Numero 189 - Luglio 2012
EDITORIALE - STORIA OGGI
Vacanze? Boh!
di Paolo M. Di Stefano
Buone vacanze: con i tempi che corrono, il tradizionale augurio sembra acquistare un che di ironico condito con un pizzico di rassegnazione e uno spruzzo di disinteresse generato dal senso di impotenza che pare cogliere la maggioranza di noi. Al di là delle parole e degli inutili vaneggiamenti di quella che dovrebbe essere la classe-guida della politica e dell’economia italiane, si ha l’impressione che null’altro esista se non il vuoto. Per di più, un vuoto assoluto quanto assordante. In un certo senso, addirittura comico, tanto è assurdo.
Anche perché diviene sempre più difficile vestire il termine “vacanza” di connotazioni positive: quel “non lavorare” che significava un tempo soltanto “riposo e rigenerazione” oggi sempre di più significa “mancanza di lavoro”. E quando il lavoro manca, non esistono spine da staccare.
Allora, intanto, vediamo se si riesce a trasformare questo luglio, che appare denso di minacce e che nulla di buono promette neppure per il successivo agosto, in una occasione per pensare. A noi, all’Italia, all’Europa, alla Politica, all’Economia, alla Giustizia. Che sono, poi, i nostri fatti quotidiani, i nostri problemi di ogni giorno, proprio quelli che “ai bei tempi” lasciavamo dietro le spalle e che oggi, invece, è bene portare con noi con un obbiettivo: pensare a qualche soluzione praticabile. Magari, a tempo perso. Hai visto mai che il famoso stellone d’Italia ci regali un lampo di luce risolutiva? Magari insaporito da un cucchiaino di ironia.

E giugno non è stato avaro di spunti.

Il riconoscimento della cittadinanza onoraria di Milano al Dalai Lama
è saltato o, forse, soltanto rimandato a tempi migliori. Per ragioni di opportunità, si dice, in una con le pressioni del console cinese, il quale avrebbe minacciato il boicottaggio dell’Expo 2015.
Naturalmente, la notizia va presa – come si usa dire – con le molle o, se si preferisce, con beneficio di inventario. Ma anche se si trattasse della classica bufala, il solo fatto che se ne parli ne fa un tema di non trascurabile importanza.

Personalmente trovo l’episodio di interesse particolare sotto almeno due aspetti.

Milano si conferma capitale morale d’Italia. In un momento di decadimento a mio parere gravissimo dei valori della morale, dell’etica, della Politica, la più importante città d’Italia balza alla testa della corsa al ribasso, in un certo senso chiaramente dissociandosi da quelle altre città – meno importanti, più piccole, di solito più o meno a rimorchio – le quali, invece, della cittadinanza onoraria al Dalai Lama hanno fatto un fiore all’occhiello. E, cosa ancor più importante, chiamandosi fuori da un mondo chiaramente corrotto che impiega il suo tempo ad ascoltare le conferenze di Sua Santità, ad apprezzarne gli insegnamenti, a dargli riconoscimenti anche per l’azione di tolleranza tra le religioni portata avanti con coraggio e dedizione.
Perché è ormai corruzione bella e buona quella che si oppone alla difesa a oltranza di una economia (la nostra liberista ed occidentale) di rapina, egoista, priva di senso morale e di ogni altro limite che non sia la massimizzazione del profitto ad ogni costo.
Come è corruzione il volersi opporre al ricatto che alcuni Paesi, una volta considerati in via di sviluppo e oggi sviluppati fino a potersi presentare come veri e propri padroni; al ricatto, dicevo, consistente nella minaccia di boicottare Expo 2015 nella eventualità di una cittadinanza onoraria al Dalai Lama. Corruzione e insipienza, poiché il correre il rischio della mancata partecipazione alla Esposizione null’altro sarebbe se non pura follia.
E allora Milano, che della razionalità, della cultura, dell’etica e dell’economia è guida in Italia, ha deciso: il Dalai Lama è stato in Comune, e non ha potuto che apprezzare lo sforzo degli amministratori, illuminati e socialmente orientati, ospiti eleganti e cortesi, non ostante le brache calate di fronte ai nemici di Sua Santità.

