone anziane in particolare, un comportamento assolutamente rispettoso. E non a caso un vero signore fa onore al gruppo di appartenenza. Ne tutela l'immagine, assieme alla propria.
Ora, è possibile che i parlamentari italiani siano per definizione dei parvenu. Ammesso e non concesso che così sia, possiamo distinguere tra coloro che cercano di imitare la buona educazione e coloro, invece, che neppure si sforzano di farlo. E quando la vittima della ineducazione è una anziana signora, l'immagine del gruppo al quale l'offensore appartiene subisce una ulteriore revisione al ribasso.
Di più: quando la persona offesa è uno dei pochissimi vanti di questa disgraziata e diseredata Italia, la cosa peggiora, anche perché dimostra un livello di arroganza al di là del bene e del male.

E i senatori a vita sono anziani, e nessuno di loro, almeno ufficialmente, ha demeritato. Anzi: una intera vita viene dalle istituzioni riconosciuta come meritevole di un riconoscimento che, tra le altre cose, arricchisce il Parlamento. E dunque: ma non vi pare senza senso il fatto che si pretenda che un senatore a vita non abbia almeno pari diritti degli altri (spesso indegni) colleghi? E tra questi diritti, a mio parere è quello di esprimere il proprio voto, anche quando sia determinante per l'approvazione della legge oppure per la vita stessa del Governo. Certo, è possibile che anche un senatore a vita possa scendere a compromessi, ma certamente non in grado maggiore di quelli a cui ricorrono i senatori eletti. E d'altra parte, in una politica che è ancora celebrata come arte del compromesso e il cui obiettivo è quello di esaltare interessi particolari, è proprio vero che contribuire a mantenere in vita un esecutivo che finanzia la ricerca scientifica - patrimonio di tutti - è un comportamento da condannare?
Con questo, in più: che un senatore a vita non ha interessi personali (o comunque ne ha meno degli altri) ed è quindi probabile che il suo sia il voto di una persona responsabile e capace, espresso nell'interesse della comunità e non proprio o dei propri amici. Un voto che dovrebbe valere doppio!
Proposta: e se, tra le altre riforme immaginate e immaginabili, una ne disegnassimo di un Senato fatto tutto da senatori a vita premiati per l'eccellenza del lavoro svolto nel settore di competenza? E retribuiti, salvo inevitabili eccezioni, quasi esclusivamente con l'onore della qualifica? Sarebbe un Senato troppo piccolo? Può darsi, ma sempre di qualità e di immagine altissima.

A proposito di immagine: l'Italia è ancora in festa per la vittoria della Ferrari, campione del mondo marche e piloti. Non è importante che gli italiani siano felici perché gli avversari sono stati sconfitti e non perché l'immagine dell'Italia nel mondo ha beneficiato della vittoria: quest'ultimo pare essere un aspetto secondario, nel vissuto comune e, purtroppo, spesso anche presso imprese, istituzioni, strutture diverse le quali di immagine parlano anche troppo ma che a mala pena hanno l'idea di cosa l'immagine veramente sia.
Io credo che da questo ennesimo successo Ferrari si possa trarre un insegnamento assolutamente importante. La Ferrari contribuisce a costruire nel mondo l'immagine del nostro Paese, non si limita ad utilizzarlo, a sfruttarne i vantaggi (se ci sono), senza nulla aggiungere al "prodotto made in Italy". E' anche grazie alla Ferrari che il "made in Italy" cerca di essere un marchio prestigioso, del quale tutti vorrebbero fregiarsi ed i cui prodotti sono richiesti e acquistati in tutto il mondo ed anche imitati. Dovremmo forse - è questo l'insegnamento - consentire l'uso del marchio made in Italy solo a quelle imprese ed a quei prodotti che, come accade per Ferrari, sono di livello assolutamente eccellente e concorrono a "creare" il valore del marchio. Che vuol dire stabilire "standard di qualità totale" al di sotto dei quali l'uso del "made in Italy" è vietato e punito se impropriamente o illecitamente usato. E potrebbe anche voler significare che quelle imprese o strutture che "fabbricano l'immagine del made in Italy secondo gli standard previsti" potrebbero beneficiare di riconoscimenti concreti e legati appunto al livello di partecipazione alla costruzione dell'immagine stessa.
Il punto debole del mio assunto? In Italia pare non esista alcun senso del rigore, la qual cosa rende di estrema difficoltà non tanto il definire gli standard, quanto il controllare che siano rispettati. Qualcuno sostiene che il Governo potrebbe e dovrebbe.

Come, il Governo? Ma se proprio tra governo e immagine pare esistere un conflitto insanabile! Siamo arrivati al punto di non valutare neppure l'impatto che l'azione di un Ministro diretta a far trasferire un giudice che indaga su di lui ha proprio sulla immagine di una compagine governativa che naviga palesemente a vista e la cui unica forza sembra essere, oggi, costituita dall'attaccamento alle poltrone. Un tempo, un pubblico ufficiale appena sfiorato dall'ombra di un sospetto si sarebbe dimesso, attendendo, se del caso, fiducioso il verdetto della magistratura (o di qualsiasi altro organo giudicante competente).
Dice: ma anche l'immagine della magistratura.
Non c'è dubbio: anche l'immagine della magistratura è in declino, come è in declino l'immagine dell'intera società italiana (la qual cosa spiegherebbe il livello al di sotto di quello di guardia raggiunto dalle istituzioni, le quali forse mai si sono dimostrate così tanto rappresentative). Ma è una buona ragione per demordere? Non ostante tutto, i magistrati sembra abbiano ancora una solida preparazione giuridica e più di un aggancio morale, e dunque sono ancora degni di fiducia. Salvo le solite eccezioni, naturalmente, ma che in magistratura sono forse meno frequenti e numerose che altrove. E d'altra parte, nella maggioranza dei casi mi pare di poter affermare che giustizia sia fatta. Non ostante tutto.
E se i magistrati avessero piena coscienza della propria immagine e della sua importanza, e la costruissero e la tutelassero senza eccezioni, l'umana giustizia ne uscirebbe rafforzata, pur nei limiti di una umanità per sua natura limitante.
Domanda: ma se il ministro che ha contribuito alla discesa di immagine del governo fosse stato per ciò solo destituito ed al suo posto ne fosse stato nominato un altro, la fine del mondo si sarebbe forse avvicinata? E siamo proprio sicuri che il Governo avrebbe accelerato la propria agonia? E che i partiti della attuale maggioranza non avrebbero beneficiato, in sede di elezioni, di un atto di coerenza e di coraggio?