La coerenza degli economisti e dei Politici ha avuto un suo alto momento. Gente che ha cercato in più di una occasione di apparire come censore di quanto in altri Paesi accade – dal lavoro minorile alla condizione della donna, al trattamento simile alla schiavitù riservato ai lavoratori, anche a quelli impiegati in Italia nei retrobottega e nel sottosuolo di via Paolo Sarpi, a Milano (e per la verità anche altrove) – ha coraggiosamente rifiutato di condizionare i rapporti a una modifica della realtà, preferendo subire l’onta di andare a produrre là dove il costo del lavoro è vicino allo zero e le garanzia per i lavoratori anche, magari rivendendo i prodotti con il marchio “made in Italy”, con questo anche affermando il ruolo guida della creatività italiana.
La quale creatività non si è spinta fino al rifiutare l’acquisto dei prodotti costruiti sulla pelle dei bambini e su quella di lavoratori pagati quasi niente, preferendo lasciare alla nostra gente e ai nostri lavoratori la possibilità di criticare ma anche di acquistare prodotti il più delle volte di scarsissima qualità e sicurezza, ma quasi sempre offerti a prezzi inferiori. E, anche, quella di sopportare una drastica riduzione dei posti di lavoro e del numero delle imprese, così dimostrando la solidarietà che anima tutti noi nei confronti dei lavoratori dell’Est Europa, della Cina, dei Paesi sottosviluppati, e di ogni altro sito nel quale si possa produrre a costi più bassi che da noi.

Non è un caso che l’AD della Fiat abbia dichiarato, in Cina, che la sentenza che impone la riassunzione dei cento e passa lavoratori discriminati a Pomigliano è un fatto folcloristico, proprio del nostro Paese, ed anche segno delle difficoltà di investire in Italia. E’ la conferma di una cultura incapace – peggio: di una cultura che volontariamente, scientemente si rifiuta di farlo – di una cultura incapace, dicevo, di realizzare che l’attuale sistema economico è un prodotto che percorre ormai la parte discendente del suo ciclo di vita e che occorre correre ai ripari, modificandolo là dove ha dimostrato di essere debole e malato. E bisogna farlo con la massima urgenza. Soprattutto, è la conferma che questo tipo di cultura pervade di sé tutti i Paesi, tutte le imprese, tutte le attività di scambio e in forza della quale gli scambi si attuano alla ricerca del massimo profitto individuale; le imprese e gli imprenditori corrono là dove la manodopera costa meno; l’unico e solo valore perseguito è lo sfruttamento di ogni e qualsiasi opportunità al fine del guadagno nell’immediato.

Che è un altro problema, certamente ancora più importante: l’utile è cercato e fortemente voluto indipendentemente da ogni e qualsiasi visione generale e comune alla società. Ed anche a costo di mettere in forse i risultati raggiunti con il riconoscimento e la difesa dei diritti umani in genere e dei lavoratori in particolare. A proposito di questi ultimi, io credo sia incontestabile che i sindacati abbiano in più di un caso esagerato, ma questo dovrebbe soltanto significare che il sistema andrebbe messo a punto, magari anche – io direi, soprattutto – perseguendo la cultura dei lavoratori in genere e dei sindacalisti in particolare.

Manca il disegno di uno Stato e di una Comunità di Stati. Ovviamente, direi: se non sappiamo che cosa lo Stato di cui facciamo parte – anzi: lo Stato che noi siamo! – vuole e deve essere, a me pare sia praticamente impossibile ragionare in termini di comunità di Stati. Perché la comunità di “non-si-sa-cosa” non può che essere a sua volta un “non-si-sa-cosa”, e dunque qualsiasi attività che la abbia come oggetto è destinata ad essere disegnata con un grado di approssimazione certamente inefficace, probabilmente inutile, forse mortale.
E che almeno in Italia sembri non esista più niente a proposito della natura della Stato e dunque dei suoi compiti e delle sue priorità appare cosa conclamata e assolutamente chiara, almeno a giudicare dai vaneggiamenti dei politici: cioè, proprio di coloro che dovrebbero disegnare lo Stato; indicarne i compiti e le funzioni; organizzarlo perché gli obbiettivi possano essere raggiunti con efficacia ed efficienza nei tempi stabiliti. Che sarebbe, poi, la risposta a quei cinque W di cui i nostri imprenditori e non solo si riempiono la bocca, ma il cui reale significato sembra sfuggire ai più. Soprattutto a quegli “uomini di marketing” che in Italia (almeno, ma non solo) a mala pena sanno di cosa parlano, e che non a caso sono la causa vera della debolezza delle nostre imprese. E della incapacità di far concorrenza e di imporsi sui mercati.

La crisi dell’euro appare anche il risultato di questa mancanza di disegno strategico politico ed economico. La moneta unica è stata creata senza che ci fosse alcuna chiarezza su quella “unione degli Stati europei” della quale – proprio in quanto moneta comune – doveva e deve essere l’espressione. Ora, più di qualcuno si lancia nella spericolata proposta di tornare alle monete nazionali, dimenticando che comunque anni di moneta comune non possono non lasciare tracce e, soprattutto, scegliendo la strada solo apparentemente più facile. Occorre, invece, che il collante che indubbiamente l’euro rappresenta divenga realmente espressione di una comunità di Stati consapevoli della necessità di una unione che sia “totale”, politica, sociale, economica e dunque in grado di realizzare la soddisfazione dei bisogni comuni, senza egoismi “interni”. Gli Stati devono abbandonare gran parte delle prerogative di sovranità che al momento difendono a oltranza. Con molteplici vantaggi, non ultimo quello di superare di slancio o quasi i problemi che nascono dai sistemi bancari nazionali. A proposito dei quali (banche e sistemi bancari) bisognerebbe anche ricordare che se le banche sono in qualche modo paragonabili alle imprese (e in un sistema liberale e liberista lo sono), delle imprese devono seguire le regole. E allora, se queste falliscono se male gestite, per le banche deve essere la stessa cosa. Con annessi e connessi.

Uno dei comici che infestano la Politica sembra abbia dichiarato che con l’attuale Costituzione il nostro Paese è ingovernabile. Se fosse vero, ci sarebbe da ringraziare il Dio, per l’ennesima volta misericordioso e buono con noi: significherebbe che grazie alla nostra Carta Costituzionale ci siamo salvati dal pericolo che il “comitico” (parletico di “comico politico”) e i suoi accoliti realizzassero i propri obbiettivi, il perseguire i quali ci ha portato nella attuale situazione di disastro economico, peraltro in questo valorizzando quanto fatto dai Governi e dai politici precedenti. Che è ancora una volta sintomo della esistenza di qualche problema in più del necessario.
In realtà, la Costituzione Italiana è stata e resta una delle leggi fondamentali meglio scritte nel mondo. Certamente non perfetta, poiché nessuna delle attività umane può esserlo, ma altrettanto certamente ottimamente pensata e stilata.
Almeno quanto disattesa. E dunque, sarebbe forse il caso che, invece di affannarsi per cambiarla in modo da farne strumento per obbiettivi di parte, si impegnassero maggiori energie per realizzarla compiutamente.
Forse, però, occorrerebbe che la “classe politica” non fosse in maggioranza costituita da praticoni e improvvisatori, capipopolo più o meno credibili e abili nell’arte dell’imbonimento.
Con il che, sia ben chiaro che anche chi fa di professione il comico ha pienamente il diritto di fare politica e di interessarsi ai fatti politici, esattamente come qualsiasi altro cittadino capace di intendere e di volere. Ma, esattamente come per qualsiasi altro cittadino, sarebbe bene avesse una formazione politica.