La Chiesa Cattolica, oggi, sembra la sola istituzione ad avere il coraggio di portare avanti le proprie istanze. E badate: qui non si tratta di essere d'accordo o meno circa il contenuto di queste, bensì soltanto di prendere atto che la Chiesa afferma, anche a costo di impopolarità, i principi che da secoli la animano. La famiglia, ad esempio, e il rispetto della vita umana, con tutto quanto consegue. E sono principi ai quali la Chiesa stessa sembra talvolta esser venuta meno, in duemila anni di storia tormentata e, sopra tutto, "umana" e dunque fatta di interessi diversi e vissuti come più immediati e sopra tutto più importanti di quelli relativi alla vita eterna. Ma chi non ha mai sbagliato, in questa terra?
Non è questa, ripeto, la sede per addentrarci nei complessi contenuti e nelle complicate vie da seguire. Quanto meno, non è questa la mia intenzione. Io qui vorrei soltanto domandare se da qualche parte esiste la coscienza del valore che il coraggio e la coerenza hanno ed acquisteranno sempre di più in un futuro neppure lontano. Per me, cattolico, che i cattolici possano affermarsi in politica grazie anche al coraggio dimostrato dalla Chiesa è un bene ed una opportunità della quale credo di essere consapevole e che a mio parere andrebbe colta. Per gli altri.
Ma vogliamo scommettere che, se i cattolici dovessero vincere le elezioni e dovessero vincerle in quanto tali, in quanto cattolici, cioè, tanti altri sono già pronti a saltare sul carro? E dal momento che il compromesso pare essere il solo mezzo riconosciuto di fare politica; il potere si è sempre dimostrato corruttore; la Chiesa è fatta da uomini, bisognerà essere veramente forti e strepitosamente onesti per resistere.
Il carro dei vincitori è da sempre affollato.
Sopra tutto nelle posizioni che sia pure in modo diverso si abbeverano del potere.

La pletora di ministri, vice ministri, vice-vice ministri, sostituti di vice-vice ministri, apprendisti sostituti e via dicendo la dice lunga al proposito. Ci se ne ricorda sopra tutto quando il pensiero corre ai costi della politica (e, inevitabilmente, alle tasse ed alle imposte). Il problema mi sembra sia, ancora una volta, l'impostazione, il punto di vista da cui ci si pone. Il costo della politica, quello percepito negativamente dal cittadino, è dato innanzi tutto dalle inefficienze: se ci fosse efficienza ed efficacia, nessuno penserebbe che il numero dei ministri e dei ministeri è eccessivo. Significa che dovremmo tutti insieme cercare e trovare un metodo affidabile per determinare il numero dei ministeri e per fissarne in modo inequivoco le competenze. Una cosa è certa: il numero dei ministeri (e di quanto è collegato) non può e non deve essere fissato in base a quello dei signori che ciascun partito intende sistemare. Utilizzare la piramide di Maslow per immaginare le competenze ed il numero dei ministeri potrebbe essere un'idea di partenza. Perchè proprio Maslow? Perché a me pare l'uomo che con la maggior chiarezza ha descritto il grado dei bisogni e la scala lungo la quale essi si dispongono, e ne ha tratto considerazioni di tutto rilievo circa il comportamento degli individui. Sopravvivenza, sicurezza, accettazione, affermazione, autorealizzazione sono i gradini di una piramide che in qualche modo indirizza l'azione di chiunque, a qualunque titolo ne faccia parte. E dunque anche delle istituzioni. Possiamo scommettere che un modo diverso dall'attuale di guardare alle competenze dei ministeri avrebbe almeno un vantaggio: disegnare competenze affidabili per strutture credibili e, quel che più conta, stabili nel tempo. Quanto meno, si fermerebbe la corsa alla moltiplicazione e, forse, si limiterebbe il valore del vecchio adagio che affida al numero dei partecipanti la continuità del potere, indipendentemente dal valore degli uomini e delle strutture.

Proprio perchè il numero è ancora considerato potenza, sembra sia stato aperto ufficialmente il mercato dei senatori (e non solo, probabilmente). Non resta che sperare che, non ostante la domanda, l'offerta di senatori sia inesistente. O almeno che il prezzo da pagare sia talmente alto da sconsigliare l'acquisto. Nessuno mai, mi pare, ha giurato sulla fede dei mercenari! Ed è questo, forse, il punto più squalificante di questo mercato: l'acquisto viene proposto non al fine di disporre di amici fidati (che sarebbe già disdicevole e stupido: l'amicizia e la solidarietà non si comprano a botte di euro, almeno non sempre), bensì soltanto perché quell'uno o due voti pagati provochino la caduta dell'attuale Governo. Che miseria! E quale consonanza con almeno uno dei principi che sembra improntino l'azione della "mafia", che, si dice, sia oggi in Italia l'impresa dal maggior fatturato.

*Docente di marketing,
consulente di comunicazione
e gestione d'impresa