La formazione politica dovrebbe essere uno dei pilastri della cultura. Io continuo a chiedermi perché per fare qualsiasi mestiere o esercitare qualsiasi professione e farlo almeno teoricamente bene occorra un periodo più o meno lungo e impegnativo di studio, mentre la stessa cosa non è richiesta per coloro che intendono dedicarsi alla gestione della cosa pubblica, alla individuazione dei bisogni della comunità, alla pianificazione della loro totale o parziale soddisfazione, al reperimento delle risorse necessarie, alla corretta amministrazione.
Cioè, alla Politica.
La quale, tra l’altro e almeno in Italia, sembra oggi cavalcare quella inesistente e stupida argomentazione di una differenza tra “politici” e “tecnici”.
Giugno, in materia, ci ha dimostrato che quei “tecnici” che sanno fare il proprio mestiere nella realtà sono anche degli ottimi politici, almeno nel senso che “sanno identificare obbiettivi”, sanno “pianificarne il raggiungimento”, hanno la “coscienza delle priorità” e, soprattutto, “operano concretamente e in piena coerenza”.
Il che crea un problema non da poco: quale che sia la data delle prossime elezioni, gli italiani saranno chiamati ad eleggere un Parlamento e un Governo composti da persone paragonabili al prof. Monti e ad i suoi collaboratori. Per cultura e capacità. E non v’è dubbio che si tratti dei migliori elementi di cui l’Italia dispone, certamente migliori di chi li ha preceduti e di coloro che, oggi, vi si appoggiano per criticare ma senza neppure un minimo di contributo.
L’azione di Monti e del suo Governo è comunque riuscita a riposizionare l’immagine dell’Italia nel quadrante positivo di quegli assi cartesiani così spesso richiamati dai dilettanti dell’economia matematica, ma ciò non ostante esistenti e concreti.
Con il che, i dubbi che personalmente nutro rimangono inalterati. L’attuale Governo è il migliore possibile, ma questo è nel quadro della nostra attuale cultura economica. E proprio perché gli uomini hanno raggiunto il successo in questo sistema economico, finanziario e culturale, la loro formazione è e rimane coerente e funzionale al sistema stesso. Il che è un pericolo, perché annulla ogni e qualsiasi creatività e quindi ogni e qualsiasi possibilità di trovare vie d’uscita diverse e meglio adatte al rinnovamento. Tanto è vero che – mi pare – proprio la finanza, prima responsabile della crisi, si sta giovando dei rimedi suggeriti e in parte attuati.
Con un risultato secondo me distorto: oggi, è il Presidente degli Stati Uniti che sollecita l’Europa a fare l’impossibile perché venga ricostruito un sistema che proprio negli Stati Uniti ha trovato le radici della crisi. E alla domanda del perché proprio i responsabili della crisi sembrano salvarsi per primi, la risposta è almeno in apparenza semplice: perché sono i più forti, perché noi non sappiamo fare altro che imitarli, perché la loro immagine è vincente, almeno presso di noi.
A proposito di che, l’attuale Governo ha senza dubbio alcuno questo merito: l’avere almeno in parte ricostruito l’immagine dell’Italia. E questo è stato possibile anche perché, io credo, quei “professori” sanno che l’immagine non è pura espressione linguistica, ma un vero e proprio prodotto che va fabbricato e distribuito e che è a sua volta strumentale a una serie pressoché infinita di altri prodotti: praticamente tutti i prodotti della Politica e dell’Economia.

E l’immagine dell’Italia ha con lo spread relazioni intime e indissolubili. Forse un’immagine fortemente positiva non è il solo elemento essenziale perché il costo del danaro per gli Stati sia sopportabile, ma certamente occupa un posto di rilievo sulla scala dei fattori che disegnano questo tipo di scambio. Chi presta danaro, ha sì l’obbiettivo di guadagnare, ma si basa innanzitutto sulla sicurezza, in ciò con assoluta coerenza con quanto Maslow ha efficacemente descritto.
Certo, il dubbio è legittimo: se l’immagine del nostro Paese è in ascesa, perché la differenza di costo del danaro tra quanto pagato dalla Germania e quanto pagato da noi è ancora così grande? E perché il tutto è ancora così volatile?
Io una risposta credo di averla e, soprattutto, di averla già suggerita. Questa: perché il tipo di economia nel quale ci muoviamo è in crisi di sistema, e dunque qualsiasi “azione di promozione” che abbia come obbiettivo solo quello di rivitalizzarlo per quello che è appare destinato a fallire. In tempi più o meno lunghi, ma è destinato a fallire.
Quello che veramente occorre è disegnare un sistema economico “nuovo”, “diverso”, “migliore”. Che non significa distruggere l’attuale, bensì soltanto – e, si badi bene!, non è poco – modificarne alcuni elementi in modo da renderlo meglio rispondente ai bisogni di una comunità che diviene di momento in momento più ampia.
Che è, poi, il senso della globalizzazione.
E che nella pratica si dovrebbe tradurre in un complesso di attività pianificate che abbiano come obbiettivo “il benessere della società” non in termini statistici, ma in senso assolutamente concreto, e dunque che dia la corretta importanza alla produzione della ricchezza; alla distribuzione della ricchezza prodotta e all’equo peso della contribuzione alle attività di uno Stato che sia quello che ogni Stato deve essere: un corpo unico pensoso del proprio “benessere” come e in quanto tale. E dunque capace di formare cittadini consci dell’essere ciascuno cellula della comunità e consapevoli di sapere e potere forgiare e soddisfare i propri bisogni proprio in quanto “cellule di un corpo che deve vivere e deve farlo in modo sano per tutto il tempo”.

Panem et circenses, secondo Giovenale (Satire, X, 81) era quanto bastava per accontentare il popolo romano in piena decadenza. E pare che qualcuno, da noi, la veda più o meno allo stesso modo. Anche incoraggiato, quel qualcuno, dalla soddisfazione per la vittoria dei moderni circensi del pallone sulla mai abbastanza antipatica Germania.
La quale sembra godere di scarse simpatie da parte nostra anche perché i suoi leader insistono nel chiedere un rigore assoluto nei conti pubblici, e non solo. Che per quei grandi improvvisatori che noi siamo (e con noi, qualcun altro che se la passa ancor peggio) è quasi una bestemmia.
La Germania insiste sul rigore, con questo, si dice, mettendo in forse o addirittura impedendo la (ri)crescita economica.
Vorrei sommessamente – ma non poi più che tanto – far notare che oggi l’economia tedesca sembra essere la prima in Europa, e, forse, la sola sana e con qualche speranza di incremento, e che questo è dovuto non soltanto alla capacità di perseguire i propri interessi in maniera prioritaria (in questo, null’altro facendo che seguire i principi del sistema economico in atto); ma anche al controllo dei conti, i quali non possono non quadrare. Come principio generale, al quale qualche eccezione è sempre possibile, ma come eccezione, appunto.
I conti devono quadrare. E la certezza dello sviluppo non può prescindere dalla correttezza dei bilanci.
Poi, vorrei anche ricordare che per anni l’industria tedesca è stata un paradigma per noi e per le nostre imprese. Un esempio positivo, al raffronto con il quale si è fatto ricorso ogniqualvolta qualcuno ha avuto qualcosa da ridire sui nostri prodotti. Dall’automobile alle lavatrici alle macchine utensili al burro alla formazione. Quasi la perfezione, l’industria tedesca.
Possibile che non si sia imparato niente?
Io profitterei di luglio e agosto per pensare un poco anche a questo, e per chiedermi se per caso la soluzione dei nostri problemi non stia almeno in parte nel cercare la “qualità assoluta” non soltanto dei nostri prodotti, ma di tutto il sistema Italia.
E di farlo a cominciare dalla identificazione dei “Valori” da organizzare in sistema e da porre come ispirazione e guida a ogni nostra attività di comunità consapevole di un ruolo nei destini dell’umanità.


*Docente di marketing,
consulente di comunicazione
e gestione d'impresa